di Gioacchino Toni
Federico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 125 pagine, € 12,00
Se da una parte l’immaginario orrorifico gotico è utile alla cultura dominante per potervi sublimare i traumi e le ingiustizie occidentali, riportando «ciò che non vuole (riconoscere di) essere in una dimensione “altra”, immaginaria, dove una realtà fatta di ingiustizie e soprusi viene contraffatta e proiettata nelle figure perturbanti di fantasmi, mostri e altri abominî» (p. 11), dall’altra non viene meno l’aspetto sovversivo del gotico, visto che, «benché contraffatto, l’elemento perturbante torna comunque a infestare la società, suggerendo che l’orrore e il terrore rappresentati potrebbero scaturire da noi, potrebbero parlare di noi» (p. 11).
Il gotico americano non avvalora di certo il mito dell’America come paese di speranza ed armonia e «se il gotico americano ha una sua caratteristica distintiva, forse è proprio quella di porsi come critica a tale mito nazionale, fondato sulla a-storicità e l’innocenza di un intero paese, su un immaginario di purezza ed eguaglianza» (p. 12). Si può dire, secondo l’autore, che il gotico americano recupera quella storia americana che è stata dimenticata o rimossa, dunque intende rendere visibile l’invisibile.
Il saggio di Federico Boni analizza la serie televisiva American Horror Story (dal 2011) individuando in questa una mappatura delle diverse declinazioni dell’American Gothic. Nel primo capitolo del volume l’autore contestualizza la serie all’interno dell’horror televisivo mettendo in luce tanto gli elementi di novità, quanto quelli di continuità, rispetto alla tradizione del gotico televisivo. Vengono dunque analizzati il rapporto tra il mezzo televisivo e la dimensione del perturbante, il panorama dell’horror television a partire dagli anni ’50 e gli aspetti produttivi della serie, come l’aver optato per una scansione antologica ma su base stagionale. Nel secondo capitolo vengono passati in rassegna gli spazi orrorifici che strutturano le diverse stagioni della serie (la casa stregata, il manicomio…) che rappresentano i luoghi ove si concentra l’immaginario perturbante del gotico americano. Si tratta di luoghi in cui si esercitano istanze di potere e, di conseguenza, gli spettri che abitano tali spazi possono essere identificati come “spettri del potere”. Infine, nel terzo capitolo vengono analizzate alcune tematiche affrontate dalla serie.
In American Horror Story ogni stagione ruota attorno ad un luogo specifico e questo è indicato sin dal titolo che identifica la stagione. La prima serie, Murder House (titolazione aggiunta a posteriori), ruota attorno alla casa stregata di Los Angeles ove si trasferisce la famiglia Harmon, la seconda, Asylum, è ambientata nell’ospedale psichiatrico di Briarcliff, nei pressi di Boston, la terza stagione, Coven, è collocata a New Orleans, in particolare in una scuola per streghe, la quarta, Freak Show, si concentra attorno ad un circo itinerante americano nella Florida del 1952, proprio all’epoca della scomparsa di questo tipo di spettacoli. Al momento della stesura del saggio non era ancora stata trasmessa la quinta stagione, Hotel. Ad ognuno di questi luoghi l’autore associa un elemento caratterizzante del gotico: il fantasma (ritorno del rimosso) per l’haunted house, la violenza dell’istituzione totale per l’ospedale psichiatrico, la stregoneria e la caccia alle streghe per la scuola di New Orleans, l’orrore grottesco per le deformità dei corpi per il freak show e la rimozione dei traumi della storia statunitense per l’hotel della quinta stagione.
«La casa stregata della prima stagione di American Horror Story, appropriatamente ribattezzata Murder House, è la “casa stregata dell’America”, il deposito delle violenze e degli orrori di cui si è macchiata la sua storia» (p. 52). Se il gotico europeo, soprattutto inglese, ha scelto di far dimorare i fantasmi soprattutto in castelli, monasteri od antiche dimore, il gotico americano opta spesso per una casa. Dalla Casa degli Usher (1839) di Poe in poi, sostiene l’autore, la haunted house ha assunto un ruolo molto importante nell’immaginario americano. «Nell’immaginario costruito da Poe, Hawthorne e Thoreau prima, e poi da Faulkner, James, Fitzgerald e tutta la schiera di scrittori statunitensi contemporanei, la casa trasforma il sogno americano in un incubo. Un vero e proprio “incubo americano” […] la haunted house americana è davvero il ricettacolo dell’orrore dell’America» (p. 53). E la Murder House della prima serie è stata «edificata sui cadaveri dei nativi, dei neri portati dall’Africa, degli stessi coloni più deboli – quelli sfruttati, emarginati, annichiliti, fantasmizzati. E lo racconta a suo modo, in una ridda di riferimenti alla letteratura, al cinema, alla cultura “alta” e alla cultura pop, che non è puro gusto citazionistico e intertestuale, ma – questa è peraltro la tesi dell’intero volume – una mappatura barocca del topos della casa infestata nel gotico americano, delle sue retoriche narrative e discorsive; un’esplorazione dei sensi di colpa di una nazione seppelliti nelle fondamenta o nella cantina – ma anche nascosti in soffitta – di una casa che vive e si nutre di traumi e violenze del passato e del presente» (p. 54).
I fatti che accadono presso l’istituto psichiatrico di Briarcliff, nella seconda stagione, Asylum, secondo Federico Boni, ricordano le colpe della società americana che ha voluto rimuovere e reprimere coloro che non si sono adeguati ad un ordine sociale puritano, anche se “veri mostri” sono da ricercarsi, sottolinea l’autore, in quei meccanismi di potere che portano l’istituzione totale manicomiale a distinguere tra cittadini dotati di diritti ed esseri privi di essi.
In Coven, terza stagione di American Horror Story, si fronteggiano due tipi di streghe, quelle provenienti da Salem in Massachusetts, cittadina famosa per la caccia alle streghe di fine Seicento, con quelle vudù di derivazione afro-caraibica. A livello narrativo, soprattutto nella parte finale della stagione, lo stile sembra «votato all’eccesso e all’artificio, enfatizzato dagli interni della scuola, dell’elegante dimora di Madame LaLaurie e di altri spazi della New Orleans del presente e del passato, fa da contrappunto estetico a una serie di richiami ad alcuni degli episodi più dolorosi della storia degli Stati Uniti: la “caccia alle streghe”, e dunque la repressione femminile, e la schiavitù. Anzi, qui la stregoneria può essere vista come una vera e propria risposta ai soprusi del potere da parte di una società patriarcale e razzista» (p. 66).
La quarta stagione, Freak Show, ha come luogo privilegiato il circo popolato da corpi deformi e grotteschi. Nella sua analisi, Boni riprende gli studi di Laslie Fiedler (Freaks, Miti e immagini dell’io segreto) in cui viene descritto il passaggio da una lettura del freak come fenomeno divino ad una che vi individua malattie scientificamente definite. «La centralità del passaggio dal regime discorsivo teologico a quello teratologico (e infine, a quello clinico) in Freak Show è evidente sin dalla collocazione temporale delle vicende narrate. La quarta stagione […] è ambientata nella Florida del 1952, quando il “Cabinet of Curiosities” di Elsa Mars è uno degli ultimi freak show presenti nel paese […] i freak di Freak Show sono una razza in via di estinzione: sempre più individui affetti da malformazioni classificabili clinicamente, e sempre meno meravigliosi “scherzi della natura”. Siamo quindi nell’epoca del tramonto di questo tipo di spettacolo, soppiantato soprattutto da una nuova, temibile, concorrente: la televisione» (p. 76). Vale la pena sottolineare come la fine dei freak show coincida con l’avvento della televisione che, per certi versi, rende davvero obsolete tali forme di spettacolo ed al tempo stesso le assorbe all’interno del suo palinsesto quotidiano seppur in nuove forme.
I mostri che compaiono in American Horror Story, tanto quelli tipicamente americani, quanto quelli derivati dalla tradizione europea, sostiene Boni, possono essere interpretati come reificazioni di traumi ed orrori reali. Alla figura del mostro la società tende ad applicare quei valori negativi che le consentono di costruire, per opposizione “altro”/”io”, un’identità positiva. L’autore, riprendendo le riflessioni di W. Scott Pole (Monsters in America. Our Historical Obsession with the Hideous and the Haunting), sostiene che «questi “mostri della storia americana sono reali”, metafore di una serie di circostanze e azioni storiche ben più che mere immagini della letteratura, del cinema o della televisione. Guardare all’America attraverso i suoi mostri offre una nuova prospettiva ad antiche questioni, senza sconti per nessuna di queste. Anzi, la prima vittima di questo orrore è il tanto celebrato “eccezionalismo americano”, che vorrebbe l’America un “Nuovo Mondo” innocente e puro, in grado di insegnare la democrazia in giro per il mondo» (p. 84).
Le figure degli zombie in American Horror Story riprendono la “versione originaria” haitiana che vuole lo zombie non come mostro ma come vittima di chi riporta in vita gli individui riducendoli ad una “schiavitù post-mortem”. Gli zombie di American Horror Story, nel loro «mettere insieme la versione “originaria” del morto vivente con l’estetica della “zombie renaissance” cinematografica e televisiva contemporanea, […] recuperano le attuali metafore dello zombie, che vedono questo “schiavo eterno” come vittima dello sfruttamento, delle nuove schiavitù, delle migrazioni, ma anche come “proletariato inattivo” per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi involontario (come negli zombie della saga cinematografica di George A. Romero)» (p. 86). Se da un lato lo zombie può incarnare la figura della schiavitù, dall’altro, però, incarna anche l’idea di ribellione.
Trattando la figura del serial killer, che certo non mancano in American Horror Story, l’autore sottolinea come questa, pur derivando da matrici europee, rappresenti una tipicità americana: «l’idea di una sorta di “fordismo” dell’omicidio, un’arte dell’uccidere “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, appunto un’arte dell’omicidio in serie, che riporta tale mostruosità nell’alveo del gotico americano» (p. 87). Riprendendo le riflessioni di Annalee Newitz (Pretend We’re Dead. Capitalist Monsters in American Pop Culture), l’autore sostiene che i serial killer che popolano le vicende narrate da Murphy e Falchuk, «sono “mostri del capitalismo”, la loro brutalità condanna i metodi della produzione capitalistica americana portandoli al loro estremo, arrivando in definitiva alla produzione di massa (in serie) di corpi morti. Il serial killer restituisce una versione gotica e orrorifica del “lavoro morto” marxiano, proiettando sulle vittime i sentimenti distruttivi ispirati dal luogo di lavoro» (p. 88).
Per certi versi, continua Boni, anche il mad doctor è un mostro del capitalismo. «L’“americanità” di fondo di tale figura […] è legata al suo legame col capitalismo statunitense: i dottori della tradizione del gotico americano sono infatti portati alla follia, in parte, perché ritengono di dover lavorare ai loro progetti ininterrottamente, senza pausa, in un lavoro intellettuale che prevede la vendita delle proprie idee a istituzioni professionali. […] In un paese, come l’America, che ha conosciuto una progressiva “proletarizzazione” della professione medico-scientifica, il mad doctor diviene un mostro perché scisso tra manie di grandezza e lavoro alienato; così diviso, non è mostruoso perché devia dalla sua professionalità, ma proprio perché la incarna» (pp. 89-90).
Risulta interessante la parte del saggio in cui l’autore riprende l’analisi di Helen Wheatley (Gothic Television) che, considerando la tv un mezzo gotico, enfatizza il ruolo del televisore di portare l’orrore esterno all’interno delle abitazioni fino a metterlo a contatto con le ansie domestiche. Federico Boni sottolinea che quando «a essere trasmessi sono testi gotici che rappresentano case infestate o edifici inquietanti, in quel caso è possibile parlare di un incontro tra “due case gotiche”: una è quella rappresentata nel testo televisivo, dove la narrazione si ripete serialmente e dove quindi le immagini ritornano – come dei revenants – con cadenza giornaliera o settimanale; l’altra è quella che ospita il mezzo televisivo e dove avviene la visione, e che corrisponde dunque allo spazio domestico e familiare. La televisione diviene così il vero spazio perturbante della casa, un vero e proprio “fantasma in casa”, la soglia che ci porta “ai confini della realtà” e che restituisce una accezione inquietante e perturbante dell’idea della televisione come “finestra sul mondo” e come “specchio” dell’interno (dell’inferno) domestico» (p. 93)
In alcuni episodi di American Horror Story viene enfatizzato il ruolo perturbante ed orrorifico della televisione. Ad esempio, in Coven Madame LaLaurie, riportata in vita negli anni Duemila, nello scoprire la televisione non manca di denunciare come questa sia di fatto basata sull’umiliazione dei suoi “ospiti”, mentre invece in Freak Show, la televisione viene indicata come “l’orrore contemporaneo” e come creatrice di freak. A tal proposito risultano interessanti le analisi di Jon Dovey (Freakshow. First Person Media and Factual Television) sulla reality television, riprese dal saggio di Boni, che evidenziano come tale tipo di programmazione sfrutti il bisogno di esprimere la propria identità da parte di individui che rivendicano con orgoglio il loro essere freak e che sentono la necessità di mettere in scena «l’ordinarietà della loro straordinaria soggettività» (p. 95).
Altra questione su cui si sofferma il volume è quella relativa a diverse figure femminili presenti nella serie; molte delle donne presenti in American Horror Story risultano accomunate da una vita segnata da ingiustizie e sofferenze a cui, però, reagiscono ribellandosi. «In Murder House la stessa haunted house protagonista della stagione è associata al corpo femminile, e di rimando il corpo femminile è associato alla casa […] Il femminile, del resto, è da sempre presente nel topos narrativo della haunted house, soprattutto laddove la donna, a cui è negato lo spazio esterno della vita pubblica, viene relegata negli spazi chiusi dell’ambiente domestico» (p. 97).
Il saggio passa in rassegna anche quelli che definisce gli “spettri della sessualità” soffermandosi in particolare sulla coppia gay dei vecchi proprietari della casa della prima stagione, Murder House, ridotta ad essere una coppia fantasma in linea con la fantasmizzazione, dunque repressione, dell’omosessualità. «E però, lo spettro torna a infestare i vivi: così fantasmizzata, l’omosessualità si ripropone comunque e si impone nel presente e nella coscienza della nazione» (p. 100). In Asylum si fa riferimento anche all’omosessualità femminile; Lana verrà rinchiusa e sottoposta a terapie disumane al fine di “curare” il suo lesbismo.
In American Horror Story è presente anche la questione del razzismo, soprattutto in Coven, tematica spesso presente nel Southern Gothic, in particolare a proposito della segregazione razziale. Boni, a tal proposito, riprendendo alcune considerazioni di Teresa Goddu (Gothic America) evidenzia come le storie narrate dal gotico americano «ben lungi dall’essere storie che ci proiettano in mondi lontani e di fantasia, quelle gotiche sono storie intimamente connesse alla cultura che le produce […] Questo genere registra le contraddizioni della sua cultura, presentando una versione distorta della realtà, ma non scollegata da essa» (p. 101).
Alcune considerazioni interessanti riguardano anche le giovani presenze nell’immaginario gotico. Se storicamente nel gotico non è infrequente imbattersi in giovani “posseduti”, vittime di colpe non proprie, nel panorama del cosiddetto New Teen Gothic, i giovani tendo ad abbandonare il ruolo di vittime per divenire la fonte stessa dell’orrore. Tale cambiamento parrebbe aver ricevuto un netto impulso dai tragici eventi della Colombine High School del 1999.
È nota l’importanza del mito della frontiera all’interno della cultura americana e la stessa serie American Horror Story, a partire dal suo essere una sorta di cartografia del gotico americano, non manca di evidenziarlo. Si intrecciano nelle diverse stagioni itinerari e frontiere di diverso tipo, ad esempio: in Murder House gli Harmon nel trasferirsi da Boston a Los Angeles compiono il medesimo itinerario (da Est ad Ovest) dei pionieri. Facendo invece riferimento all’ospedale psichiatrico della seconda stagione, la (labile) frontiera sembra essere quella tra ragione e follia. In Freak Show la carovana itinerante sembra invece ormai essersi insabbiata nelle paludi della Florida in procinto di essere inghiottita definitivamente dalle sabbie mobili rappresentate dal nascente mostro televisivo.
Chiudendo la disanima, non resta che segnalare un’ultima riflessione proposta dal saggio. L’ossessione americana per il mito dell’apertura offerta dalla frontiera, associata allo spirito chiuso del puritanesimo, nel momento in cui si esaurisce la frontiera storica, a fine Ottocento, implode in una forsennata ricerca di nuovi spazi anche attraverso il ricorso della “furia catalogatrice” che, secondo F. Tarzia ed E. Ilardi (Spazi (s)confinati. Puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano) porterà ad un puritanesimo inquisitorio e poliziesco che dal Proibizionismo conduce alla cacce alle streghe comuniste per arrivare fino ad Echelon ed al Patriot Act: ogni ambito dell’esistenza umana deve essere catalogato ed etichettato.