di Mauro Baldrati

maggies_plan_onesheet_finalLa coazione a ripetere: dovrebbe essere questo il sottotitolo di Maggie’s Plan, invece di a cosa servono gli uomini, sottotitolo ufficiale della versione italiana, Il piano di Maggie, che uscirà nelle sale il 30 giugno. Come, del resto, i dialoghi, che dovrebbero essere in lingua originale, con le didascalie in italiano. Infatti il parlato è una delle caratteristiche più interessanti di questo film americano, da alcuni definito “commedia” e da altri “drammatico”. Pertanto non sarebbe affatto improprio classificarlo come “commedia drammatica”. Dietro a una storia apparentemente leggera, infatti, una sorta di evoluzione del cicaleccio esistenzialista alla Woody Allen, viaggiano intensità di vita, processi mentali complessi, ricerca dell’amore che sembrerebbe, in realtà, un’ansia di conferme, di rintanarsi in un rizoma fatto di certezze e di vissuti.

La coazione a ripetere è un concetto della psicanalisi introdotto nel 1920 dal padre fondatore, Sigmund Freud: «nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere.» E’ considerato un sintomo importante della nevrosi, ripetere per non ricordare, per non soffrire, per tornare “all’uguale”, a ciò che abbiamo vissuto, ciò che siamo stati, o che abbiamo creduto di essere. Freud lo carica di simboli, ogni gesto ha un significato, il bambino ripete segni e azioni per evocare la madre, per tornare da lei. O dal padre, o da entrambi. Ripete per riprodurre quella parte di vita che lo ha coinvolto, e ferito. Ripete, forse, per neutralizzare.

Così la vera protagonista del film, Maggie, interpretata dall’attrice/sceneggiatrice/regista Greta Gerwig, ha deciso di avere un figlio. Lei sola, come madre single, infatti non è contemplata la figura del padre. Chiede a un tipo, l’amico di un amico, di fornirle la “materia prima” in un vasetto, che introdurrà in se stessa immediatamente. Niente rapporto quindi, solo un accordo. E il tipo… gli appassionati di serie televisive scopriranno che si tratta di un volto noto, molto amato: Travis Fimmel, il fotomodello australiano che ha impersonato Ragnarr Loðbrók in Vikings; Ragnarr ci prova, chiede: ma insomma, siamo qui, non potremmo procedere in modo “normale”? Niente da fare. Coi soliti modi surreali, che contraddistinguono il suo personaggio, e dialoghi garbatamente folli, Maggie sancisce che non se ne parla. Lei deve essere una madre single. Una madre vergine, verrebbe da dire.

E a un certo punto scopriamo il retroscena. Maggie è cresciuta senza il padre, lei e la madre, sole. E così vuole essere.

Ma… pare che l’amore non conceda deroghe. A un certo punto conosce un tipo interessante, un antropologo scrittore di saggi, accademico molto seguito nell’ambiente, che si è messo in testa di scrivere un romanzo. L’amore si accende, o almeno così sembra. Maggie, che è insegnante a sua volta di una di quelle strambe discipline comportamentiste amate dagli americani che fanno un po’ sorridere noi europei scafati, legge il primo capitolo del romanzo, i due fanno l’amore proprio mentre lei si sta autofecondando, nasce una bambina e i due si sposano.

Per cui la coazione a ripetere sarebbe fallita?

Mmm… troppo facile. Le risorse dell’inconscio sono enormi, e diaboliche, quando serve. Lui, interpretato da un Ethan Hawke che per tutto il film sembra affetto da un devastante mal di testa, ha lasciato la moglie, un’altra accademica che ha a cuore unicamente il proprio successo professionale. E qui come non evocare i logorroici personaggi newyorkesi di Allen, tutti intellettuali comico-depressi, narcisisti, infantili… però la regista (che è la figlia del drammaturgo Arthur Miller) compie un balzo in avanti, trova una sua strada, gestendo mirabilmente la sottile vena di straniamento, di dialoghi fantasmagorici in newyorkese puro, stempera il chiacchiericcio nevrotico, potenzia l’immanenza dei protagonisti e ci restituisce i personaggi imprigionati nei loro sarcofaghi difensivi: Maggie infelice nella trappola del matrimonio, lui travolto dalla sua ossessione del romanzo. Così Maggie elabora il “piano”: con un sotterfugio fa in modo che lui partecipi a un congresso dove c’è anche la ex moglie, così i due torneranno insieme – l’unione perfetta di due narcisismi – e lui si toglierà dalle scatole, permettendole di realizzare il suo progetto di madre single, finalmente.

Tutto sembra funzionare, ma…

Ma: quando i giochi sono fatti, e tutti sembrano contenti, avanza nella neve (c’è sempre la neve, passano gli anni ma è sempre inverno) Ragnarr coi suoi pinocchietti e la berretta da vichingo, e Maggie lo guarda… lo guarda… e tutto sembra confondersi, riconfigurarsi, perché… può esistere una donna in grado di resistere a Ragnarr Loðbrók?

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