di Franco Pezzini
In Un autentico caso di infestazione (An Authentic Narrative of a Haunted House), 1862, Joseph Sheridan Le Fanu gioca come al solito a spiazzare, sornione: perché ciò che intriga più della mascherata di spettri – del resto denunciati implicitamente fin dal titolo – è il meccanismo per cui gli abitanti della casa infestata tendono a non riconoscerli per tali, e si lambiccano il cervello su ipotetici ladri od intrusi. Per quanto ampollosamente giudicati fededegni, questi testimoni (e qui sta il sogghigno dell’autore) mostrano una divertente lentezza a rendersi conto dell’impossibile: e se gli spettri imitano con una certa efficacia aspetto e posture dei vivi (come del resto predicava Swedenborg a proposito dei suoi spiriti umani, troppo umani), viene da domandarsi quanti altri in precedenza abbiano attraversato inosservati la strada di questa brava gente.
A firma di un autore molto attento a capitalizzare il sapore e l’ambiguità delle storie di spettri tradizionali, il racconto citato è però un ottimo esempio di come la ghost story letteraria sparigli le carte, muti gli equilibri e i focus narrativi, cambi il modo di parlare dei fantasmi. Dove lo scarto non sta tanto in una natura fittizia invece che “genuina” dei medesimi, perché la differenza tra il fantasma recepito dai sensi e quello evocato dalla fantasia di uno scrittore e di lì scatenato nel mondo può non essere marcata quanto tenderemmo a considerarla.
Lord Halifax, filologicamente attestato sulle storie vere, offre (abbiamo visto) una callida iunctura di elementi anche ripetitivi, inconclusi, enigmatici – ciò che in fondo contribuisce al loro fascino. Ed è su simili piste sottili che si muovono gli acchiappaspettri delle varie società spiritiste e parapsicologiche attivissime fin dall’Ottocento, coi loro bollettini e le memorie degli esperti. La ghost story letteraria (e poi su schermi) chiede qualcosa di più o piuttosto di diverso.
Fantasie narrative sui fantasmi sono antiche quanto l’uomo, ma con il gotico conoscono una nuova primavera – fin dal seminale The Castle of Otranto, 1764, dove impazzano su uno sfondo di cartongesso idealmente a prefigurare una storia anche teatrale; e anzi con il termine della prima tornata gotica inizia la cosiddetta Golden Age of the Ghost Story che dura fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale. L’ecatombe della guerra pare saturare l’Occidente di morte a tal punto da costituire una sorta di Ghostxit – anche se, ovviamente, il genere non muore affatto e prende a confrontarsi in modo sempre più stretto con la nuova macchina per fantasmi, il cinema. E magari con la televisione, come sa chiunque di noi abbia rabbrividito da ragazzino davanti a Il segno del comando, 1971, o a Ritratto di donna velata, 1974 (messo in onda ’75).
Ma già dagli esempi citati ci è chiaro lo scarto tra gli spettri di letteratura & schermi e quelli folklorici e tradizionali. La ghost story da genere narrativo può per esempio, come nel caso citato di Le Fanu, spostare il focus e il senso della narrazione; può offrire ai fantasmi parti più strutturate (come in The Canterville Ghost), o invece assorbirli in atmosfere spettrali impersonali ma non meno inquietanti (emblematiche quelle di Walter de la Mare); e spesso apparecchia più trama, più “originalità” ed effetti più drammatici – fino a destinare tragiche sorti a chi abbia imprudentemente fronteggiato le ombre. Se poi una dimensione spaziale rileva anche per entità paradigmaticamente inafferrabili come quelle in questione (e che anzi si presentano in genere come fenomeni topici), una delle forme-tipo della ghost story è costituita dai racconti sulla casa infestata, sorta di piano cartesiano dell’Obsideo ergo sum, e scrigno di vicende spesso articolate.
Una splendida panoramica è offerta in questo senso dalla raccolta Gli inquilini del piano di sopra. Case infestate nelle ghost stories, a cura di Gabriele Scalessa per i tipi Nova Delphi (pp. 240, € 11, Roma 2016). Presentati da una densa introduzione del curatore, scendono così in campo Baldwin, Blackwood, Bulwer-Lytton, Cram, Gilman, Le Fanu (con il racconto citato), Morrison e Wells: e il risultato è una pirotecnia fantastica che merita assolutamente la lettura. Cercando di non spoilerare in modo indebito – anche se, per tutti, il piacere sta nell’eleganza narrativa almeno quanto nella fantasia di trama – e rinviando comunque al commento di Scalessa, mi limito a qualche osservazione.
La serie è varata da un testo spesso citato e considerato un po’ a monte dell’intero filone, Gli infestati e gli infestatori, o la casa e la mente (The Haunted and the Haunters; or: The House and the Brain) di Edward Bulwer-Lytton: dove le terrifiche vicende affrontate in una casa infestata nel centro di Londra si rivelano legate all’opera di un (defunto) mesmerista. Il racconto è qui presentato nella versione breve che l’autore trasse nel 1864 dal testo omonimo più articolato del 1859 (gli interessati possono trovarlo con qualche fortuna tra i remainders come La casa e il cervello a cura del compianto Malcolm Skey per Theoria, 1985): del resto la scelta di scorciarlo fu di tipo pragmatico, legata all’intervenuta pubblicazione di un’altra opera di Bulwer-Lytton, A Strange Story, 1862, che presentava in forma più estesa temi consimili (scrupolo forse curioso da parte di un autore versatilissimo, in parallelo viveur e politico di qualche fortuna, la cui opera occupa trentasette volumi). Senza anticipazioni inopportune, è almeno possibile notare che la chiave sta in quel “brain” del titolo originario: quale può essere il lascito di una mente, o anche materialmente di un cervello, per quanto imputridito sotto la parrucca del suo possessore? L’attenzione non è insomma tanto alla carnevalata di spettri, per quanto impressionante, quanto ai meccanismi che la scatenano imprimendole una certa coloritura di Male: un’azione occulta del tipo caro all’autore, interlocutore del mago francese Éliphas Lévi e a sua volta praticante riti almeno curiosi (penso a certi oggetti ancora in bella evidenza nelle vetrine della sua proprietà di Knebworth).
Uno spunto, quello tecnico-occulto, che, saltando più avanti tra i testi della raccolta troviamo per esempio richiamato liberamente e con grande eleganza in quel gioiello che è Rue Monsieur-le-Prince, n. 252, a firma del grande architetto americano Ralph Adams Cram, 1895: se di lui è celebre soprattutto la progettazione di chiese neogotiche, ben altro genere di architettura connota la casa parigina del titolo, maledetta da usi infami della vecchia proprietaria e dai successivi sortilegi di un erede mancato. Nel testo di Bulwer-Lytton il responsabile del Male era un esponente di quel Settecento che i vittoriani vedono quale età dissipata e libertina, un mix tra Cagliostro e Saint Germain ma molto più luciferino della somma di entrambi; mentre lo stregone che nel racconto di Cram maledice la casa è citato come Sar Torrevieja, a caricatura in nero del coevo Sar Mérodack Joséphin Peladan, occultista e mecenate in quella stessa Parigi. Quanto ai riti della casa e al demone stesso scatenatovi, possono far pensare a echi di voci sull’americano Paschal Beverly Randolph, profeta della magia sessuale ben prima di Crowley e di cui Cram potrebbe aver sentito parlare.
A sua volta il padre della SF vittoriana, Herbert George Wells, è presente nella raccolta con una storia solo apparentemente tradizionale di infestazione in un castello, La sala rossa (The Red Room), 1894, pubblicato 1896. Qui l’originalità è garantita dall’intensità senza faccia di un male tracimante dalla sala stregata – anche qui si vagheggia all’inizio di spettri aristocratici – fino a impestare gli arredi dell’intero edificio, grondare dalle sue mura, trasfigurare in modo sinistro i vecchi che vivono alla sua ombra.
Ma a ristagnare in queste case e mobilitarne le ombre non sono solo occultismo o maledizioni. È una brutta storia banalmente umana quella sottostante l’epopea di spettri narrata da Le Fanu; come pure l’altra che l’involontario, buffo sensitivo Jim Shorthouse percepisce in una sordida pensione americana ne Il caso dell’uomo che origliava (A Case of Eavesdropping) del grande Algernon “The Ghost Man” Blackwood, 1900. Pur paludata qui dall’ironia della narrazione, in un quadro ambientale strepitosamente delineato, l’infestazione è raggelante.
In altri casi poi la causa specifica dei fenomeni resta equivoca: come accade nel terribile, bellissimo La sedia a dondolo (The Rocking Chair) di un’autrice americana da noi piuttosto sconosciuta, Charlotte Perkins Gilman, 1893 – una fiaba nera sul potere del desiderio che qualunque riassunto impoverirebbe, leggetela; nel quasi coevo, godibile Il fantasma finto e quello vero (The Real and the Counterfeit), 1895, a firma della scozzese Louisa (sposata) Baldwin, una delle sorelle MacDonald tanto importanti per la storia di arte e letteratura vittoriana, e che qui si misura con una vicenda certo apprezzata da Lord Halifax; o ne La presenza nella camera all’ultimo piano (The Thing In the Upper Room), 1910 dell’inglese Arthur Morrison, dedito di solito a polizieschi. Pur apparentandosi alle storie tradizionali proprio nella cifra di un’ambiguità frantumata, con rimandi sfilacciati a indefiniti catene seriali di apparizioni e ossessioni, nondimeno in questi testi lo stacco è evidente già nei drammatici finali ammanniti. Resta l’idea di uno spazio – anche banale, quattro mura, tetto e soffitto – dove non sembrano valere le regole di questo mondo, né i rapporti consueti con il tempo (si può rivivere il passato) o con l’individuazione (si può restare ossessi). Qualcosa in fondo di ben più disturbante del povero fantasma tradizionale, inquilino che col suo rumore – quasi di provocazione a un certo composto assetto emotivo e sociale – spezza una prevedibilità ritualizzata davanti al tè delle cinque per esservi poi inesorabilmente riassorbito.
Ma a parte il tema intrigante e la scintillante qualità letteraria delle prove, la raccolta di Scalessa vede un ulteriore punto di forza nella presenza di testi non troppo o per nulla noti ai lettori italiani, e persino di autori vergini di attenzioni nostrane: qualcosa che richiama alla vastità di un bacino – di opere, oltretutto, fuori diritti – che meriterebbe attenzioni assai più ampie di quelle in genere riservate oggi dall’editoria italiana. Anche se è vero che tali ombre perturbanti che sollevano il ditino a porre domande, che richiamano l’attenzione sulle infestazioni di un ambiente o di un mondo, che questionano sul rapporto con un passato che non passa, apparecchiano macchine per pensare assai più pericolosamente sottili e formative dei finti, funzionali ribellismi di non-morti ggiovani di lotta & di governo (o dello smaccato, tranquillizzante perbenismo di certo ubiquo poliziesco modaiolo – ma si va su altro terreno). Onore dunque agli editori – in genere piccoli – che non si rassegnano a una Ghostxit pelosa e mettono in circolazione questi gioielli dell’inquietudine.
Che per inciso ammoniscono a pensarci bene, prima di affittare per queste vacanze qualche stanza stranamente economica. Buonanotte.