di Alessandro Barile
La periferia si sta trasformando sempre più velocemente da contesto geografico a concetto politico. Un’evoluzione ancora poco conosciuta, foriera però di grandi preoccupazioni e altrettante opportunità. Non è allora per caso o per scrupolo culturale che il governo ha deciso di dare vita nientemeno che ad una “indagine sulle periferie” in collaborazione con la rivista di geopolitica Limes. I dati parlano chiaro: secondo alcuni analisti, “le megacities sono destinate a succedere agli Stati quali soggetti geopolitici principali. Megalopoli che detengono una quota decisiva del Pil nazionale e si profilano come hub globali grazie al peso economico, alla capacità di attrarre investimenti, alla connessione con i centri omologhi[…] Oggi nel mondo ci sono molte più città funzionali di quanti siano gli Stati effettivi. Tali città sono spesso isole di governance e ordine in Stati molto più deboli. Le megacittà sono indifferenti ai fragili Stati che le circondano“. Il baricentro di questo cambio di paradigma è situato in Asia: qui prendono forma le più popolose aree metropolitane del pianeta (34 su 50 megalopoli censite). Di fronte a questo stravolgimento epocale, è ancora possibile parlare di “città”? E che valore assume il concetto di periferia nella trasformazione generale dell’ambiente cittadino?
In Italia la metamorfosi urbanistica della città di Roma serve bene come modello negativo di riferimento. La capitale è infatti una città abnorme, sproporzionata alle sue necessità e alla sua popolazione: 1287 kmq, contro i 105 kmq di Parigi o i 785 kmq di New York. Una città dove vivono meno di tre milioni di persone, facendone una delle grandi città meno densamente popolate del mondo. Una contraddizione generata dalla natura abusiva della sua espansione: un terzo del territorio comunale è nato illegalmente, un territorio più grande dell’intero comune di Napoli è di fatto abusivo, ma è anche quella porzione di territorio dove oggi risiede la maggior parte della popolazione romana. E allora, Roma può definirsi ancora una città? La realtà dei fatti mette in relazione piuttosto due città, antitetiche e ostili tra loro: un centro storico quantitativamente minuscolo rispetto al resto del territorio amministrato dal Comune, ma dove si concentrano tutti i flussi economici cittadini, dai proventi del turismo globale alle funzioni di rappresentanza economiche e amministrative comunali, a cui va aggiunta la prima cintura (semi)periferica nel frattempo integrata nella città legittima; e una sterminata periferia che inizia ai margini del Grande raccordo anulare (un tempo vero e proprio limes cittadino) e prosegue per chilometri oltre, in pieno ex agro romano oggi completamente cementificato e (sub)urbanizzato. Una periferia che però non detiene alcuna compattezza o unità, se non derivata sociologicamente dalla sua marginalizzazione economica, culturale e politica. Bisognerebbe parlare allora di periferie, al plurale, perché questi insediamenti urbani non comunicano reciprocamente, sono distanti dal centro tanto quanto fra di loro. Si legge nell’editoriale di apertura al numero di Limes: <la già labile distinzione tra centro e periferia tenderà inerzialmente a scolorire. Specie nelle megalopoli. Definire la città è pretesa impossibile nella metropoli contemporanea. Di più: la forma della metropoli odierna dal punto di vista fisico è la periferia>.
A Roma queste tendenze sono pienamente dispiegate sul territorio e nei rapporti sociali prodotti da questa involuzione urbanistica. Roma oggi coincide con la sua periferia, che però è nata in opposizione a qualsiasi ipotesi di gestione pubblica e coordinata della sua trasformazione. Caso più unico che raro, secondo quanto afferma Vezio De Lucia nel suo ultimo libro Roma disfatta: a Roma non esiste alcune regolazione pubblica dello sviluppo urbano, perché il Piano regolatore generale del 2008 – approvato quarantatré anni dopo quello del 1965 – non regola alcunché bensì ratifica quanto già costruito e quanto già in fase di costruzione. Un piano che prende atto della natura ingovernabile di una non-città che però oggi è di fatto la città vera e propria, almeno per numero di abitanti residenti e per superficie occupata. Brandelli di metropoli che nascono spontaneamente e che mai diverranno “città”, mai cioè sarà possibile garantire livelli di socialità, di urbanizzazione, di servizi adeguati agli standard sedimentati della civitas. Monadi plasticamente rappresentate dall’assenza di piazze: <ho letto – racconta il ministro dei beni culturali Franceschini – in un recente studio che la prima cosa cui i turisti pensano in relazione alle città italiane è la piazza: un elemento ubiquo nei nostri centri storici e fortemente caratterizzante, il cui potere di aggregazione ne ha fatto il fulcro della comunità. Le periferie, viceversa, spesso mancano di piazze>. Basta fare un giro nel quartiere di Ponte di Nona, estrema periferia est della Capitale, per rendersene conto: 30.000 abitanti censiti, e neanche una piazza, i negozi faticano a sopravvivere, altre attività ricreative o culturali inesistenti. In compenso, l’ingombrante presenza di uno dei più grandi centri commerciali d’Europa, che ha favorito anche la creazione di uno svincolo stradale – illegale perché posto su di una curva a gomito – che quantomeno garantisce il collegamento tra il quartiere e la città.
E’ la città pubblica ad essere venuta meno: <La contrazione degli spazi pubblici vanifica le ipotesi di pianificazione urbana, o le affida alla buona volontà di soggetti privati che pretendono di determinare l’interesse generale a partire dal proprio>. Secondo Daniel Modigliani, <oggi le periferie sono una conseguenza della frantumazione delle città. Si perde il senso di appartenenza ai luoghi, della possibilità di cambiare fisicamente il posto in cui si abita per migliorarlo. Si perdono il rapporto con le istituzioni, il rapporto tra l’individuo e la città e tra i gruppi e la città. Sono mondi chiusi, bozzoli in cui si vive isolati come fossero esterni alla città>. E’ peraltro un fenomeno nuovo e per certi versi opposto a quanto avvenuto storicamente. Infatti, è proprio nelle borgate e nelle periferie popolari che più forte si faceva il sentimento di appartenenza e di condivisione di una condizione subalterna da opporre all’opulenza dei centri cittadini economicamente integrati ma culturalmente individualizzati. Sfuma nel tempo ogni confine tra sviluppo legale, illegale, abusivo e speculativo. Secondo Milena Farina <la distinzione fra le tre città – pubblica, privata legale e privata illegale – appare negli anni sempre più problematica: il fenomeno dell’abusivismo perde gradualmente i tradizionali caratteri di marginalità per assumere un ruolo strutturale nella crescita urbana>. Proprio qui si situa una delle chiavi di volta per comprendere l’evoluzione delle metropoli contemporanee: il territorio è lasciato coscientemente al mercato, senza intenti pianificatori. La metropoli diviene emblema del libero sviluppo delle forze produttive, l’urbanistica uno dei terreni dove sperimentare forme di liberismo accademico. Le periferie trasformate in tante zone economiche speciali dove sospendere o disattivare qualsiasi programmazione pubblica che possa incidere sulle possibilità di guadagno dei costruttori privati. Roma è l’emblema di questo processo. Migliaia di ettari urbanizzati che mai si trasformeranno in città perché impossibilitati a riconvertirsi ad uso pubblico. E che mandano in tilt anche la “città vetrina”: un’enorme quantità di popolazione, senza contare il resto della provincia e della regione, ogni giorno è costretta a recarsi nella “città funzionale” per lavorarci, svagarsi, studiare, incontrarsi, intasandone la viabilità, impendendone la pulizia effettiva, sballando i conti di aziende municipalizzate legate ai servizi pubblici, costrette a tamponare le falle prodotte dalla città privatizzata dai costruttori.
Questa trasformazione in atto assume, o potrebbe assumere, valenza politica. La separazione netta tra città legittima, funzionale e integrata, e metropoli emarginata dai processi di valorizzazione pubblica, trasforma le periferie in ghetti sociali, sempre più meticci e sempre meno integrabili e rappresentabili politicamente. Una frattura che fino a oggi ha prodotto rancori individualisti, sfoghi securitari e fascinazioni reazionarie, che però non hanno trovato (per fortuna, verrebbe da aggiungere) una stabile rappresentanza politica. Nessuno fra i competitors politici oggi in parlamento può davvero dirsi estraneo all’attuale ghettizzazione di intere fasce di popolazione urbana. Altrove queste marginalità sono state investite dal fenomeno del radicalismo religioso, una traiettoria che ben presto potrebbe trovare presa anche nelle nostre periferie. Da questo punto di vista il numero di Limes fotografa una situazione (attualmente non sono presenti fenomeni rilevanti di radicalizzazione religiosa nelle nostre periferie), ma sottovaluta la tendenza in atto: l’impossibile integrazione di milioni di abitanti delle periferie produrrà forme autonome di integrazione, e quella religiosa è al momento la più capace di ri-attivare “orizzonti di senso” per intere comunità migranti e non solo. Politicamente, inoltre, è dentro lo scontro in atto tra centro e periferia che la sinistra dovrebbe giocarsi la sua partita, per ritrovare un ruolo nella società ormai decisamente compromesso. E’ dentro tale contraddizione infatti che vengono sublimate le caratteristiche sociali delle società occidentali, indicando chiaramente chi è dentro e chi è fuori ogni ipotesi di integrazione economica, culturale e politica. Inoltre, le periferie occidentali e quella romana in particolare, assumono sempre più la forma meticcia di una subalternità senza frontiere etniche, e dove semmai sono i residenti autoctoni ad avvicinarsi alle condizioni di vita dei migranti e non viceversa. Per evitare Molenbeek all’italiana, dove cioè lo scontro è tra xenofobia e radicalismo religioso, è dentro questa frattura che la sinistra può trovare un senso nel XXI secolo.