di Walter Catalano
Gli anni ’70 segnano la definitiva stagnazione del sottogenere e il suo progressivo spegnersi. Tutte le possibilità sono state ormai esplorate, il pubblico comincia ad essere saturo e, per evitare monotone e stanche ripetizioni, gli autori cercano soluzioni originali che propongano personaggi ed elementi iconografici esotici e diversi o guardino verso la contaminazione con altri generi come l’horror, lo splatter, la commedia e perfino il kung-fu movie. Così ai già conosciuti antieroi ricorrenti, spesso solo di nome, come Django, Ringo, Cuchillo, si aggiungono i veramente seriali Sabata, Sartana, Garringo, (e, più avanti, i buffoneschi epigoni di Trinità: Tresette, Provvidenza, Nessuno, Alleluja, Spirito Santo, ecc.). Vengono catapultate nel west improbabili figure: disorientati samurai come il Toshiro Mifune di Sole rosso (1971) di Terence Young, mega coproduzione italo-franco-spagnola con Charles Bronson, Alain Delon e Ursula Andress, o il macchiettistico Sakura/Tomàs Milian de Il bianco, il giallo, il nero (1974) di Sergio Corbucci con Giuliano Gemma e Eli Wallach; improponibili cow-boy australiani che usano il boomerang invece delle pistole come il Ray/Lou Castel al suo ultimo ruolo western, di Màtalo ! (1971) di Cesare Canevari, con Corrado Pani e Antonio Salines; o infine macellareschi bounty-killer armati di mannaja come il Mannaja (1977) di Sergio Martino con un Maurizio Merli in trasferta dal poliziottesco (che non passerà comunque inosservato se pensiamo al Machete di Robert Rodriguez).
E’ il momento delle contaminazioni e dei cross-over: spesso tentativi naufragati in partenza come il matrimonio forzato fra il tortilla-western e la commedia all’italiana in stile Monicelli del fallimentare Che c’entriamo noi con la Rivoluzione ? (1972) di Sergio Corbucci con Vittorio Gassman e Paolo Villaggio. Molto meglio invece il sempre icastico Lucio Fulci che risulta vincente nell’innesto fra western e horror splatter. Fulci si era cimentato efficacemente con lo spaghetti western fin dal 1966 – appena reduce dai Franco e Ciccio movies – con Le colt cantarono la morte e fu…tempo di massacro, interpretato da Franco Nero, George Hilton e Nino Castelnuovo e con sceneggiatura del veterano del noir Fernando Di Leo: un film che unisce l’estetica noir alla crudeltà artaudiana, con scene già molto violente per l’epoca che furono censurate (un peon sbranato dai cani e il buon Nero dilacerato a frustate dal pestifero Castelnuovo che voleva farsi perdonare il contemporaneo manzoniano Renzo dei Promessi sposi televisivi); fu un successo notevole che alzò la categoria di Fulci, regista fino ad allora impiegato soprattutto nei musicarelli o nelle farse targate Franchi&Ingrassia, e consolidò la fama di Franco Nero, appena uscito da Django, come nuovo Eastwood (nel film ne indossava letteralmente il guardaroba). Ma è col ritorno di Fulci al western – dopo due tentativi nelle vicinanze con Zanna bianca (1973) e Il ritorno di Zanna bianca (1974) – nel 1975 che il regista segna il suo risultato più significativo e originale. I quattro dell’Apocalisse, con l’immancabile Tomàs Milian e un insolitamente eccellente Fabio Testi, è sicuramente da annoversarsi fra i film più incisivi di Fulci e fra i più notevoli spaghetti western crepuscolari.
Quattro outsiders, un baro professionista sfigato (Stubby/Testi), una prostituta incinta (Bunny/Lynne Frederick), un nero mezzo pazzo (Bud/Harry Baird) e un alcolizzato (Clem/Michael J. Pollard), sono i protagonisti della cupa e sanguinosa storia che Ennio De Concini aveva tratto molto liberamente da alcuni racconti di Francis Brett Harte: mentre fuggono dal paese in cui lo sceriffo ha scatenato un eccidio, incontreranno il bandito messicano Chaco/Milian, un sadico che scuoierà vivo lo sceriffo, violenterà Bunny dopo aver somministrato peyote agli altri compagni, e ferirà mortalmente a una gamba Clem dopo averlo umiliato. Bunny morirà più avanti di parto e Stubby rintraccerà il perfido Chaco riuscendo finalmente ad ucciderlo. Più che nell’insieme discontinuo, il film funziona egregiamente nelle singole parti: in particolare tutta la sequenza horror nella ghost town dove Clem muore per le conseguenze della ferita alla gamba, Bunny e Stubby hanno una liaison erotica, Bud impazzisce definitivamente, parla con gli spettri che crede infestino il villaggio abbandonato e prepara ai compagni un’appetitosa cenetta che questi scopriranno il giorno dopo essere preparata con pezzi di carne strappati al cadavere insepolto di Clem, sono forse fra le sequenze migliori mai girate da Fulci. La contaminatio può dirsi in questo caso assolutamente riuscita. Non altrettanto invece per l’ultimo appuntamento di Fulci col western e uno degli ultimi western italiani in assoluto, Sella d’argento (1978), con Giuliano Gemma, film per bambini in origine concepito per Duccio Tessari e passato poi nelle mani, non proprio adeguate all’infanzia, di Fulci.
Se escludiamo il florilegio di western parodistici che attraversa gli anni ’70, ultima mutazione dello spaghetti western di cui tratteremo a parte, gli ultimi film in linea con la tradizione seria del genere prima della sua definitiva scomparsa, sono opera di Enzo G. Castellari. Regista attivo fin dagli albori del western all’italiana, Castellari realizza numerosi film dignitosi ma non eccelsi: nel 1967, Sette Winchester per un massacro; Vado…l’ammazzo e torno; Quella sporca storia del West; nel 1968, I tre che sconvolsero il West-Vado, vedo e sparo, uno dei primi western umoristici; Ammazzali tutti e torna solo, forse il più riuscito; nel 1972 Te Deum, di nuovo un comico abbastanza sgangherato, a parte la presenza del sempre notevole Jack Palance; nel 1975 un altro tardissimo western comico, Cipolla Colt, con un Franco Nero che si prende per Terence Hill. Infine un degno canto del cigno: Keoma (1976), con un efficace Franco Nero, una bellissima Olga Karlatos, e poi Woody Strode, William Berger, Orso Maria Guerrini. L’autore considera questo film il suo capolavoro e Franco Nero, in effetti, dà vita al suo più riuscito personaggio western – un giustiziere messianico mezzosangue indiano – insieme a Django; notevoli le musiche di Guido e Maurizio De Angelis e la canzone leitmotiv. Forse la storia pecca di pretenziosità e di barocchismo, con forzature allegoriche, metaforiche e simbolistiche, battute apoftegmatiche alla Shakespeare de’ noantri, con la Morte personificata in una vecchia che segue Keoma dalle prime alle ultime scene e la Vita in una bella donna incinta che morirà di parto; anche lo sfondo fosco dell’epidemia di peste che devasta la città è assai poco western e molto Settimo sigillo di Bergman. Il risultato resta comunque significativo, pur con tutti i suoi limiti, e Keoma è senza dubbio la conclusione più degna per un glorioso sottogenere.
Spaghetti e fagioli: pugni non pistole.
Il viraggio dello spaghetti western dal serio al faceto, in quel sotto-sottogenere che qualcuno definisce fagioli western a causa delle frequenti scorpacciate del legume che molti dei protagonisti, più vicini agli zanni della commedia dell’arte che ai pistoleros della frontiera, si concedono, con prevedibili conseguenze meteoriche gastro-intestinali, in numerosi film del filone, nasce progressivamente già a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, in concomitanza con i primi segni di crisi del genere maggiore.
Sebbene molti degli attori della versione seria si riciclino o cerchino, con maggiore o minor fortuna, di trasferirsi anche a quella comica (Milian e, in misura minore, anche Gemma, che da sempre avevano saputo conferire verve umoristica anche a personaggi problematici e addirittura tragici, hanno facile gioco; Franco Nero invece non risulta mai troppo convincente), emergono degli attori specializzati che fondano il fagioli western e si identificano quasi universalmente con esso. Mario Girotti, meglio noto come Terence Hill e Carlo Pedersoli, Bud Spencer, si incontrano sul set di Dio perdona… Io no ! (1967) di Giuseppe Colizzi, western ancora serio – con tanto di sparatorie, morti ammazzati e duello finale – ma già con ampie aperture all’ironia e alla leggerezza: Spencer, ex campione olimpionico di nuoto al suo primo ruolo importante, fu scelto per la stazza mastodontica e Hill, sorta di Franco Nero in chiave minore con già una lunga carriera di attore non protagonista alle spalle, sostituiva Peter Martell vittima di un infortunio. Il film ebbe uno straordinario successo e Colizzi ripropose il fortunato duo, non ancora coppia, e il suo tono serio ma non troppo, in altre due pellicole di notevole impatto, I quattro dell’ave Maria (1968), con Hill, Spencer, Eli Wallach e il nero Brock Peters, e La collina degli stivali (1969), con Hill, Spencer, Woody Strode e Lionel Stander. Nel frattempo Hill, ancora in chiave seria e in virtù della sua somiglianza con Franco Nero, aveva prestato il suo viso a Django in Preparati la bara ! (1968) di Ferdinando Baldi, uno dei numerosi seguiti apocrifi al film di Corbucci; così, quando Franco Nero impegnato nella produzione americana Camelot, rifiutò il ruolo, fu Terence Hill a sostituirlo nel film che lo consacrò definitivamente e segnò l’avvio del fagioli western: Lo chiamavano Trinità (1970), di Enzo Barboni in arte E.B. Clucher.
Stanco di sparatorie e mattanze Barboni inventò un western quasi incruento in cui le pistole vengono sostituite dai pugni, non muore nessuno e si ride praticamente dall’inizio alla fine: Hill è Trinità un simpatico pistolero pigro e indolente che viaggia in travoy, la slitta indiana, trainato dal suo cavallo; Spencer invece è Bambino, il fratello maggiore di Trinità, un ladro di cavalli scontroso ma in fondo bonaccione, i due fratelli sono noti rispettivamente come “la mano destra e la mano sinistra del diavolo”, a causa del tiro destro dell’uno e mancino dell’altro, con la pistola che, in realtà non usano quasi mai: salveranno, a cazzotti e a padellate, la classica comunità di mormoni minacciati dal Maggiore Harriman/Farley Granger, uno speculatore che vuole impossessarsi delle loro terre; Trinità rischierà addirittura la bigamia, allora permessa fra i mormoni, con le due fanciulle, molto carine, da lui salvate, che lo vogliono entrambe per marito (per sua fortuna fuggirà in tempo). Il successo straordinario e universale del film, nato su una così rischiosa infrazione del canone – niente più verosimile violenza – segna la morte definitiva dello spaghetti western: quando i pistoleri diventano macchiette e i duelli si risolvono a pentolate in testa non c’è più spazio per l’epica.
Il sequel, …Continuavano a chiamarlo Trinità (1971), realizzato da Barboni, in tempi rapidissimi e con gli stessi ingredienti, funziona ancora meglio incassando addirittura 6 miliardi, il film con maggior numero di spettatori in Italia dopo Ultimo tango a Parigi. Questa volta, Trinità e Bambino, falsi agenti federali, aiutano, invece dei mormoni, una Missione di frati francescani (piuttosto maneschi, vedremo nel finale) bistrattati dalla ghenga dei soliti loschi affaristi: si sprecano schiaffoni alla velocità della luce, giochi di destrezza con le carte al tavolo da poker (le mani di Terence Hill furono “sostituite” da quelle di un famoso prestigiatore dell’epoca: Tony Binarelli), scazzottate ecumeniche e rutti fragorosi che sostituiscono il boato delle colt. Se questo secondo Trinità è, nel suo genere, decisamente carino e riuscito, Barboni perde invece colpi con il forzatissimo terzo episodio …E poi lo chiamarono il Magnifico (1972), senza Spencer, scontento di un ruolo non equilibrato a quello del partner (preferì girare, come protagonista assoluto accanto a Jack Palance, il contemporaneo e melenso Si può fare… amigo di Maurizio Lucidi) e sostituito inadeguatamente da Gregory Walcott; e con Hill alle prese con un personaggio diverso da Trinità – un dandy inglese in cerca di fortuna nel West – e a lui assai meno congeniale.
Dopo l’occasionale flop, la coppia viene prontamente ricostituita e riciclata con la stessa formula in altri contesti avventurosi, dal momento che il western è ormai in crisi irreversibile; così Hill & Spencer diventano di volta in volta, piloti d’aereo – …Più forte ragazzi (1972) di Giuseppe Colizzi -, corridori automobilistici – …Altrimenti ci arrabbiamo (1974) di Marcello Fondato -, maneschi missionari – Porgi l’altra guancia (1974) di Franco Rossi -, simpatici sbirri sui generis – I due superpiedi quasi piatti (1977) di Enzo Barboni -, e così via: il loro cinema privo di sesso e di violenza realistica, dalla comicità semplice, sempre ad un passo dalla volgarità ma mai veramente volgare, li consacra eroi fumettistici da Corriere dei Piccoli, idoli perbenisti degli spettacoli parrocchiali per la famiglia e per l’infanzia, alfieri del buonismo cattolicheggiante e conservatore.
Nel frattempo il fagioli western, ultima propaggine sopravvissuta dell’ormai defunto spaghetti western, si spegne a sua volta tristemente nella stanca ripetizioni di gag scontate e sempre più scurrili e di personaggi sempre più ridicoli: se si salvano ancora, grazie alle qualità dell’interprete, i Provvidenza di Milian (che già preludono ai più fortunati Monnezza del poliziottesco comico) – La vita, a volte, è molto dura, vero Provvidenza? di Giulio Petroni e Ci risiamo, vero Provvidenza? (1973) di Alberto De Martino – non così i vari Tressette, Alleluja, Spirito Santo, Camposanto, Acquasanta Joe, e così via declinando.
Intonare il requiem e nello stesso tempo fare la sintesi finale di tutto ciò che il western cinematografico ha proposto nel corso della sua lunga storia, è comunque compito del principale creatore di western europeo: ancora Sergio Leone. Se con C’era una volta il West, il cineasta romano aveva riconciliato la grande tradizione del western classico americano con l’epopea sanguinosa all’italiana da lui inaugurata, aggiungerà ora un terzo termine alla questione, in un film da lui prodotto e in parte anche scritto e diretto, preferendo affidare però la regia ufficiale a un suo ex aiuto, fin dal 1966 autore in proprio di western minori.
Con Il mio nome è Nessuno (1973) di Tonino Valerii, Leone miscela con il western classico e quello leoniano anche il fagioli western comico: chiama come protagonisti l’icona fordiana Henry Fonda (già da lui declassata da epico eroe a infame villain in C’era una volta il West) e il simbolo della deriva “trinitaria” del western, Terence Hill e, mettendoli insieme, tenta l’azzardato esperimento – che riesce alla perfezione e ottiene un largo successo di pubblico – di un meta-western in cui il tema serio e crepuscolare della dialettica giovinezza / vecchiaia, mito / realtà, si stemperi con leggerezza e levità in un gioco di rimandi, altrettanto dialettici, fra elegia e commedia.
Il giovane cow-boy/Hill che si fa chiamare Nessuno, come Ulisse di fronte a Polifemo, si trova invece di fronte il mito della sua gioventù, l’ormai anziano e disilluso bounty-killer Jack Beauregard/Fonda: Nessuno vuole assicurare al suo eroe l’ultima grande impresa prima della sua inevitabile e auspicata uscita di scena, uno scontro incredibile ed epico con il Mucchio selvaggio, 150 feroci cavalieri che Jack atterrerà da solo (con l’aiuto della dinamite); essendo però l’eroe sopravvissuto, l’epopea non può dirsi degnamente realizzata: così Nessuno organizza un finto duello tra loro due, in pieno centro a New Orleans, dove Beauregard inscena la sua finta morte, lasciando a Nessuno la sua pesante eredità di “Giustiziere”, oltre che lo stuolo dei nemici accumulati in vita. Sulla lapide di Beauregard viene scritto ambiguamente: “Nessuno è stato più veloce di lui” (su una tomba vicina è ben visibile il nome Sam Peckinpah, a cui Leone aveva proposto la regia di Giù la testa ! e che aveva rifiutato). Beauregard, finalmente libero, si ritira in Europa da dove scrive una malinconica lettera al suo giovane ammiratore: il West non è più quello violento ma sincero che lui aveva conosciuto, l’era dei duelli è finita.
Con questa scoperta metafora Leone chiude definitivamente la stagione che lui stesso aveva aperto: l’era dei duelli – ahimé – è davvero finita… ovunque, ma soprattutto in Italia!