di Luca Cangianti
Iside Gjergji, Sulla governance delle migrazioni. Sociologia dell’underworld del comando globale, Franco Angeli, 2016, pp. 176, € 22,00
La forza-lavoro è una merce, ma a differenza di un frigorifero non è prodotta in una fabbrica. Il supporto materiale della forza-lavoro sono gli esseri umani, che sono ancora generati biologicamente e allevati all’interno della famiglia, un’unità produttiva non capitalistica sussunta solo formalmente al modo di produzione dominante. A questa prima peculiarità della merce forza-lavoro ne va aggiunta una seconda: essa è l’unica merce capace di produrre un valore superiore al proprio. Questa seconda caratteristica fa della forza-lavoro l’elemento vivificante dell’accumulazione capitalistica, mentre la prima ne costituisce un limite di difficile gestione per il metabolismo del sistema.
L’immigrazione contemporanea è frutto dello stesso sviluppo capitalistico, delle conseguenti espansioni del mercato mondiale, delle espulsioni di manodopera dalla produzione tradizionale, dei conflitti bellici. Nelle economie più avanzate, inoltre, l’immigrazione alimenta un esercito di riserva di salariati che crea condizioni negoziali favorevoli in termini di comando del lavoro e di compressione del valore della forza-lavoro. Governare un fenomeno moltitudinario di questo tipo è una sfida di estrema complessità che i centri di potere statuali e sovranazionali affrontano con sofisticati dispositivi giuridici, politici, sociologici e militari.
Per orientarsi in questo mondo, il saggio Sulla governance delle migrazioni di Iside Gjergji è uno strumento essenziale sia per la ricerca accademica che per chi, impegnato nelle lotte sociali, voglia dotarsi di analisi capaci non solo di scaldare i cuori, ma di mordere la realtà.
Attraverso una disanima dettagliata di trattati, accordi, norme, comunicazioni e circolari, Gjergji illustra il funzionamento del nuovo approccio della governance applicato all’immigrazione. Rispetto alle azioni di governo, classicamente messe in atto da enti statuali, mediante testi formali e accordi multilaterali, la governance dell’immigrazione valorizza pratiche paranormative mutuate dall’intervento privato, con grandi vantaggi di flessibilità, informalità ed efficienza temporale. Negli ultimi anni, grazie alla costante pressione dei paesi capitalisti più avanzati, si è così assistito a un progressivo indebolimento del ruolo dell’Onu e del suo regime normativo, mentre è aumentato il peso di un’organizzazione intergovernativa a essa concorrente, l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Questo organismo, secondo l’autrice, funge de facto da agenzia interinale globale svincolata da qualsiasi norma multilaterale a vantaggio di una crescente spinta alla bilateralità transnazionale che facilita l’imposizione di condizioni utili ai soggetti più forti.
Un caso esemplare di governance dell’immigrazione è la creazione da parte della Commissione europea della categoria di “evidente bisogno di protezione” (clear need of protection) per individuare le persone cui attribuire lo status di rifugiato. Per decidere chi si trovi in queste condizioni sono stati creati dei luoghi, gli hotspot, in cui dei professionisti, a occhio nudo, informalmente, portano a termine celermente la selezione. Tale prassi è in contrasto con l’ordinamento comunitario che prevede per il riconoscimento dello status di rifugiato e della relativa protezione internazionale una serie di procedure formali concepite a tutela del richiedente.
Nel 2014 il ministero dell’interno italiano emana una circolare intitolata “Volontariato per l’integrazione dei richiedenti asilo” che permette ai Comuni di far lavorare gratis gli immigrati, nonostante il lavoro gratuito in base all’art. 2094 del Codice civile non sia ammesso. L’Italia ricopre un ruolo d’avanguardia nel processo d’informalizzazione disponendo di un vasto “universo normativo sotterraneo, composto da ordini e disposizioni contenute nelle circolari amministrative, che”, sottolinea Gjergji, “non hanno alcun valore giuridico, non sono cioè riconosciute formalmente come fonte (neanche di tipo secondario) di diritto pubblico.” Il produttore di tali norme non è il parlamento, ma una serie di soggetti quali ministri, funzionari, direttori di dipartimento e perfino capi d’ufficio. In ambito europeo, superata solo dalla Francia, l’Italia è inoltre il paese che ricorre con più frequenza ad accordi bilaterali con paesi fornitori di forza-lavoro immigrata. Nel saggio sono analizzate in dettaglio le intese più recenti con paesi quali Marocco, Egitto, Moldova, Albania, Sri Lanka e Mauritius. Tali documenti cercano di valorizzare una modalità specifica d’immigrazione, quella circolare. Con tale definizione si indica un tipo di migrazione temporanea e ricorrente che permette agli stati di destinazione di usufruire della forza-lavoro immigrata quando necessaria, per allontanarla quando non serve più. Negli accordi bilaterali si definiscono sia gli incentivi che i meccanismi coercitivi per il rimpatrio.
Fatta eccezione per nicchie di forza-lavoro specializzata particolarmente richiesta, l’immigrazione circolare reintroduce de facto la figura del “lavoratore ospite” (Gastarbeiter, guest worker) sviluppatasi in Germania e in altri paesi europei nel secondo dopoguerra. In questo modo la governance dell’immigrazione introduce nel corpo della classe lavoratrice un elemento di forte differenziazione. Il “lavoratore ospite” non diventa mai cittadino a tutti gli effetti del paese in cui espleta la sua attività lavorativa. In questo modo la ferita inferta al potere negoziale dei salariati si cristallizza e addirittura si estende agli altri lavoratori, in primis a quelli immigrati che risiedono regolarmente nel paese. Questi, infatti, sono inglobati in normative che li sottomettono alla circolarità (in Italia è il caso dei lavoratori cingalesi dopo l’accordo bilaterale del 2011).
Nel Manifesto del partito comunista Marx afferma che lo sviluppo dell’industria capitalistica sottrae gli operai all’isolamento e alla concorrenza reciproca, omogeneizzandone le condizioni di vita. Tale produzione involontaria di soggettività antagonista è tuttavia solo una faccia della medaglia, quella più ottimistica. L’altra è che il capitale può intervenire attivamente sul corpo della classe lavoratrice creando continuamente nuove differenze e disarticolazioni del suddetto processo. Quindi se il cittadino astratto e i suoi diritti sono un prodotto borghese, a un certo punto il capitale può essere indotto a segmentare la universalità dei diritti. In questo modo si finisce per distruggere la stessa cittadinanza borghese per non rischiare che incrostazioni di passati rapporti negoziali creino attriti sul mercato della forza-lavoro. La continuazione di questa linea di tendenza, qualora non contrastata, porta all’emergere di modi di produzione neoservili e alla morte della stessa della forza-lavoro – che per esser tale dev’esser liberamente vendibile e contrattabile.
Iside Gjergji nelle ultime pagine del suo libro ricorda tuttavia che “gli immigrati sono esseri umani e, pertanto, materia imprevedibile che tende, in alcune circostanze storiche, a prendere in contropiede i locus of power [gli organi del potere], a non obbedire ai loro diktat, a non rientrare cioè nei loro schemi, anche perché, in quanto esseri umani, e non macchine da lavoro o merci, sanno pensare, stringere relazioni, solidarizzare e amare i loro simili, dunque tendono a stabilizzarsi e alla circolarità loro imposta imparano a opporre resistenza.” È quindi nel supporto non capitalistico della merce capitalistica per eccellenza che risiede un limite alla capacità di sussunzione del capitale: finché esso avrà bisogno di esseri umani per utilizzarne la forza-lavoro, non potrà dormire sonni tranquilli.