di Elena Ritondale
Conosciuta in Italia grazie alla pubblicazione di La terra dei narcos (Mondadori, 2014), Anabel Hernández è una delle giornaliste più impegnate nelle indagini sui rapporti fra cartelli della droga e apparati dello stato messicano. Vincitrice del Premio Nacional del Periodismo per un’inchiesta chiamata Toallagate (2001), sull’uso di fondi pubblici per spese private da parte dell’allora presidente Vicente Fox, Anabel Hernández è forse la principale biografa del boss Joaquín “El Chapo” Guzmán. Sulla relazione fra il cartello di Sinaloa e gli ultimi governi messicani la giornalista è sempre stata chiara: tutta la cosiddetta guerra al narco non sarebbe stata altro che un modo per aiutare quel cartello a fare piazza pulita della concorrenza.
Nel 2011 Hernández accusò in televisione il Segretario Generale per la Pubblica Sicurezza di aver ordinato il suo assassinio a membri corrotti della polizia, con queste parole: “Yo quiero denunciar desde esta tribuna que el Secretario de Seguridad Pública Federal, Genaro García Luna y su equipo siguen con la orden dada de matarme”.
Attualmente vive a Berkeley con i suoi due figli proprio per ragioni di sicurezza ma non rinuncia al lavoro di inchiesta in Messico, dove viaggia regolarmente.
Anabel Hernández è stata protagonista, insieme a Diego Enrique Osorno, di una serata al teatro Massimo di Palermo dedicata alla mattanza dei giornalisti in Messico e della ‘ndrangheta in Calabria, con la proiezione di Le strade del narcotraffico tra Messico e Italia di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello.
Ne abbiamo approfittato per chiederle un commento su alcuni aspetti di questi anni convulsi in Messico.
Giovanni Falcone diceva che “le mafie, come il denaro, non hanno confini”. Sappiamo che è vero ma qual è oggi il rapporto tra i cartelli della droga e il territorio? Ai cartelli è ancora utile che resistano alcune frontiere?
Il traffico di droga è una delle espressioni più selvagge del capitalismo, si tratta di denaro, di fare affari. I consumatori sono ovunque e, come qualunque impresa capitalista (i narcos) cercano nuovi clienti. Per questo, anche se i consumatori più importanti sono negli Stati Uniti, per i cartelli messicani il Sud America e l’Europa sono i mercati che vogliono conquistare e che stanno conquistando poco a poco. Questo non implica assolutamente che questi affari non abbiano bisogno di un controllo territoriale, esattamente come avviene in molti altri settori dell’economia capitalista. In Messico, per fare un esempio, ci sono territori in cui si vende Coca Cola e non si vende Pepsi Cola e altri in cui si vende Pepsi e non Coca Cola. Voglio dire che anche il controllo territoriale è capitalista. I cartelli hanno bisogno del controllo del territorio, soprattutto per il trasporto della merce, ma anche per gestire attività parallele: l’estorsione, i sequestri, la tratta delle donne e chiaramente il traffico dei migranti. Questo controllo si estende anche in centro e sud America.
In un momento in cui il Messico sta liberalizzando un settore come quello dell’energia, legato all’estrazione del petrolio, quanto credi che questa capacità dei cartelli della droga di presidiare il territorio possa rivelarsi cruciale per quelle imprese che dovranno investire in luoghi “caldi”? Detto diversamente: gli imprenditori nazionali e stranieri dovranno scendere a patti con loro per poter operare “in sicurezza?”
In questo momento nessuno, in Messico, può garantire “ordine” o sicurezza, neppure i cartelli della droga. Ognuno di loro controlla zone concrete ma circoscritte e questo si nota, ad esempio, dal fatto che chi trasporta merci per lunghe distanze debba pagare qualcosa a gruppi diversi. Gli Zetas in alcune zone rubano petrolio e condotti e un’impresa che voglia investire in un’area sotto il loro controllo deve naturalmente farci i conti. Questo però non sarebbe sufficiente; fare un accordo con gli Zetas, in una situazione frammentata come quella del Messico di oggi e, anche, del suo mondo criminale, non esclude assolutamente che gruppi rivali degli Zetas attacchino un territorio da loro controllato per subentrarvi. Nessuno può garantire stabilità al momento, per questo gli investimenti stranieri sono tanto debilitati. L’atomizzazione del mondo della droga è stata una conseguenza diretta della complicità di Vicente Fox nella fuga del Chapo e poi della cosiddetta guerra al narco voluta da Calderón. Dal 1970 fino al 2000 tutto il territorio nazionale era spartito da cinque cartelli. Gli ultimi governi hanno debilitato gli avversari del cartello di Sinaloa, di fatto frantumandoli e moltiplicandoli. Ora esistono gruppi più piccoli e meno stabili ma altrettanto aggressivi e molto ben armati, grazie alla facilità con cui si possono reperire armi sul territorio proprio grazie alla loro massiccia diffusione durante il periodo di militarizzazione del paese. Oggi anche il gruppo più piccolo può entrare in possesso di un lanciafiamme. La fortuna è che non tutti sanno usarli.
Parlando della “guerra”, un capitolo a parte meriterebbe il modo in cui è stata spiegata ai messicani. Il lessico utilizzato è stato tutto volto all’esaltazione del “nemico”, alla promozione di una diffusa percezione di insicurezza che potesse alimentare la paura e giustificare una reazione violenta da parte dello Stato.
Prima di tutto bisogna dire che non è mai esistita una “guerra al narco”. Il Governo di Calderón ha mandato l’esercito in certe parti del paese e non in altre, perché i suoi interessi erano indirizzati a togliere di mezzo alcuni gruppi, non a risolvere il problema. Intorno agli anni ‘70 in Messico esisteva una sorta di regolazione del traffico di droga attraverso una corruzione diffusa, che includeva tutte le bande; così si è andati avanti fino al 2000. Da quel momento in poi l’interesse del Governo è coinciso con quello di un gruppo in particolare, che si è deciso di appoggiare nella sua guerra agli altri. Questo ha avuto i suoi effetti collaterali, ad esempio i governatori dei singoli stati non sono mai stati così potenti, perché i gruppi esclusi hanno trovato in loro delle sponde: il PRI in alcuni casi ha appoggiato cartelli osteggiati dal governo nazionale.
Qual è stato in generale il ruolo del PRI (Partito Rivoluzionario Istituzionale)? La svolta del 2000 coincide di fatto con lo storico passaggio di consegna da questo partito (al governo da 70 anni) al Pan di Vicente Fox.
La verità è che la transizione non c’è mai veramente stata. Se si controlla il gabinetto di Vicente Fox si può vedere che esponenti priisti sono sempre stati presenti. Gli stessi priisti che c’erano con Zedillo e con Salinas sono rimasti cruciali anche durante i mandati di Vicente Fox, di Calderón e di Enrique Peña Nieto; parlo soprattutto dei luoghi in cui si controlla l’economia. Il PRI non ha mai lasciato i posti di potere in cui si trovava. Nella Secretaría de hacienda o al Banco de México ha continuato a essere presente.
Oltre alle parole “morte”, “guerra”, “nemico”, nell’ultimo decennio se ne è imposta una, con urgenza drammatica: “desaparecidos”. La scomparsa di decine di migliaia di persone è uno strumento di terrore ancora più efficace degli omicidi di massa?
A partire dalla “guerra” di Felipe Calderón abbiamo avuto almeno ventiseimila desaparecidos. Si tratta di un tema articolato. È difficile differenziare quante persone siano state fatte sparire dai cartelli e quante dal governo. In Messico è un argomento che non si è studiato a sufficienza, che rimane ancora sospeso. Quando ci sono casi come quello di Ayotzinapa, in cui si distingue più chiaramente la responsabilità della polizia federale, sorge chiaramente la domanda: “e allora gli altri?”. Ci stiamo rendendo conto che in alcuni casi l’autore dei sequestri è stato l’esercito, perché ce lo hanno detto i giornalisti con le loro ricerche. Ma nei casi – troppi – su cui non ci sono state indagini è difficilissimo capire se la responsabilità sia stata dell’esercito, dei narcos o della collaborazione fra i due. È complesso definire chi stia usando questo strumento del terrore. Mi pare comunque che il Governo non abbia voluto analizzare attentamente la lista dei desaparecidos e che continui a non farlo, anche se si tratterebbe di una cosa elementare, perché nella lista compaiono i nomi, le età, l’ora in cui sono stati prelevati, il sesso, il quartiere, la città. È incredibile che il Governo, dopo tanti anni, non abbia fatto un’analisi di tutte queste informazioni, anche a un livello molto semplice, per dire “in Messico il posto in cui spariscono più persone è questo, normalmente succede in questo modo e per queste cause”. Perché non lo fa?
Foto di Antonio Cruz