di Armando Lancellotti
Marc Augé, Il dio oggetto, a cura di Nicola Gasbarro, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 155 pagine, € 15,00
L’editore Mimesis ha recentemente ripubblicato un saggio, breve ma molto denso e complesso, di Marc Augé – Le dieu objet – uscito in edizione originale a Parigi nel 1988; la traduzione e l’approfondita postfazione, che ricostruisce l’architettura complessiva del pensiero di Augé, sono di Nicola Gasbarro. Quest’ultimo sottolinea la fondamentale importanza di questo scritto dell’antropologo francese soprattutto per la sua struttura comparativa, che evidenzia quanto sia necessario, per affrontare lo studio della complessità contemporanea e della globalizzazione, intraprendere un percorso ed affinare un approccio di reciprocità culturale. Prospettiva che dovrebbe essere estesa dall’antropologia a tutte le scienze umane, così da mettere in discussione alcuni presupposti della nostra cultura e da rendere possibile ripensare criticamente il percorso “moderno” dell’antropologia, alla luce della crisi della modernità, con il risultato di «denunciare le mistificazioni etnocentriche e le illusioni ideologiche, pensate e codificate in termini universalistici solo perché fondate su nostre categorie sociali e simboliche». (p. 113)
Infatti, secondo lo studioso, Il dio oggetto segna una svolta nel lavoro di Augé in direzione della elaborazione di quel concetto di surmodernità che l’antropologo francese avrebbe di lì a qualche anno introdotto nel dibattito culturale contemporaneo con l’opera del 1992, Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité (Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità) e questo sia per l’oggetto del discorso (la religione) sia per il metodo applicato, quello storico-comparativo, in quanto «passando per l’Africa, Augé attraversa criticamente e comparativamente la modernità occidentale e le sue strutture di senso». (p.115)
Il libro si basa su ricerche compiute a partire dalla metà degli anni ’60 e proseguite negli anni ’70 prima in Costa d’Avorio e di seguito nel Togo, in alcune regioni vicine alla frontiere con il Benin, dove Augé dice di aver incontrato una situazione privilegiata e propizia per il suo lavoro di etnologo: «i culti vodu erano ufficialmente in piena attività e ho spesso avuto la sensazione di avere sotto gli occhi ciò di cui sentivo parlare alcuni anni prima in Costa d’Avorio come di un’istituzione ormai superata». (p.7)
Si trova di fronte ad un pantheon che conserva la sua fisionomia originaria non ancora depotenziata da forme di sincretismo e a divinità che si presentano con una forza plastica prorompente, quella di divinità-feticci, di divinità materiche di legno o di pietra, di dei-oggetto. E proprio sulla materialità massiccia degli dei della religione vodu, che non ha una funzione meramente simbolica di rimando a qualcosa di altro, ma che ha significato in sé in quanto materia divina, che l’autore si sofferma proponendo analisi e riflessioni di grande interesse e mostrando come un approccio che non sia capace di lavorare secondo modalità critiche comparative si precluda la possibilità di comprendere il fenomeno osservato e concluda con la distorsione preconcetta dello stesso.
Augé, infatti, considera in varie pagine del suo lavoro l’abitudine degli europei, in particolare dei religiosi, ma anche degli etnologi del passato, di fare ricorso ad un approccio simbolico propenso a ricercare dietro ai vodu un ordine soggiacente, nella convinzione che non sia possibile adorare un pezzo di legno o di pietra in quanto tale, ma solo se esso rimanda a qualcosa di altro; oppure la tendenza che potremmo dire colonial-sincretistica che «implica che gli “dei” pagani non siano veri e propri dei ma potenze mediatrici, che le loro rappresentazioni siano in effetti solo rappresentazioni di un principio che li trascende, e che questo stesso principio trovi la sua completa espressione nella figura di un dio unico». (p. 16)
Una forma mentis coloniale e apologetico-cristiana che ha portato a paragonare i vodu agli angeli e ai santi, un confronto che «diventa subito analogia, testimonianza di una parentela intima con il cristianesimo e quindi con il tema del monoteismo reale e del politeismo apparente». (p. 16)
Ma, osserva puntualmente Augé, «Hic jacet lepus. Perché i dahomeyani, come gli altri pagani del mondo, siano ciò che si vuole che siano […] è necessario che essi non facciano veramente ciò che danno l’impressione di fare». (p. 17) Si tratta, in sostanza, di ciò che il colonialismo culturale ha spesso compiuto: una operazione di mistificazione etnocentrica e di deformazione ideologica della realtà, adattata a schemi interpretativi e a categorie simboliche occidentali.
In ogni caso – ed è l’aspetto più difficilmente comprensibile dal punto di vista occidentale – è la «materialità più bruta a costituire l’oggetto di un culto» (p. 22) e «materialmente il vodu è un concentrato del mondo (vi sono presenti sostanze che appartengono ai tre regni)» (p. 19), minerale, vegetale e animale.
Secondo Augé, alla coscienza primitiva (e non solo) ciò che risulta immediatamente naturale è la vita; pertanto il sovrannaturale, il divino, si collocano «dalla parte dell’inerzia bruta» (p. 24), della oggettità massiccia del non-vivente. «Da questo punto di vista sono molto importanti le rappresentazioni dei “feticci” africani, tutte vicine alla materia bruta. Il loro antropomorfismo è appena abbozzato […]. È proprio la materia bruta a essere difficilmente pensabile». (p. 24)
Lo stupore dinanzi alla vita, invece, è il portato della coscienza religiosa cristiana – di qui allora la difficoltà a capire l’associazione tra l’oggettività materiale e il divino – «ma questo stupore molto elaborato è l’inverso dello stupore primario (e non solo primitivo) dinanzi all’esistenza del non-vivente». (p. 24)
Ma la coscienza primitiva – continua Augé – non è in grado di concepire una separazione assoluta tra la materia e il vivente, che conduce alla «impossibilità di ogni pensiero» (p. 24), al limite del pensiero e del pensabile: la materia pura e bruta si pone dinanzi alla coscienza come inconcepibile e, pertanto, deve essere animata per poter essere pensata.
Il feticcio, allora, è oggetto naturale inanimato che diviene ricettacolo di forza e vita sovrannaturali, non è solo e non è tanto oggetto poi divinizzato, ma è direttamente oggetto-dio, dio-oggetto.
Attraverso cinque capitoli brevi, ma pregni di acute analisi e considerazioni, si sviluppa lo studio etnologico del vodu africano di Marc Augé, che di seguito applicando strumenti e metodi della sua riflessione antropologica all’analisi della complessità globalizzata contemporanea si è distinto come uno degli intellettuali più apprezzati degli ultimi anni.