di Sandro Moiso
Anna Maria Bruzzone – Rachele Farina, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, prefazione di Anna Bravo, Bollati Boringhieri 2016, pp. 314, € 25,00
“Io sarò sempre ribelle, è una parola che mi piace, lo sarò sempre…” (Elsa Oliva “Elsinki”)
Torna sui banchi delle librerie, a quarant’anni dalla sua prima edizione per La Pietra e a tredici dalla sua prima ristampa, sempre per Bollati Boringhieri, un testo che all’epoca segnò, e per molti versi segna ancora, uno spartiacque per la narrazione e la ricostruzione delle vicende sociali, politiche e militari connesse alla Resistenza, sia durante il fascismo che negli anni ella guerra civile italiana. Un libro che apriva più di uno spiraglio, si potrebbe anzi dire una vera e propria nuova strada per gli studi su quel periodo storico. Un percorso caratterizzato, e questo ne costituiva il vero motivo di interesse e di novità, dalla “scoperta” dell’importantissimo contributo dato dalle donne alla sconfitta del fascismo e del nazismo sul suolo italiano.
Scoperta che si andava accompagnando, poi, all’utilizzo delle fonti orali come strumento privilegiato di indagine e ad una prima critica della conduzione politica e militare di quella lotta e dei risultati spesso deludenti, soprattutto da un punto di vista di classe e di genere, che ne erano scaturiti dopo la “Liberazione” del 25 aprile 1945. Le due autrici, insomma, in un sol colpo contribuivano a rinnovare una storiografia troppo spesso imbalsamata dalla scelte successive alla svolta di Salerno e da una sorta di mitologia politico-maschilista che aveva dominato la scena degli studi svolti fino ad allora sulla lotta partigiana.
Era una Resistenza davvero “taciuta” quella che Anna Maria Bruzzone (1925 – 2015) e Rachele Farina (nata nel 1930) riportavano alla luce con lavoro certosino ed impegno instancabile. Una Resistenza che non aveva trovato spazio nelle pagine dei testi fino ad allora più accreditati e diffusi, né, tanto meno, nei riconoscimenti ufficiali dell’immediato dopoguerra e degli anni successivi. Scrive, nella bella prefazione, Anna Bravo:”Nelle decine di migliaia di pagine scritte nei decenni sessanta e settanta c’è, insieme a molta routine celebrativa, lo sforzo di costruire una nuova antropologia del resistente. Il maschile è d’obbligo; a dispetto delle innovazioni, le donne restano un oggetto storiografico a dir poco secondario. Non che ci sia stato e ci sia silenzio assoluto. Ma nella memorialistica ci si è limitati perlopiù a rendere un omaggio commosso a qualche icona femminile, nel lavori di sintesi a citare le donne come categoria meritevole o come massa indifferenziata. Per definire l’opera delle partigiane si parla di contributo, un concetto debole rispetto alla ricchezza dell’esperienza, e un indicatore forte degli orientamenti storiografici.” (pag.VII)
Occorre infatti qui sottolineare, proprio per smitizzare certe iconografie post-sessantottesche, che anche le enormi revisioni culturali, politiche ed ideologiche susseguite alle lotte operaie e studentesche degli anni sessanta e settanta non avevano ancora minimamente toccato la sostanza dei rapporti di genere e la conseguente subalternità femminile al modello di produzione e riproduzione andro-capitalistico. Sottolinea ancora Anna Bravo che le due studiose ”scompaginano le carte: non solo documentando l’essenzialità e la qualità diversa dell’opera delle donne, ma tendono a capovolgere la questione chiedendosi quale contributo abbia dato la Resistenza alla libertà femminile. Il giudizio è che lo scambio è stato ineguale, che i conti restano aperti.” (pag. IX)
Sono dodici le voci del coro riportate nelle pagine del testo. Dodici donne, piemontesi e quasi tutte comuniste, che ricostruiscono, attraverso una polifonia di interventi, di drammi ed eroismi individuali e collettivi, una tragica lotta che, una volta privata dagli eccessi di retorica e di epica tipici della precedente storiografia, lascia intravedere il forte senso di delusione che accompagnò spesso, troppo spesso, il climax e il periodo successivo all’insurrezione di aprile. Delusione e tradimento delle aspettative femminili e della lotta di classe ancora una volta, come nella guerra di Spagna e in altri mille eventi di trasformazione sociale, andavano a coincidere. Negando, nei fatti, gli ideali e i concreti fattori materiali che avevano portato così tante italiane ed italiani a rischiare la vita e la libertà. Spesso sbandierati soltanto a parole dai partiti, tutti, facenti parte del CLN.
L’unica delle dodici donne partigiane ad aver svolto un ruolo di comando nelle formazioni combattenti, Elsa Oliva (1921 – 1994), dichiara, al termine della sua travagliatissima e avventurosa narrazione: ”L’unità della Resistenza è stata molto strombazzata in questi ultimi tempi, ma è stata molto difficile e molto sofferta. Anche qui ci sono stati attriti e raffiche tra le diverse formazioni […] a Milano, quando c’è stata la sfilata, tra quella moltitudine plaudente e tutti con le coccarde – matti, proprio matti! – pensavo che forse una buona parte erano quelli che ci avevano sparato contro. Alle staffette, nelle sfilate, mettevano al braccio la fascia da infermiera! […] Certo quando c’è stata la smobilitazione hanno dato troppo poco tempo per giustiziare i criminali. Tutt’a un tratto non era più possibile giudicare nessuno. C’è stata una comunicazione: dall’ora tot non si potevano più processare i prigionieri, ma si dovevano consegnare.
Il dopoliberazione è certamente stato molto diverso da come lo pensavo. Il mio rimpianto più grande del dopo è stato quello di non essere morta prima, durante la lotta. Se io ho invidiato qualcuno, non ho mai invidiato i compagni vissuti ma i compagni morti. […] Sono mancata le riforme che dovevano agevolare la grande massa popolare, le agevolazioni sono sempre state per i medesimi, per i ricchi, quelli che oggi portano la camicia beige o azzurra, ma che è sempre la camicia nera di ieri. […] I partigiani venivano spesso falsamente accusati di delitti comuni e bisognava che scappassero per non subire condanne durissime. […] Tutti gli impiegati conservavano il loro posto, anche se erano stati dei fascistoni, e i partigiani erano disoccupati. E’ stato il periodo più buio della mia vita, il dopoliberazione. Alcuni si sono estraniati proprio allora, perché disgustati di tanta persecuzione.” (pp. 149-154)
Per poi aggiungere ancora: “Anche il discorso sull’emancipazione femminile in questi trent’anni non è andato molto avanti, nonostante tutto, perché l’uomo non accetta. Le donne queste cose le sentono, ma poi troviamo l’ostacolo maggiore nell’uomo, che non è preparato. Nell’uomo politicizzato e non politicizzato. Di sinistra e non di sinistra. […] Anche nelle formazioni garibaldine la donna serviva per lavare, rammendare, al massimo far la staffetta. E rischiava più dell’uomo, perché le staffette rischiavano moltissimo: io avevo un fucile per difendermi, ma la staffetta doveva passare tutte le file, andare in mezzo al nemico, disarmata e fare quello che faceva. E se era presa…” (pp. 154 – 155)
E qui si apre lo spazio dei differenti rischi corsi dalle donne, insieme a tutti quelli corsi anche dagli uomini. I rischi legati al genere e al corpo della donna spesso usato, violentato, straziato. Se non tutte le donne partigiane che narrano le storie raccolte dalle due autrici furono, infatti, arrestate o imprigionate dalle milizie fasciste e naziste, due tra queste subirono durante la detenzione e gli interrogatori, oltre alle altre torture, anche l’offesa e la violenza dello stupro. Stupri che accompagnano le guerre degli uomini e che accompagnarono la repressione della Resistenza, ma che sono stati per lungo tempo rimossi e taciuti. Quasi a voler sminuire l’eroismo delle donne che affrontarono i rischi connessi alle attività partigiane.
Rischi spesso non riconosciuti, così come non fu spesso riconosciuto il ruolo svolto dalle staffette e da tutte quelle donne che in mille modi agirono all’interno della lotta di liberazione. O presunta tale.
Scrivono nell’Introduzione le due autrici, basandosi sulle testimonianze di alcune delle dodici donne: “Le donne furono le saldissime maglie della rete, rischiando spesso più degli uomini perché, se catturate, il nemico riservava loro violenze carnali che ai maschi non toccano. Nel ridimensionamento, anzi nella polverizzazione che «il vento del Sud» portò ai valori sociali della Resistenza in nome della continuità dello Stato, le donne partigiane furono doppiamente tradite: dalle forze politiche tradizionali e in molti casi, più dolorosamente, dagli stessi compagni di lotta. Dopo la Liberazione la maggior parte degli uomini considerò naturale rinchiudere nuovamente in casa le donne. Il 6 maggio 1945 Tersilla Fenoglio (Trottolina) non poté neppure partecipare alla grande sfilata delle forze della Resistenza a Torino.
«Ma tu sei solo una donna!», si sente rispondere da un compagno di lotta nell’estate del 1945 la partigiana Maria Rovano (Camilla), quando chiede spiegazioni dei gradi riconosciuti soltanto ad altri. Mentre a Barge il vicario riceve il brevetto partigiano prima di lei. E Nelia Benissone (Vittoria)? Dopo aver organizzato assalti ai docks, addestrato gappisti e sappisti, lanciato molotov contro convogli in partenza per la Germania, disarmato militari fascisti per la strada, anche da sola, e dopo esser stata nel 1945 responsabile militare del suo settore, non sarà forse riconosciuta dalla Commissione regionale come «soldato semplice»?” (pag.8)
Il mancato riconoscimento del ruolo delle donne viaggiava allora, e ha continuato a viaggiare, con il mancato riconoscimento della componente classista ed eversiva della lotta partigiana. La presenza della donna nelle formazioni combattenti poteva essere di disturbo per l’azione del Partito e dei partiti e in quanto tale, come già ho segnalato a proposito dell’esperienza nella guerra civile spagnola,1 evitata oppure successivamente rimossa.
Così, per sottolineare l’importanza e la funzione del testo di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, possono valere, ancora oggi, le parole di Teresa Cirio (Roberto) riportate a pagina 90: “Dico: «Ma, insomma, se sapessero solo cos’han fatto le donne!» Ricordo che a una riunione, anni fa, Ada Gobetti era arrabbiata: «Ma perché voi lasciate andar via tutto questo patrimonio di valori storici? Un periodo così non ci sarà mai più. Non lo si dovrebbe lasciare di generazione in generazione?» E infatti è vero”.
https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/ ↩