A quasi sei mesi dalla sparizione forzata di Giulio Regeni a Il Cairo c’è ancora molta confusione intorno al tema. L’informazione mainstream italiana continua nella sua ostinata ricerca del complotto e snocciola infamanti accuse morali a destra e a manca, spostando di fatto l’attenzione dai contesti (quello egiziano) e dalle questioni di fondo (un regime repressivo brutale amico del governo italiano) al mero rumore. Lorenzo Declich, una delle migliori penne in lingua italiana per comprendere il mondo islamico contemporaneo, ha contribuito a smontare questa narrazione scrivendo il primo libro dedicato al caso del ricercatore ventisettenne sequestrato, torturato e ucciso dal regime di al-Sisi. Si intitola “Giulio Regeni, le verità ignorate. La dittatura di al-Sisi e i rapporti tra Italia ed Egitto” (Alegre Edizioni, 2016) e quella che segue è un’intervista all’autore.
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Perché hai deciso di scrivere un libro sul caso Giulio Regeni a soli quattro mesi dal suo assassinio?
Ho ritenuto che fosse necessario fissare alcuni punti, già chiarissimi nei giorni seguenti al ritrovamento del corpo di Giulio Regeni. Buona parte del libro è tesa a fornire una base di ragionamento valida per ieri, oggi e domani.
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Puoi raccontarci chi era Giulio Regeni, perché era in Egitto e perché è stato rapito, torturato e assassinato dal regime di al-Sisi? Lo avremmo dovuto avere tutti ben chiaro fin dall’inizio, eppure a causa di una stampa mainstream che ha preferito abdicare al suo ruolo – sposando fantomatiche quanto infamanti teorie del complotto – ne abbiamo sentite di tutti i colori sul conto di Giulio Regeni. Puoi chiarirci un attimo le idee?
Giulio Regeni era un ricercatore come molti altri, forse più bravo di tanti altri, che stava svolgendo una ricerca in autonomia, in accordo e coordinandosi con i suoi docenti. È caduto nelle maglie di un apparato di sicurezza ipertrofico e paranoico nell’area (attorno a piazza Tahrir, il centro simbolico della rivoluzione egiziana) e nel giorno (ricorreva l’anniversario della rivoluzione egiziana e in cui solo al-Sisi poteva “parlare di rivoluzione”) in cui quell’apparato concentrava tutti i suoi sforzi. La sua vicenda ci racconta di un salto di qualità del livello di arbitrarietà e impunità del regime. Gli egiziani, da subito, hanno provato a trattarlo come un “caso isolato”, e sappiamo che ciò non è – visti i numeri, sempre crescenti, di sparizioni forzate, torture e morti in carcere. Questo salto di qualità non è stato percepito (qualcuno non lo ha voluto percepire) in Italia mentre bastava chiedere a chi, come Regeni, stava svolgendo ricerche in Egitto, per rendersene conto. Bastava registrare lo stato di shock che nei primi giorni si respirava all’interno della comunità accademica che si occupa di Egitto e con cui Regeni era in relazione. Si è preferito invece costruire ipotesi fantasiose (ne parlo nel quarto capitolo del libro), accusare i suoi supervisor di “responsabilità morale”, descrivere Regeni come un inconsapevole strumento di qualche apparato di intelligence e chi più ne ha più ne metta. Se in Egitto il regime faceva muro in Italia sembravano tutti impegnati a trovare responsabili diversi dal vero responsabile: Abd al-Fattah al-Sisi.
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Giulio Regeni è stato rapito il 25 gennaio 2016, nel quinto anniversario della rivoluzione egiziana. È un caso che sia stato rapito proprio quel giorno? Come riporti nel libro, il 2 aprile 2016, la madre di Khaled Said – ventottenne egiziano ucciso dalla polizia il 6 giugno 2010 e diventato uno dei simboli del movimento che ha contestato i regimi repressivi che in questi anni si sono susseguiti in Egitto – si è rivolta a Paola, la madre di Giulio Regeni, attraverso un video-messaggio, con queste parole: «Invio le mie condoglianze alla madre del martire Regeni, sono con lei e sento il suo stesso dolore, come soffro ogni giorno per Khaled. Voglio ringraziarla per essere con noi e per il suo interesse e preoccupazione per i casi di tortura in Egitto». Pensi che Giulio Regeni possa essere considerato un martire della rivoluzione egiziana?
Sì, penso che lo sia, soprattutto nella percezione di molti attivisti egiziani. Ma ciò non deve essere visto come “prova” del fatto che Regeni fosse un attivista. Giulio Regeni non era un attivista, pur avendo passione politica: stava studiando, stava facendo ricerca. È stato ucciso dal regime, “come un egiziano” (questo si leggeva su alcuni cartelli, i primi giorni dal suo ritrovamento) e per questo è stato inserito nella lista dei martiri della rivoluzione egiziana.
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Nel libro insisti sul fatto che la sparizione forzata, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni non rappresentino di per sé un caso eccezionale nell’Egitto di al-Sisi. Soltanto nei primi mesi del 2016 infatti – secondo il Centro el-Nadim per la Riabilitazione delle Vittime della Violenza – sono stati registrati 88 casi di tortura, 8 dei quali con esito mortale. Mentre il bilancio complessivo del 2015 conta 464 casi di sparizioni forzate e 1676 casi di tortura, di cui 500 con esito mortale. È giusto chiedersi dunque di cosa ci stiamo stupendo ed è altrettanto legittimo domandarsi per quali ragioni la maggioranza dei mezzi di informazione italiani abbia ignorato queste verità e omesso la natura di un regime repressivo che intensifica le sue politiche di controllo a suon di sparizioni forzate e detenzioni illegittime. Perché nella trattazione mediatica del caso il contesto che ha portato alla morte di Giulio è stato ignorato?
Molti giornalisti che sono stati messi a trattare il caso Regeni non avevano alcuna conoscenza dell’Egitto e di ciò che in Egitto è successo negli ultimi anni. Altri, che solitamente si occupano di cronaca giudiziaria, hanno avuto un approccio “investigativo” senza però fare i conti con la presenza di un regime e di una retorica di regime, specializzata nello spostare l’attenzione, nell’insabbiare. E questo è il lato “luminoso”. Nel libro parlo anche di chi, avendo interessi in Egitto, ha remato davvero contro, cercando di derubricare la vicenda, lanciando accuse infamanti su Giulio Regeni, su chi era intorno a lui nei suoi studi, ecc. Mettici anche che in Italia non si è parlato di Egitto per anni e quando se ne è parlato si è descritto al-Sisi come una specie di “pilastro della stabilità”, come un grande statista di cui avremmo assoluto bisogno per la battaglia contro il terrorismo, ecc.
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«In questo momento l’Egitto si salva solo grazie alla leadership di al-Sisi. Sono orgoglioso della mia amicizia con lui e sosterrò i suoi sforzi in direzione della pace, perché il Mediterraneo senza l’Egitto sarà un luogo senza pace» sono parole di Matteo Renzi (8 luglio 2015) che insiste nel definire al-Sisi «un grande leader». Perché il Presidente del Consiglio italiano ha una relazione così stretta con il dittatore al-Sisi? Quanto pesano 1) la presenza dell’Eni in Egitto; 2) l’ingente vendita di armi delle industrie italiane all’apparato repressivo egiziano e 3) gli accordi per “combattere l’immigrazione clandestina” tra i due governi? E quanto ha influito questa relazione sul silenzio e la passività dell’Italia durante il sequestro e dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni?
Pesano molto. Nel libro dedico un capitolo alle relazioni fra Italia ed Egitto. Con un dettaglio da non trascurare: oggi avere relazioni economiche con l’Egitto significa in moltissimi casi supportare il regime. Nel libro parlo anche degli accordi fra Italia ed Egitto in tema di migrazioni. Anche questo è un capitolo che non bisogna trascurare. In questo giorni si discute sul fatto che l’Egitto possa essere definito “paese sicuro”, un paese verso il quale rimandare indietro i migranti. La famiglia Regeni è stata molto chiara in questo senso: l’Egitto, al contrario, deve essere messo di fronte alle proprie responsabilità, deve essere considerato paese non sicuro.
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Puoi aggiornarci sulla situazione egiziana dall’assassinio di Giulio Regeni ad oggi? I sindacati indipendenti che studiava Giulio in che acque navigano ora? I giornalisti e gli attivisti continuano a essere minacciati, sequestrati e torturati? L’Italia e la comunità internazionale hanno agito pressioni sul regime di al-Sisi con rispetto alla tutela dei diritti umani?
I numeri, sempre crescenti, delle sparizioni forzate parlano da soli. I sindacati indipendenti sono schiacciati e divisi, il presidente del sindacato dei giornalisti è stato arrestato. Un consulente della famiglia Regeni al Cairo è stato accusato di terrorismo. E questi sono solo esempi. La repressione non si è fermata anzi si è intensificata. L’Italia, dopo il ritiro dell’ambasciatore, non ha fatto niente. Anche qui il richiamo dei familiari di Regeni a fare di più parla da solo. Britannici (ma non Cambridge, occorre sottolinearlo) e francesi chiudono gli occhi. Qui nessuno vuole dire: “se fosse stato un francese o un britannico le cose sarebbero state diverse”. Non è questo il punto. Senza la pressione dell’opinione pubblica le cose rimarranno ferme.
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Nel libro citi la compiacente intervista di Mario Calabresi e Gianluca Di Feo, rispettivamente direttore e vicedirettore de la Repubblica, ad al-Sisi, e le domande inopportune poste dallo stesso Calabresi ai genitori di Giulio Regeni durante la conferenza stampa al Senato. Cosa pensi della campagna “Verità per Giulio” lanciata da Amnesty International e la Repubblica?
Trovo quell’intervista uno dei punti più bassi del giornalismo italiano degli ultimi tempi. E trovo che Repubblica, pubblicando tutto e il contrario di tutto – anche lettere anonime! – non ha contribuito a fare chiarezza. Stendo un velo pietoso sulla domanda di Calabresi alla conferenza stampa. Ne ho scritto appunto nel libro, definendo la cosa “pornografia dell’informazione”. Quanto ad Amnesty penso che stia facendo il suo lavoro, avendo anche il delicato ruolo di assistere nelle iniziative la famiglia di Regeni. Un lavoro che ha dei limiti strutturali: se non c’è volontà politica non si va avanti. Certo è che ormai, sotto l’hashtag #veritàpergiulio, va a finire di tutto, come era prevedibile. Col tempo i messaggi si confondono e si edulcorano. E tutti parlano “in nome di”. Bisogna fare presto. Personalmente non ho mai usato quell’hashtag, soprattutto per non creare ambiguità: il mio libro è prima di tutto un lavoro di analisi e approfondimento. E deve essere chiaro che la cosa corre in parallelo rispetto alle iniziative della famiglia Regeni – iniziative coraggiose, che trovo importanti perché mettono al centro sempre la questione dei diritti umani in Egitto e del regime – e a quelle di Amnesty.