di Danilo Arona
Mi capitò cinque anni fa. Una notte di Halloween a Dolceacqua, in Liguria. Ovvero, la Notte di Ognissanti organizzata da quelli di Autunno Nero. Halloween a Dolceacqua è sempre stata un’esperienza oltre i Limiti. Quell’anno, tra Michael Myers, il Corvo, Jason, streghette e stregoni, fece capolino persino Melissa, giubbotto rosso, jeans, bionda e cerone da morta. L’avevo già notata che si aggirava con ieratica lentezza tra le altre creature della notte e feci in modo di arrivarle di fronte. Le chiesi il nome e lei mi rispose: «Melissa, piacere». Ribattei: «Capperi, sei pure vestita come lei», e lei mi colpì sotto la cintura: «Guardi che non sono affatto mascherata». Forse si trattava un effetto del Rossese…
E allora? Dopo cinque anni ci vedo almeno un paio di alternative. O mi sono inventato io la sciocchezzuola per scrivere il post figo (perché è sport nazionale praticato nel social network), oppure trattasi di episodio realmente accaduto, così simpaticamente connesso all’atmosfera di Halloween, da doverlo raccontare.
Procediamo. Giusto per i pochissimi che non lo sanno ancora, nella notte di Halloween i ragazzi si mascherano con look dark e horror e si fa Carnevale. A Dolceacqua, stupendo borgo dell’entroterra Ligure e regno della gente di Autunno Nero, il tutto viene amplificato ai massimi sistemi. Ci sono persino dei pensionati che si mascherano. Le maschere predilette sono ovviamente quelle del mito cinematografico e le più gettonate le menziono all’inizio del post. Ma puoi trovare anche svisate sul tema e reinterpretazioni da capire.
L’eventualità di scoprirci anche una “Melissa” si situa in questa potenzialità di repertorio. Però Melissa, fantasma di una ragazza investita in autostrada in una notte di dicembre del 1999, non è così famosa e non ha quella grandezza mediatica al pari di Jason e del Corvo. È un personaggio che ho fatto “mio” e che ho usato in diversi lavori, l’ultimo si chiama Km 98. Allora le possibilità interpretative del brevissimo interludio con la ragazza di Dolceacqua diventano almeno tre. Partiamo dalla prima: me lo sono inventato e ve la sto menando per mettere in piedi una puntata della rubrica. Ma no, che idiozia sarebbe? E poi, inventare per inventare, mi sarei concesso qualcosa di molto eclatante. Due: la ragazza è molto spiritosa nonché sveglia e cita, alla sua maniera, il famoso finale, immortalato anche al cinema, de La maschera della morte rossa di Edgar Allan Poe, giusto per tirarsela con un perfetto sconosciuto non mascherato che potrebbe essere suo nonno. Tre (eventualità alquanto interessante): la ragazza si chiama sul serio Melissa e tutto il dialogo che ne segue è frutto di un minuscolo delirio interpretativo da parte mia. Ovvero, io che la accuso di essere agghindata “come lei” (al momento della morte) e la ragazza che risponde, giustamente (perché sul serio le cose stanno così), di non essere affatto mascherata. Ed è vero, accipicchia, giubetto rosso, jeans e un trucco vagamente dark non costituiscono di per sé una maschera di Halloween.
E dunque? Tento di arrivarci. Tre anni dopo fa ho partecipato a una delle tante, bellissime serate di Borderfiction. Milano, Hotel Admiral, congrega di scrittori assolutamente fantastica (Altieri, Cappi, Pinketts, Spasaro, Di Marino, Ricciardiello, Pizzo, Catalano, Narciso…) e lì, nel regno dei “bondiani”, Edoardo Rosati e io presentiamo l’ultima scorreria di Melissa nel regno del Reale, appunto Km 98. Come sempre capita a questi eventi, partono dibattiti anche surreali sulla paura più grande e autentica che uno scrittore possa provare sulla propria pelle, tentando poi di trasmetterla ai suoi lettori. Andrea Carlo Cappi ne fa geniale sintesi citando, appunto, il finale de La maschera della morte rossa, laddove il principe Prospero scopre che sotto la maschera dell’intruso non invitato alla sua tragica festa (mentre il mondo all’esterno è devastato dalla pestilenza) non esiste alcuna forma tangibile. Decodificando, la maschera non è affatto tale.
Allora che ci raccontano in buona sostanza Poe, l’amico Cappi e l’insignificante episodio di Dolceacqua? Che forse – il dubbio ha sempre diritto di cittadinanza – la paura più grande per tutti è il guardare in faccia la realtà, soprattutto quanto cade di colpo la maschera/filtro che un complesso sistema di ingannevoli convenzioni le ha modellato attorno. Guardarla, la realtà e, mannaggia, scoprirne il vero, insopportabile volto. Non voglio spingermi oltre, ma a Dolceacqua, secondo me, successe una piccola cosa che sta a suo modo tra la sincronicità di Jung e la fisica quantistica: quella ragazza si chiamava sul serio Melissa perciò era Melissa. Tutto il resto costituiva la Maschera.
L’anno scorso ad agosto, al Festival della Paura di Porto Potenza Picena, capitò ancora qualcosa di analogo. Io, sempre con Edo Rosati, fui ancora vittima e complice di quello straordinario miracolo di materializzazione scenica che qualche volta capita a scrittori fortunati, ovvero la visione in diretta di concrete sembianze dei parti delle reciproche fantasie. Sul palco, davanti a noi, dopo un lungo e interessante dibattito sulle varie paure dell’umanità, vedemmo in diretta una delle scene più intense di KM 98, ovvero il fantasma di Melissa che si manifestava nel confessionale a una stupefatta e tormentata Suor Rachele.
Devo rivelare che nella costruzione del romanzo detto passaggio faceva parte di quella classica dialettica, tipica dei meccanismi del genere thriller, tra climax e anticlimax, figure retoriche in apparente contrasto il cui lavoro dinamico, in una struttura chiamata “a imbuto”, presuppone una “esplosione” emotiva in grado di coinvolgere al meglio possibile il lettore e/o lo spettatore: in parole più semplici, era un capitolo di “preparazione” allo scatenarsi della furia vendicativa del fantasma. In verità non fu così: la bravissima direttrice artistica Elena Galassi con due trovate sceniche genialmente minimaliste e le giuste luci ci fece “vedere” un confessionale dove Benedetta Morichetti (Melissa) e Sofia Boschi (suor Rachele) strapparono brividi e applausi in un crescendo fenomenale che si concludeva con la problematica frase “Loro colpa, loro colpa, loro grandissima colpa”.
Perché scrivo “problematica”? Ovvio, si trattava di una lucida e intenzionale citazione stravolta del Confiteor, la preghiera penitenziale della celebrazione eucaristica di rito romano (Mia colpa, mia colpa. Mia grandissima colpa). E so bene che quando ci sono di mezzo argomentazioni del genere, bisogna avere la mano un po’ delicata e procedere, come si dice in gergo, con i piedi di piombo anche se esiste da anni un “horror teologico” che all’apparenza non si cura affatto dei sentimenti dei cristiani devoti, ma va da sé che “milita” nelle file del cosiddetto Bene. Così è nella struggente confessione della sfortunata Melissa, che non si prende affatto gioco del rituale cristiano, ma pretende l’attenzione di chi per mestiere o per missione dispensa il dono della misericordia: «… gli altri hanno commesso peccato, suora, gli altri, non io, ma gli uomini che rapiscono, che picchiano, che stuprano, che uccidono».
Ovvero, Melissa è stata una vittima degli “altri” e lo urla nel confessionale prima di ridurre suor Rachele a una sorta di fantoccio.
«… un fantoccio che sfidava le leggi anatomiche. Il gomito destro descriveva un angolo diametralmente opposto alla posizione naturale. Il torso era riverso sul muro, con le gambe coricate da un lato e la testa ad angolo acuto sul collo. Un mucchio umano su una pozza d’urina» (da KM 98, pag. 87).
Ebbene, quella notte – un po’ magica come quella succitata di Dolceacqua – mi ritrovai di fronte alla Melissa autentica. Identico trucco spettrale, jeans e giubbetto rosso, ma soprattutto lo spirito di Melissa che aveva invaso, come una Furia secolare, la piccola (grande) Benedetta Morichetti. Perché Melissa, fuori dall’invenzione, è in grado di diventare vera: un fantasma irrazionale, un agente di Morte, una sorta di kamikaze energetico che non può morire essendo già morta, che intende stigmatizzare la mostruosa indifferenza che ormai ha attecchito in troppe persone, in Italia come altrove, che di fronte agli “Altri” (quelli che rapiscono, che picchiano, che stuprano, che uccidono…) voltano la testa dall’altra parte perché la faccenda non le riguarda. Quell’indifferenza che fa sì che, nel drammatico contesto epocale che stiamo vivendo, nessuno alla fine sia completamente innocente. Perché in fondo – persino in parte gli autori se ne sono dimenticati presi dai loro meccanismi in salsa horror – anche Melissa è una Migrante. Rapita, picchiata, stuprata da belve dell’Est europeo e trasportata in Italia per essere avviata alla prostituzione, lei riesce a fuggire nottetempo, intorno alle 5 del mattino del 29 dicembre 1999, dal pulmino che se ne sta viaggiando in direzione Padova. Caracolla rovinosamente in mezzo all’autostrada per essere travolta poco dopo alle 5, 20 da un automobilista sonnolento.
Temo fortemente che questo preambolo di storia sia autentico e soprattutto non sia isolato. E confesso che, senza la struggente interpretazione di Benedetta Morichetti, non avrei ritrovato la Melissa senza Maschera di Dolceacqua.
Peraltro Benedetta, per un’ora almeno, fino a quando restò vestita come Lei, continuò a essere Lei. La gente la chiamava per nome (Melissa!) e Lei rispondeva.