di Gioacchino Toni
Patrizia Magli, Il volto raccontato. Ritratto e autoritratto in letteratura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016, 270 pagine, € 16,00
«Questo libro si propone di capire non solo il modo in cui un volto narrato, grazie all’efficacia descrittiva che lo rende vivo e reale, sia parte integrante della strategia narrativa di un testo, ma parallelamente cerca di raccontare anche un’altra storia. Tenta di scoprire come un determinato uso del linguaggio verbale sia capace di trasformare, con i suoi scarsi mezzi, il “dire” in un “vedere”; come riesca a convertire il suo lettore in un testimone oculare; e come, trasformando un mondo di carta in un evento sensibile, riesca a convertire i limiti delle parole in elementi della sua forza evocativa» (p. 14). A tal fine l’autrice, Patrizia Magli, docente di Semiotica all’Università di Bologna ed all’Università IUAV di Venezia, passa in rassegna una lunga serie di testi letterari.
Nella prima parte del saggio, la studiosa indaga come la conoscenza fisiognomica si sia inscritta in una tradizione d’immagini e di figure retoriche ruotanti attorno alla rappresentazione. Vengono analizzati gli accorgimenti a cui è ricorsa la letteratura al fine di rappresentare verbalmente ciò che appare come irrappresentabile. Nella seconda parte del volume l’autrice riflette sul ritratto e sull’autoritratto nella letteratura, soprattutto contemporanea, alla ricerca dei meccanismi attraverso i quali la scrittura, piuttosto che descrivere il voto, miri ad evocarlo attraverso «un uso particolare del linguaggio che proprio del linguaggio sembra cancellare la mediazione per toccare direttamente i sensi, i nervi, le emozioni» (p. 16). L’autrice mostra come la resa verbale del volto dipenda da precise scelte strategiche adottate dallo scrittore e non sembri condizionata dai limiti della parola. Anzi, le limitazioni del linguaggio vengono sfruttate: «E’ la scrittura che, con la sua capacità di organizzare e proprietà astratte con le caratteristiche figurative delle parole, sollecita inaspettate impressioni sensibili, attualizza una certa atmosfera percettiva, suscita l’incantamento dei nostri sensi» (p. 17).
Il viso di un essere umano, nel suo essere diverso da qualsiasi altro viso, manifesta la singolarità dell’individuo, la sua identità visiva che lo rende diverso ed unico rispetto a tutti gli altri esseri umani ma, nel suo essere supporto d’identità, il viso è instabile, soggetto a continue trasformazioni ed a causa dell’evanescenza con cui si presenta tende a sottrarsi al linguaggio. Paradossalmente più la realtà che si intende rappresentare attraverso le parole è concreta, più il linguaggio sembra trovarsi in difficoltà; le parole sembrano più a loro agio nel descrivere concetti astratti, stati emotivi e mondi interiori, che non a rappresentare mondi concreti e corporei. Nel testo letterario l’evocazione di un volto si costruisce all’interno della costruzione complessiva della narrazione, è un elemento mobile che si trasforma continuamente nel divenire dei rapporti con altri personaggi durante la narrazione.
L’autrice sottolinea come il linguaggio verbale sembri essere inadeguato ad affrontare la ricchezza della realtà percettiva ed i tratti somatici utili ad identificare un individuo. La relazione tra vedere e dire si presenta complessa, tanto che Michel Foucault (Le parole e le cose) rivela il décalage tra il dicibile ed il visibile. Non è un caso se molti scrittori hanno accuratamente evitato di addentrarsi in descrizioni fisiche dei personaggi. Alla difficoltà di catturare la singolarità attraverso le parole, che invece tendono al generale, si aggiunge l’ulteriore complicazione, nel caso si voglia descrivere un volto, derivata dalla simultaneità di più segni concomitanti. Mentre nel mondo reale la percezione del volto è continua e simultanea, nella descrizione letteraria non può che essere discontinua, frammentaria e lineare. La descrizione letteraria, dopo aver prelevato, attraverso un processo di selezione, materiale iconico, è costretta a “linearizzare” i tratti scelti.
Molti personaggi della letteratura vengono introdotti attraverso una loro descrizione fisiognomica, in diversi casi la fisionomia del personaggio si presenta come vero e proprio “ritratto” che funziona da premessa alla narrazione. Le descrizioni fisiognomiche lavorano come anticipazioni, creano aspettative, predispongono il lettore nei confronti del personaggio. Il ritratto sembra produrre un discorso “secondo” rispetto a quello degli eventi narrati.
Nella narrazione l’identità del personaggio deve essere garantita da una marca di permanenza che si mantiene nonostante i cambiamenti a cui è sottoposto e questa identità, soprattutto nei testi visivi, è affidata al volto. Tale persistenza ha una funzione anaforica (mantenere traccia del passato) e cataforica (stabilire attese), dunque, oltre ad assicurare riconoscibilità e continuità, costruisce prevedibilità. Il ritratto, oltre a garantire la permanenza del personaggio, è supporto delle sue modificazioni.
Eventuali ritratti che ricorrono a dissonanze descrittive generano una descrizione contraddittoria che, in linea con la tradizione fisiognomica, secondo cui un personaggio positivo deve per forza essere chiaro, fisso e costante, non può che mettere in allarme il lettore circa la moralità dell’individuo descritto. La corrispondenza tra fisico e morale, ricorda l’autrice, è particolarmente evidente nella letteratura francese a partire dal tardo Settecento e tutto ciò è in buona parte dovuto alla fortuna della pubblicazione in Francia di Lavater (Frammenti di fisiognomica). La corrispondenza fisico/morale attraversa la grande letteratura francese ottocentesca. In Balzac, ad esempio, l’aspetto fisico, ed in particolare il volto, dei suoi personaggi riflette il loro destino.
«Un tipo fisiognomico incarna un progetto e, nello stesso tempo, è un principio di fissazione semantica che, all’interno della narrazione, ha una funzione analoga al nome proprio. A sua volta, il nome proprio rappresenta, per il personaggio che lo porta, il suo volto. Nella costruzione di un’identità visiva, nome e volto stanno in relazione di ridondanza» (p. 51). All’identità del personaggio concorrono, inoltre, il modo di vestire e di parlare, l’ambiente, l’abitazione e tanti altri elementi ma è il volto che marca l’unicità del personaggio ed è ciò che lo annuncia e lo riassume, il ricordo di quel che è stato nel passato ed un’anticipazione di ciò che il testo sarà chiamato a confermare. In definitiva, «il ritratto in letteratura è il luogo in cui convergono e si sovradeterminano vari livelli del testo» (p. 62) e non può essere inteso come semplice elenco di caratteristiche fisiche del personaggio, né una mera descrizione votata a produrre un verosimile narrativo. Nel saggio si evidenzia anche come l’intreccio tra letteratura, fisiognomica e frenologia perduri ben oltre l’Ottocento; è esemplare in tal senso il lavoro di Cesare Lombroso che ricorre frequentemente ad esempi tratti dai romanzi realisti al fine di avvalorare le sue teorie antropologiche.
Il ritratto è una forma di rappresentazione costruita attraverso un processo di astrazione, derivato da scelte ed esclusioni, che dipende da una pluralità di fattori, tra essi il contesto culturale. Con il termine ritratto si indica tanto la rappresentazione pittorica di un individuo, quanto la sua descrizione verbale ma se nel dipinto prevale il mostrare, nella descrizione verbale prevale l’evocare. Sia in pittura che in letteratura il ritratto può essere eseguito mirando alla ricostruzione dei minimi dettagli che individualizzano quel volto, oppure, anziché ambire alla ricerca della differenza che rende unica una fisionomia, si subordina il singolare al generale. Tale duplice orientamento, viene argomentato nel saggio, è già inscritto nell’etimologia del termine derivato dalle principali lingue moderne dal latino ma seguendo due direttrici opposte. Alcune lingue (italiano e spagnolo) derivano il termine ritratto dal verbo re-traho, mentre altre lingue (inglese, francese, tedesco e russo) si rifanno al verbo pro-traho. In tale duplice derivazione si possono individuare le estremità di un’opposizione semantica: nel primo caso (re-traho) si ha l’idea ripetitiva dell’oggetto ritratto (ritrarre come copia), nel secondo caso (pro-traho) si ha, invece, l’idea “segnica” del ritratto, inteso come “stare al posto di”. Da una parte abbiamo un’idea d’imitazione, finalizzata alla fedeltà mimetica, dall’altra una convenzione riferita ad un processo d’idealizzazione di ciò che viene ritratto. Si tratta di tue tendenze che, sebbene opposte, non di rado convivono pur con la prevalenza di una sull’altra.
«La storia del viso “rappresentato” si configura, dunque, come una dialettica tra il tipo generale e l’individuo singolare, tra il momentaneo e il permanente» (p. 132). Tale polarità, pur essendo più evidente nella pittura, è propria anche della letteratura. Se in molti ritratti presenti nella letteratura sei-settecentesca la descrizione dei personaggi è una sorta di “testo a parte” rispetto al resto della narrazione, nell’Ottocento, sostiene Magli, il ricorso alla descrizione somatica si definisce in stretto rapporto con la trama del racconto: il ritratto acquista senso nel suo essere confrontato ad altri ritratti. Nel romanzo ottocentesco il ritratto è quello spazio testuale ove paradigma e sintagma convergono. Non si tratta mai di un ritratto concluso, ma di un processo che si evolve.
Il saggio si sofferma anche sullo sguardo dell’osservatore che opera la descrizione. Sia che si tratti dello sguardo di un osservatore onnisciente, che di un personaggio dell’enunciato, in qualsiasi rappresentazione è inscritta la posizione di chi vede; il rappresentato reca sempre in sé la traccia dell’osservatore. Se il ritratto pittorico permette una pluralità di percorsi di lettura, il testo letterario è costretto ad imporne uno solo: «La descrizione del volto in letteratura narra l’itinerario di questo sguardo il cui compito è “far vedere”» (p. 140). Lo sguardo narrante è un operatore di strutturazione del volto e, sostiene la studiosa, «Se la descrizione è una convocazione a essere di qualche cosa, lo statuto di esistenza di questo “qualche cosa” assume valori diversi, investimenti passionali differenti secondo le modalità attraverso cui si realizza la visione del volto. Si tratta delle operazioni che documentano non solo che cosa si vede, ma soprattutto come lo si vede e come lo si vuol far verde» (p. 142).
Il ritratto letterario tradizionale descrive un personaggio immobile ed “incorniciato”, pertanto tende a godere di una certa autonomia rispetto a tutto ciò che vi sta attorno. Lo sguardo del descrittore, in questo caso esterno ed onnisciente, obbedisce ad un protocollo di lettura ben codificato sebbene, in taluni casi, tale protocollo descrittivo viene disatteso. Se spesso ad essere dinamico è lo sguardo dell’osservatore che contempla un osservato statico, non mancano casi in cui, invece, ad essere immobile è proprio l’osservatore mentre ad essere in movimento è l’osservato.
Particolarmente interessante è la parte del saggio che affronta l’autoritratto/autobiografia. La studiosa sottolinea come la costruzione della propria immagine, sia verbale che visuale, non obbedisca soltanto a spinte autocelebrative ma, in diversi casi, assuma valore terapeutico. Non sono pochi i casi in cui gli artisti hanno testimoniato cronologicamente il proprio decadimento fisico causato dall’invecchiamento o dalla malattia. Magli ricorda i casi di pittrici come Sofonisba Angiussola (1532-1625) e Rosalba Carriera (1673-1757) che hanno realizzato autoritratti in età non più giovane mostrando dettagliatamente le tracce del passare del tempo; «Queste pittrici, come del resto molte scrittrici autobiografiche, hanno rivendicato la propria identità femminile contro gli stereotipi di una bellezza legata alla giovinezza» (p. 200).
Secondo la studiosa è però soprattutto la relazione tra “io” presente ed “io” passato a mediare il rapporto tra il soggetto e se stesso. «Il volto su cui il tempo […] ha tracciato la storia, diviene allora la metafora del testo che l’io narrante sta scrivendo» (p. 203). Nel saggio viene fatto l’esempio di Marguerite Duras che apre il romanzo L’amante con il proprio autoritratto ed attraverso l’identificazione tra autoritratto e romanzo la scrittrice «afferma una poetica sia esistenziale che letteraria. Si tratta di una forma di assimilazione tra il corpo della scrittrice e la sua scrittura, una mise in abîme di un testo incassato in un altro testo che ricorda quegli autoritrattisti che mettono in bella mostra la tela del quadro che stanno dipingendo. Non più riconosciuta nella sua integrità ma nella devastazione, la bellezza diventa metafora stessa della scrittura. Volto e scrittura si offrono entrambi alla lettura attraverso un’estetica che predilige non più l’ordine e l’armonia, ma si riconosce nella dissonante complessità di un testo che include anche la sua disgregazione» (p. 203).
L’autoritratto letterario, afferma la studiosa, è rappresentazione di un’azione riflessiva: guardarsi allo specchio. L’artista, come lo scrittore, è costretto a rappresentarsi mentre si guarda ingenerando una reciprocità di sguardi. L’autobiografia è rappresentazione “di” sé, di fronte “a” se stessi prima ancora che di fronte agli altri e ciò inizia davanti ad uno specchio. Il guardarsi allo specchio apre, inevitabilmente, a valutazioni di tipo metalinguistico a proposito della natura dell’immagine riflessa e dell’atto stesso di specchiarsi. Umberto Eco (Sugli specchi e altri saggi) suggerisce di concepire lo specchio come “fenomeno-soglia” che ci permette di prendere atto di un mondo “altro” che non è semplicemente un doppio della realtà ma, piuttosto, un “doppio asimmetrico”. Nel saggio sono riportate anche interessanti riflessioni di Jenijoy La Belle (Hereself Beheld. The Literature of Looking Glass) a proposito delle differenze tra la visione maschile e femminile nei confronti dello specchio.
A proposito della “riflessione” dello specchio, il saggio passa in rassegna diverse opere letterarie ove si passa dal senso di estraneità, all’autodefinizione, fino alla perdita di controllo della propria apparenza ed il manifestarsi del sé come alterità radicale. «Tra guardante e guardato non avviene solo un dialogo tra riflessi. E così, se nell’Ottocento, nel ritratto e nell’autoritratto, si cercano ancora modelli d’individuazione e di tipizzazione del viso, nel Novecento spesso capita di assistere alla sua disintegrazione a profitto di superfici che presentano figure non più riconoscibili, ma solo puri formati plastici, grovigli di linee, ammassi di colori, in altre parole, materia pura. […] è un fenomeno che, ancora una volta, accomuna letteratura e arti figurative. E così, se la rappresentazione del viso sembra escludere, nella ritrattistica moderna, ogni progetto imitativo, la stessa cosa avviene anche nella scrittura» (p. 215).
L’autrice porta come esempio l’autoritratto del narratore nella Nausea di Sartre e segnala come la mancanza di una forma definita ed identificabile rimanda al dipinto Olympia (1950) di Jean Dubuffet. Si tratta dunque di una «autorappresentazione che si presenta come immagine stessa dell’informe, venendo a far parte, in questo modo, di quella tendenza artistica che ritroviamo soprattutto nell’arte contemporanea […] È un’immagine che, negando se stessa, finisce con la negazione della persona. E allora accade che l’Io, abbandonato al suo nulla materico, lentamente sprofondi nel proprio torpore fino a dissolversi in un’alterità assoluta, e nondimeno tanto simile a sé» (pp. 217-220).
Se nella narrativa tradizionale, il ritratto sintetizza un’intera vita di un individuo in una immagine statica che blocca la sua fisionomia, testimonianza del tempo passato ed al tempo stesso garanzia del perdurare dell’essere intimo, nella letteratura novecentesca il potere del tempo non solo condiziona l’apparire ma anche l’essere dei personaggi e «La persona morale è ancora più esposta di quella fisica alle sue influenze disgregatrici […] L’identità si configura, in questo modo, come un processo aperto, impossibile da stabilizzare, così com’è impossibile scoprire la verità ultima di un individuo. Ne è un segno anticipatore l’affacciarsi, sulla scena letteraria di fine Ottocento, delle cosiddette “identità multiple”nelle quali l’individuo è diviso, scisso tra più personalità» (p. 223). Sotto l’apparire non abbiamo più un essere stabile; l’apparire crea il proprio essere, ossia un verosimile provvisorio.