di Giacomo Sartori
[Pubblichiamo un estratto del romanzo in uscita di Giacomo Sartori Sono Dio, Enne Enne Editore, Milano 2016, pagg. 213 € 17. Il testo è preceduto da una introduzione scritta dall’autore per Carmilla.]
LA DISFATTA DI DIO
I personaggi di tutti i miei testi lottano con il linguaggio per cercare di attribuire un senso a quello che vivono e a se stessi, come facciamo noi nelle nostre esistenze. È questa lotta ingrata e in fondo sempre perdente, ma a momenti anche molto bella, o comunque struggente, che m’è sempre interessata. Per braccare i significati noi abbiamo solo il pensiero, che si serve delle parole. Le parole ci appartengono ma anche ci respingono e tradiscono, non combaciano con i dettagli arzigogolati del nostro modo di essere. Spesso ci fanno male. E allora cerchiamo di piegarle, di modellarle, di combinarle in modo che ci aiutino, o almeno che non ci facciano male. Questo fanno le donne e gli uomini che abitano i miei libri, che sono spesso degli spostati e dei vinti, a modo loro più vicini alla verità, o almeno con schermi meno elaborati dietro ai quali rifugiarsi.
Questa volta il protagonista è Dio, ma la sua condizione risulta essere la stessa, anche lui si interroga, cerca di capire e di dirsi. Perché la nostra cultura non ci consente di immaginarci un Dio che non raziocina e non sa argomentare. Però non possiamo permetterci di ascoltarlo, perché se lo ascoltassimo ci accorgeremmo che le sue sono solo stoltezze. Lui naturalmente non è sciocco, è la lingua che imprigiona quello che può essere detto nel già detto, svilendolo, trasformando anche la manna in pedisseque menzogne. Se usasse pure lui i nostri strumenti verbali, Dio si avvilupperebbe sempre più in una rete che lo stritolerebbe e annienterebbe quanto di divino è in lui. Nessuno, nemmeno Dio, può piegare la lingua. Proprio per questo lo facciamo stare zitto, il nostro Dio, lo lasciamo esprimersi attraverso antichi testi canonici che trattano di lui, scritti da noi. Nei nostri cervelli e noi nostri cuori però parla, non riusciremmo a concepire che immenso e potente com’è taccia.
E sempre difficile per me dire perché ho preso di petto un dato tema in un romanzo. Lo capisco in genere dopo, proprio grazie alle sequele di quell’esperienza ermeneutica che rappresenta la scrittura, e nella sedimentazione del tempo. A un certo momento mi accorgo che ho le idee un po’ più chiare, e constato che per me quel tragitto è stato essenziale. Ora è troppo presto. Io vengo da una famiglia vivacemente laica e anticlericale, una piccola zattera con bandiera tricolore alla deriva in un braccio di mare particolarmente bigotto e clericale. E non a caso vivo da anni nel paese meno religioso e più anticlericale del mondo (la Francia ndr). Il mio laicismo è però sfociato nella consapevolezza di quanto la nostra cultura, anche appunto quella laica, sia intrisa di religione, così come i nostri modi di valutare e di relazionarci, e come le stesse alternative che l’uomo moderno si è costruito, che per me restano molto importanti, siano modellate sull’impalcatura e nella lingua delle religioni. Ma il mio laicismo s’è incrinato anche di fronte alla constatazione che esiste un mondo nascosto, e questa parte sommersa è una dimensione essenziale dell’esistere. Ho dovuto arrendermi all’evidenza che sotto la materia c’è anche dell’altro, e questo altro con il quale l’uomo ha sempre dialogato è forse quanto di più prezioso abbiamo, e conoscerlo può aiutarci a vivere meglio. Certo, esso è stato preso in ostaggio dalle religioni, però esiste al di fuori di esse, e è forse esiziale per le stesse strategie di equità e miglioramento sociale finalizzate a strappare l’uomo dalle paludi mortifere nelle quali s’è ficcato.
Il protagonista del mio romanzo non è Dio, e non potrebbe esserlo – Dio è tutto ciò che non possiamo conoscere e di cui non possiamo parlare, o semplicemente, come ha insinuato Jung, il nostro subconscio – è l’immagine che abbiamo di Dio, che ci viene dalle religioni monoteiste. La disfatta attuale di questa nostra rappresentazione è proporzionale alle sue velleità e pretese, ed è tanto catastrofica da poter risultare, come capita appunto nel mio testo, comica. Fa sorridere che un presuntuoso che si crede onnipotente capitomboli dal suo sommo trono, e fa ridere che un dominatore ostinato deva arrendersi a un avversario apparentemente tanto inconsistente come la lingua, la quale riflette le infinite declinazioni possibili dell’essere, ma si rivela sempre inadeguata a esprimere l’inimitabile particolarità di un qualsiasi individuo, sia esso uno schizofrenico che si prende per Dio o Dio in persona. Ma appunto una narrazione non è una macchina di coerenza, non dà risposte, e forse il Dio risibile che abita il mio romanzo ha anche lacerti di saggezza, in particolare quando guarda e giudica la follia degli uomini, il loro tramenare quotidiano, la loro insensata fede nelle tecnologie e nel progresso, i loro pietosi espedienti per rassicurarsi. Quindi lo rispetto, come ho sempre rispettato tutti i miei personaggi, che mi hanno insegnato molto e mi hanno reso quello che sono adesso.
LA MOTOCICLISTA SODOMITICA
Un dio fa infinite cose, questo lo sanno proprio tutti, ma nello stesso tempo per quanto possa sembrare paradossale non ha niente di particolare da fare. Non è uno sfaccendato, però nemmeno un ragioniere che timbra ogni giorno il cartellino, e tanto meno un fanatico dell’attività. Fa quello che deve fare senza affannarsi e senza stressarsi, senza farlo pesare. Per certi versi senza nemmeno accorgersene. Un dio come prima cosa sta lì a fare il dio. Guarda e ascolta, anche se il suo guardare e ascoltare non hanno nulla a che fare con quelli degli uomini. Sono Dio, pensa.
Contemplo, veglio. Osservo per esempio la galassia chiamata Via Lattea, e più precisamente quello che viene chiamato sistema solare, e più in dettaglio ancora il pianetino chiamato Terra. I miei occhi, faccio per dire, cadono su una ragazza molto alta (tutto è relativo) che si trova in una stalla supertecnologica: agli antipodi, non vorrei che sorgessero equivoci, del bucolico raccoglimento di un presepio. Vedo che infila la mano guantata nell’ano di una mucca, e con un rapido movimento rotatorio del polso ne estrae qualche manciata di feci di consistenza fangosa. Dopodiché pulisce la turgida vulva
dell’animale, la divarica e inserisce l’apice di uno strumento che ricorda per certi versi una siringa e per altri una pistola, spingendo per farlo penetrare, ogni tanto ruotandolo. Nello stesso tempo rinfila il pugno sinistro nel sedere, questa volta immergendo tutto il braccio fino oltre il gomito. Come sbilanciandosi per raccogliere un oggetto caduto dietro un mobile.
Non saprei dire perché tra le tante (per non dire infinite) possibilità che gli si presentano, negli ultimi tempi il mio sguardo converga sempre sulla Via Lattea. E perché all’interno della Via Lattea, che non è poi così minuscola, si focalizzi proprio sul sistema solare, e nel sistema solare precisamente sul pianetucolo a stento visibile chiamato Terra. E perché sulla Terra, che per quanto infinitesimale ha pur sempre ben altre attrattive, inquadri la ragazza con due codini viola che a ogni piè sospinto infila il braccio nel culo delle mucche.
L’universo rigurgita di sbalorditivi panorami e anfratti, di rarefatte lande interstellari, di repentine apoteosi di gas incandescenti, di pozzi di nerissimo vuoto. E invece prima ancora che me ne renda conto il mio sguardo (continuiamo a chiamarlo così) si concentra sulla Via Lattea, e mette a fuoco il braccio nel posteriore e la lunga faccia occhialuta che supervisiona l’operazione: l’espressione concentrata di chi sta adempiendo un compito importante, di chi sta pregando.
La perticona con la tuta da operaio agricolo continua a sprofondare il braccio nelle viscere della mucca, fino quasi a arrivare alla spalla. La bovina si lascia sodomizzare – non saprei che altro termine usare, scartando a priori il termine anglosassone fisting, in odore di pornografia – senza fiatare, perché se c’è un animale pacifico tra tutti quelli che ho creato (e questo anche prima della cosiddetta domesticazione, alias la schiavizzazione) è proprio lei. Molte altre bestie azzannerebbero la sodomizzatrice, o le inietterebbero un micidiale veleno, o almeno le darebbero un calcione con le zampe posteriori: quella invece se ne sta lì paziente, come un umano aspetterebbe l’autobus a una fermata.