Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00
Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra Comunista italiana ed internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare, della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua ultima fatica editoriale pertanto si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo, si propone come un’importante riflessione su temi e problemi ancora di cocente attualità. Primo tra tutti quello della centralità , o meno, della classe operaia e del suo ruolo all’interno di un radicale sovvertimento del modo di produzione attuale e della politica di alleanze che, attraverso le sue organizzazioni e partiti, dovrebbe saper mettere in piedi in una tale prospettiva. Ben al di là, naturalmente, della “egemonia”, principalmente culturale, teorizzata da Gramsci.
Tema delicato in cui una sorta di idealizzazione della stessa, ricollegabile alle trasformazioni avvenute forse più a partire più dall’inizio del ‘900 che ai fondatori del socialismo, ha forse raggiunto nell’operaismo degli anni settanta, e nei suoi attuali epigoni, il suo limite e il suo massimo rilievo teorico.1
Fin dalla premessa l’autore si chiede, a proposito della mancata rivoluzione tedesca del 1923, “perché fino a oggi l’argomento in Italia è stato affrontato in modo più che fuggevole, nonostante il fatto che in quel tentativo siano stati coinvolti all’incirca un milione di lavoratori e varie centinaia di migliaia di comunisti, e non solo tedeschi, cosa che nella storia non si era mai verificata prima e non si è più verificata successivamente. Dalla storiografia di tipo accademico c’era da aspettarselo: quello che si è rivelato come un «non evento» non poteva suscitare grande interesse”.
Osservando, però, subito dopo che “Si potrà essere o meno d’accordo su singoli aspetti della nostra analisi, ma non si potrà evitare di riconoscere che i motivi veri della sconfitta in Germania (primo fra tutti il mancato riconoscimento dell’idea che la rivoluzione comunista doveva avere carattere popolare o non sarebbe stata, idea presente, anche se poco considerata, nel famoso opuscolo di Lenin sull’Estremismo) siano esistiti e necessitino ancora di una seria discussione, nonostante la mole d’acqua che è passata sotto i ponti della storia.
Purtroppo in Italia, e non solo in Italia, ha circolato e alimentato, con effetti disastrosi, la cultura di quella che è stata chiamata «sinistra rivoluzionaria» la tesi secondo la quale la rivoluzione nei paesi sviluppati sarebbe stata, e sarebbe ancora al risveglio della classe operaia, di estrema «semplicità», con uno svolgimento positivo assicurabile da un grado spinto di intransigenza formale rispetto a obiettivi programmatici generalissimi. Ristabilire la verità sul 1923 in Germania, che ha attestato proprio l’esatto contrario della «semplicità» del processo rivoluzionario in Occidente, è quanto abbiamo cercato di fare”.
Il tema centrale dello studio qui esaminato riguarda quindi le possibili strategie e tattiche di un percorso politico destinato a sfociare nel superamento dei rapporti di produzione e dominio di carattere capitalistico. Tema che Basile focalizza soprattutto analizzando l’azione del Partito Comunista Tedesco che, all’epoca, costituiva il secondo partito, numericamente e per ordine di importanza, dopo quello bolscevico all’interno dell’Internazionale Comunista.2
“Era chiaro che il proletariato tedesco non poteva restare inerte di fronte alle ripercussioni della crisi mondiale sulla disastrata economia del paese e alla progressiva svalutazione del danaro, all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e di prima necessità, alla crescita della disoccupazione e all’impoverimento di sempre più vasti settori della popolazione, per la quale giorno dopo giorno si aggravava ovviamente anche il problema delle abitazioni. Ed era altrettanto chiaro che la KPD (Partito Comunista Tedesco) non poteva sottrarsi al compito di dare a questo fenomeno una prospettiva politica pratica, fuori da un ambito propagandistico generale”.
Ma, in Germania, proprio l’orientamento operaista significò “contrapporre alcune decine di milioni di lavoratori al resto della popolazione, che ammontava a un po’ più di sessanta milioni, tra la quale, nel vuoto lasciato dai comunisti e dagli stessi socialdemocratici, cominciarono a prendere sempre più piede le destre e l’estrema destra (i nazionalisti, i gruppi paramilitari reazionari derivati dai Corpi Franchi, l’Orgesch, i völkischen e i nazionalsocialisti), che sfruttarono la protesta sociale cercando di indirizzarla anche in senso fisico contro il movimento operaio e le sue organizzazioni”. La rivoluzione non poteva certo vincere lasciando da parte più della metà della popolazione del paese.
Il dramma prese inizio a partire dall’entrata sul territorio tedesco delle truppe franco-belghe che fin dal 10 gennaio 1923 “occuparono nei giorni successivi Düsseldorf, Bochum e Dortmund. La Germania perse così il 40 per cento del suo ferro, il 70 per cento della sua ghisa e l’88 per cento del suo carbone […]La Germania fu trascinata in una spirale inflazionistica peggiore di quella in atto, voluta dai finanzieri e dagli industriali speculatori, che liquidò la resistenza, investì i risparmiatori, assumendo l’aspetto di un’espropriazione sistematica delle classi medie e precipitando i lavoratori in una miseria inaudita. Il cambio del marco tedesco, a pochi mesi di distanza dall’occupazione della Ruhr, passò da 48.000 in maggio a 4,6 milioni per un dollaro in agosto. Si può facilmente immaginare l’abisso in cui repentinamente precipitarono le condizioni di vita della popolazione. Scoppiarono infatti vere e proprie «rivolte della fame» in parecchie città. E il tasso di cambio continuò a salire”.
Karl Radek, all’epoca uno dei più important rappresentanti del Partito Bolscevico e dell’Internazionale, ebbe ad osservare che i comunisti, in tale situazione, avrebbero avuto tutto l’interesse a non consegnare all’imperialismo francese il cuore della rivoluzione: il bacino della Ruhr.
Sempre Radek affermò che “Il fatto decisivo in tutta la situazione è che una grande nazione industriale è stata ridotta al rango di una colonia. Questa sconfitta della borghesia tedesca suscita un grande movimento rivoluzionario. Il nazionalismo, che un tempo era soltanto uno strumento per rafforzare i governi borghesi, si converte in un fattore di accelerazione dell’attuale rovina capitalistica”
E continua poi ancora: “Il partito tedesco non si è affatto adattato all’ondata nazionale, esso non ha smesso di incoraggiare la fraternizzazione con i soldati francesi […], ma la KPD non deve trascurare che la differenza tra il nazionalismo e gli interessi rivoluzionari della nazione tedesca che sono adesso la stessa cosa degli interessi nazionali rivoluzionari del proletariato […] Quello che viene definito nazionalismo tedesco non è soltanto nazionalismo, bensì un vasto movimento nazionale d’importanza rivoluzionaria. Le ampie masse piccolo borghesi, le masse dei tecnici e degli intellettuali, che svolgeranno un ruolo importante nella rivoluzione proletaria per il fatto che nel sistema borghese tutte queste masse vengono schiacciate, declassate e proletarizzate, danno ai loro rapporti con il capitalismo degenerato la forma di una ribellione nazionale. […] Noi dobbiamo combattere l’ideologia nazionalistica, aprire gli occhi alle masse che ne sono strumentalizzate. Ma se non vogliamo essere un mero partito operaio di opposizione, ma un partito operaio che combatte per il potere dobbiamo trovare il cammino che conduce a queste masse”.
Agli inizi di luglio, si verificò il montare spontaneo di scioperi rivendicativi a causa del crollo del marco e dell’aumento vertiginoso di tutti i prezzi, con il governo che sembrava in procinto di dichiarare bancarotta. Contemporaneamente gli occupanti francesi e belgi nella Ruhr spingevano avanti un movimento secessionista e in Baviera il governo di estrema destra si muoveva per rendersi autonomo da Berlino; la Reichswehr, con i gruppi paramilitari fascisti, si preparava dal canto suo a intervenire contro i governi operai della Sassonia e della Turingia.
La Centrale della KPD lanciò un appello per organizzare in tutto il paese per la fine del mese una «giornata antifascista» che prevedeva la mobilitazione dei proletari contro la minaccia del fascismo e l’agitazione tra le masse piccolo borghesi per separarle dai loro dirigenti.
Ma tale appello portò, progressivamente a far dipendere sempre di più l’azione dei comunisti e delle masse già potenzialmente in rivolta dalle scelte operate dal partito socialdemocratico e dal sindacato con cui si era cercata l’alleanza a discapito di un’azione allargata anche a quei settori “nazionalisti” che, di fronte ad un’azione più decisa della KPD, avrebbero dovuto decidere se stare dalla parte del capitale o dei lavoratori e dei contadini . Così quando, di fronte agli scontri che si verificarono in alcune prove preliminari a ridosso di scioperi rivendicativi, la polizia della Prussia e il governo del Reich vietarono la manifestazione, si propose di svolgere la manifestazione stessa soltanto là dove, come in Sassonia e in Turingia, non fosse stata sospesa dalle autorità o dove, come nella Ruhr e nell’Alta Slesia, queste ultime non potessero impedirla. Nel resto del paese si sarebbero dovuti tenere comizi in spazi chiusi. In considerazione anche del fatto che i fascisti sembravano molto superiori ai comunisti quanto ad armamento e sarebbe stato utopico credere che i socialdemocratici avrebbero seguito i comunisti nel caso di scontri diretti, nei quali la polizia, trovandosi di fronte a nulla più che una dimostrazione di protesta, sarebbe stata tra l’altro dalla parte dei fascisti.
Ai primi di agosto, la Commissione di Berlino dei sindacati, nella quale era presente una forte componente socialdemocratica, sia di destra sia di sinistra, invitò l’ADGB (Allgemeine Deutsche Gewerkschaftsbund – Confederazione generale dei sindacati tedeschi), la SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Tedesco), l’USPD (Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco) e la KPD a una riunione di «concertazione», ma questa iniziativa fu surclassata subito dalle azioni di massa e dagli scontri con la polizia e con l’esercito che, con morti e feriti in varie città, fecero aumentare ancor più la tensione.
Ruolo propulsore nella dichiarazione di uno sciopero generale di tre giorni ebbero i comitati di fabbrica, che avevano raggiunto il numero di ventimila, con un Consiglio d’azione a livello nazionale, presieduto da un comunista, che l’11 agosto esso approvò un programma in nove punti: dimissioni del governo, formazione di un governo operaio e contadino, requisizione dei viveri e loro distribuzione sotto il controllo delle organizzazioni proletarie, riconoscimento ufficiale dei comitati di vigilanza appositamente costituiti, decadenza dell’interdizione degli organismi operai di autodifesa, salario orario minimo, riassunzione dei disoccupati, revoca dello stato d’assedio e del divieto di manifestare, liberazione dei prigionieri politici operai.
Lo stesso giorno il partito socialdemocratico fu costretto ad annunciare la fine del proprio sostegno al governo Cuno che si dimise. L’incarico di formare un nuovo governo fu affidato da Ebert, presidente socialdemocratico della repubblica, al deputato popolare Gustav Stresemann. Questi diede vita a un ministero di «grande coalizione». Su tale base la socialdemocrazia, pronta a voltare le spalle alle lotte operaie e all’ipotesi di un accordo con i comunisti, appoggiò Stresemann ed entrò nel governo con quattro ministri.
A poco a poco, nel giro di una settimana, le lotte si esaurirono. Cominciarono arresti e licenziamenti (che raggiunsero la cifra di centomila verso la fine del mese). Anche i vertici dei comitati di fabbrica furono colpiti dalla repressione, così come l’apparato della KPD.
Nel partito si fece strada, lentamente e nonostante forti incertezze, l’idea che forse la situazione era più matura per un’azione rivoluzionaria di quanto esso avesse ritenuto fino alla «giornata antifascista» di fine luglio. Le lotte rivendicative degli operai e dei disoccupati erano nel frattempo ricominciate, così come quelle per la casa e per gli approvvigionamenti, mentre si moltiplicavano gli scontri con la polizia e con l’esercito.
A settembre nel giro di alcune settimane, la Germania diventò l’argomento principale degli interventi pubblici dei dirigenti sovietici, dei loro discorsi nei congressi, sindacali o d’altro genere, il centro dell’attenzione della stampa sovietica. In particolare ebbe inizio l’impegno per sostenere le strutture militari della KPD e di quelli che erano chiamati organismi di difesa della classe operaia o «Centurie proletarie». Un generale sovietico già presente in Germania fu posto alla loro testa con lo pseudonimo di Helmuth Wolf e furono creati apparati specifici per l’addestramento militare, per lo spionaggio, per la penetrazione nella polizia e nell’esercito e per le azioni di sabotaggio e terroristiche.
Per quanto riguarda le Centurie proletarie, esse erano state pazientemente costituite agli inizi dell’anno. Il 15 maggio erano state vietate in Prussia, misura presa a ruota in altre regioni, e ciò aveva ostacolato il loro sviluppo, costringendo gli organizzatori a mascherarle come servizi d’ordine o associazioni sportive. Se a maggio ne esistevano 300 in tutta la Germania, in luglio crebbero a 900, per un totale di circa centomila uomini, la metà dei quali concentrati in Sassonia e Turingia, con forti presenze anche nella Ruhr e a Berlino. Nella maggior parte dei casi si trattava di organismi, basati nelle aziende o nelle varie località, a composizione mista, di membri della KPD, dei sindacati e della socialdemocrazia.
L’armamento delle Centurie in ottobre, nell’ipotesi migliore, a parte le pistole, non superava i 50.000 fucili. Si approntarono anche riserve di esplosivi, si svaligiarono botteghe di armaioli e si organizzarono vari furti nelle caserme. In Sassonia si impiantò addirittura una fabbrica clandestina di armi e munizioni.Lo sforzo militare compiuto in pochi mesi fu davvero considerevole. Ma, rapportato alla società tedesca, agli effettivi e all’armamento della Reichswehr, della polizia e dei gruppi paramilitari d’estrema destra, esso appare del tutto inadeguato.
Mentre i comunisti entravano nei governi della Sassonia e della Turingia a fianco dei socialdemocratici, il generale Müller in Sassonia, fin dagli ultimi giorni di settembre, aveva rafforzato lo stato d’emergenza, attribuendo alla Reichswehr il compito di assicurare l’ordine pubblico, vietando ogni manifestazione di strada e gli scioperi, annunciando lo scioglimento delle Centurie proletarie e il ritorno della politica locale ai propri compiti tradizionali di pura amministrazione.
Cosa non meno importante, egli aveva ordinato alle banche di non consegnare i fondi chiesti dai ministri del governo di Dresda. Nello stesso modo si era comportato il generale Reinhardt in Turingia, dove tutto si svolse più o meno come in Sassonia, con la stessa violenza anche se con maggiore lentezza. Il 5 ottobre era stata sospesa la stampa comunista. Ma le truppe erano rimaste consegnate momentaneamente nelle caserme.
La tensione cresceva. Dal ministero sassone dell’economia partì una richiesta alle banche di Dresda per l’apertura di un credito di 150 miliardi di marchi-oro che avrebbe permesso di effettuare gli acquisti più urgenti di generi alimentari per 700.000 abitanti ridotti letteralmente al lumicino.
Le banche comunicarono che il credito sarebbe stato messo a disposizione del generale Müller. La Baviera sospese le vendite del latte e dei prodotti caseari in genere in Sassonia e i granai del Reich aumentarono i prezzi del 41%. Per la Turingia la situazione non era diversa. Era in atto un vero e proprio blocco contro le regioni rosse.
La Reichswehr si mobilitò nelle strade e nelle piazze dove le proteste, anche in Sassonia, contro l’intervento militare prendevano sempre più l’aspetto di una rivolta: di nuovo ad Amburgo, ad Aquisgrana, Berlino, Düsseldorf, Erfurt, Cassel, Essen, Colonia, Francoforte, Hannover, Beuthen, Lubecca, Braunschweig e Allenstein. Questa collera non poteva giungere da sola al livello dell’azione rivoluzionaria: essa, di fronte al protrarsi eventuale della repressione, non poteva trasformarsi in altro che in una rassegnazione disperata. Ma non esisteva soltanto il proletariato, per la piccola borghesia, più pauperizzata che mai, e i ranghi intermedi e inferiori delle forze armate la capitolazione nella Ruhr aveva accresciuto piuttosto che diminuito l’ira, anche se ne beneficiava l’estrema destra, a causa della debolezza che sulla questione specifica aveva recentemente mostrato il KPD che senza un’azione rivoluzionaria diretta, non poteva provocare crepe reali nella forza dello Stato.
Il 20 ottobre i dirigenti comunisti incaricati dell’insurrezione si riunirono clandestinamente a Dresda e sottolinearono unanimemente che prima della data prevista per l’insurrezione era necessario che il proletariato sassone chiamasse in proprio aiuto l’insieme dei lavoratori tedeschi. Solo durante lo sciopero generale, in cui questo aiuto si doveva esprimere e che sarebbe stato indetto da una conferenza dei comitati di fabbrica convocata a Chemnitz il giorno successivo, sarebbe iniziato il sollevamento armato. Ai segretari di distretto si comunicò che il 23 le Centurie e i gruppi d’assalto sarebbero entrati in azione, attaccando caserme e posti di polizia, occupando i nodi stradali, le stazioni, gli uffici postali e gli edifici amministrativi.
Ma, per i tentennamenti e i rifiuti opposti da una parte della socialdemocrazia e degli operai ad essa legati questo ordine finì con l’essere sospeso e solo ad Amburgo (dove i comunisti erano in condizioni di marcata inferiorità rispetto ai socialdemocratici), a causa dell’abbandono in anticipo della riunione della Centrale da parte di un rappresentante dell’organizzazione cittadina, questi partì convinto che l’insurrezione fosse confermata e l’attacco iniziò come stabilito, ma, ovviamente, senza mobilitazione delle masse. All’alba del 23 ottobre, l’organizzazione di combattimento del partito (composta da un po’ più di un migliaio di militanti) attaccò i posti di polizia dei sobborghi della città per rifornirsi di armi e fornirne anche alle Centurie proletarie, che erano state formate, ma non ne disponevano. Poi si puntò verso il centro della città. Mancando la mobilitazione proletaria, per lo meno nelle proporzioni che avrebbe dovuto avere – non si può dire che fu proprio del tutto assente –, l’azione si esaurì in ventiquattr’ore, nella consapevolezza dell’isolamento in cui si svolgeva, a causa della preponderanza delle forze avversarie (la polizia contava varie migliaia di uomini che furono rincalzati via mare). Il partito riuscì a organizzare abbastanza efficacemente la ritirata. Sul terreno restarono alcune decine di morti da ambo le parti. Molti furono i feriti e vennero arrestati un centinaio di comunisti.
Nei giorni seguenti lo stato d’emergenza dichiarato dal governo e l’azione decisa della Reichswehr portarono all’eliminazione dei “governi operai” della Sassonia e della Turingia, sostituiti da governi a cui capo vi erano rappresentanti della destra socialdemocratica e finiva così in un fiasco l’ultima occasione, prima dell’avvento del nazismo, che la più importante classe operaia e il più grande partito comunista dell’Occidente avessero mai avuto.
Che in quel fiasco l’incapacità di allargare un fronte dal basso alle esigenze di altri settori di società, non solo operai, abbia avuto un ruolo è cosa certa per l’autore, che conclude il suo lavoro citando Lenin nel 1916 che, in occasione dell’insurrezione irlandese, aveva scritto: “Le fiamme delle insurrezioni nazionali, dovute alla crisi dell’imperialismo, sono divampate sia nelle colonie sia in Europa e […] le simpatie e antipatie nazionali si sono manifestate nonostante le minacce di misure draconiane di repressione. […] La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, […] potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere […] e attuare le altre misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all’abbattimento della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si «epurerà» dalle scorie piccolo borghesi tutt’altro che di colpo. […] Non è […] chiaro che in questo senso meno che in ogni altro è lecito contrapporre l’Europa alle colonie? La lotta delle nazioni oppresse in Europa, capace di giungere sino all’insurrezione e alla lotta di strada, sino a spezzare la ferrea disciplina dell’esercito e dello stato d’assedio, «inasprisce la crisi rivoluzionaria in Europa» con forza immensamente maggiore di un’insurrezione molto più sviluppata in una lontana colonia”.
Giunto a questo punto, devo scusarmi con il lettore, per la lunga dissertazione tesa a riassumere i fatti narrati (con maggior dovizia di particolari) nel testo, ma la conoscenza di quegli errori e di tentennamenti, di quei dibattiti a livello tedesco ed internazionale di cui furono protagonisti tutti i maggiori rappresentanti dell’Internazionale Comunista (che l’autore riporta con estrema fedeltà e con un’abbondante raccolta di relazioni e discorsi) non ancora stalinizzata, vale ancora la pena di essere approfondita e conosciuta, non soltanto per pedanteria storica o per il piacere della citazione.
Si può non essere d’accordo con la tesi dell’autore, ma è certo che, e forse soprattutto, oggi la questione della capacità per un movimento antagonista di essere portatore di istanza collettive globali, da Occupy Wall Street al movimento NoTAV passando per Taranto fino al rifiuto dei pareggi di bilancio e delle leggi sul lavoro imposti da Bruxelles e dai governi che ne sono ispirati fino ai diritti dei migranti e degli immigrati, resta un terreno di scontro, ricerca teorica, organizzazione ed azione che proprio l’opposizione di una parte del sindacato al referendum sulle trivelle o l’appoggio alla disperata ed iniqua scelta tra posto di lavoro e salute dei cittadini oppure l’appoggio di una parte delle ex-sinistre alle politiche europee, dimostrano essere ancora centrale e vitale.
Così come si dimostra ancora essenziale la riflessione sul legame tra lotte di classe e questioni nazionali, dalla Palestina al Kurdistan fino al Donbass, e su ciò che si intende come internazionalismo e che non può essere semplificato solamente attraverso la richiesta dell’abolizione di tutti i confini. Oppure su svariati altri temi, come la spontaneità o meno di un’insurrezione, che Corrado Basile tocca nel corso della sua indagine e di cui occorre qui lasciare al lettore l’onere della scoperta.
Come precisa lo stesso autore “Con orientamento operaista intendiamo il fatto di concentrare l’attenzione sui problemi che in modo diretto e immediato riguardavano la condizione dei lavoratori, trascurando tutti gli altri come di second’ordine se non peggio” ↩
Secondo le fonti disponibili, i membri della KPD nel 1922 dovevano essere circa 220.000, per lo più operai. I giovani comunisti erano 30.000. L’organizzazione si basava sul centralismo democratico. Il partito disponeva di 38 quotidiani con 340.000 abbonati. I deputati al Reichstag erano 14, nei parlamenti regionali erano presenti 72 deputati; i consiglieri municipali erano 12.000 e la KPD disponeva della maggioranza assoluta in 80 consigli e relativa in 170. Dopo il partito bolscevico quello tedesco era il più importante partito della Terza Internazionale. I comunisti influenzavano due milioni e mezzo di lavoratori attraverso i sindacati, i comitati di fabbrica e le organizzazioni dei disoccupati. I comitati di fabbrica erano strutture legali dal 1920 e avevano raggiunto una consistenza numerica considerevole, con un congresso e un consiglio d’azione nazionale orientato molto a sinistra ↩