[Pubblichiamo un estratto del libro di Camilla Ghedini, Interruzioni, Giraldi editore, Bologna 2016, pagg. 100 € 10. Si tratta di quattro racconti dedicati alla maternità, intesa come evento collegato all’amore, ma anche al male e alla negazione, come scrive Marilù Oliva nella prefazione: “c’è anche l’amore collegato al male, al di là di qualsiasi banalità: l’amore/disamore per un figlio, per una madre, per se stessi, per un sogno, l’amore rincorso o negato, che si culli in un ricordo lontano o in una visione, che si plasmi in accettazione sorda. Che scelga di votarsi all’egoismo o di ripudiarlo, che tenti di salvare ciò che è perduto o che lo lasci scivolare via. Il sentimento si fa premessa, dunque: ma è la donna a divenire soggetto.”
Il testo che segue deriva dal secondo racconto, che ha come oggetto l’infanticidio (MB).]
Non vuoi sorridere a un’assassina. Eppure devi farlo. È il prezzo che devi pagare per sentirti buona. Perché tu vuoi raccontare di me per fare capire agli altri che può succedere. Mi hai detto così, ricordi, per convincermi. Mi hai detto così, ricordi, per tentarmi. E io sto al gioco, sto facendo il tuo gioco. Però sì, lo intuisco che hai la nausea, che vorresti andartene, lasciarmi qui, che ti faccio schifo. Vorresti chiedermi urlando come ho fatto. Ma non puoi. Non puoi per tanti motivi. Dai, fai l’amica, che hai bisogno di me. Lo sappiamo tutte e due. Sappiamo tutte e due che tu non sei nessuno per me. Se nessuno saprà la
mia storia, per me non cambierà nulla. Sarà tutto come prima, come ora. Ma se tu non potrai raccontarla, non avrai raggiunto l’obiettivo. Per te sarebbe tutto diverso. E allora, visto che sei solo un’estranea che ha bisogno della mia intimità, devi essere educata con me. Sì, devi essere educata. Devi ascoltarmi, rivolgerti a me con calma, devi stare attenta a non fare trapelare giudizi. Non puoi mica permettertelo, io ti servo. Per la tua carriera. Io e te dobbiamo andare d’accordo. Dobbiamo essere almeno un po’ complici. Complici nell’inganno di essere confidenti.
Sì lo so, tu non vuoi essere mia complice, tu vorresti passare per quella che mi ha aiutato a liberarmi, a capire il mio stesso dramma, ad essere indulgente con me stessa, ad entrare in una seconda vita. Non è così. Io non piango perché io non soffro. Il problema è che così tu non puoi perdonarmi. Giusto? Se non chiedo pietà, se non chiedo comprensione, tu non puoi concedermele. E allora sei debole. Non sei la più forte.
Non sei la più giusta. Sei impotente. Perché mentre sei così, di fronte a me, io e te siamo
uguali, sullo stesso livello. Tu non ti elevi. Tu ti abbassi. Tu pensavi di usare me, io invece sto usando te. Perché tu non sei migliore di me. Tu non sei migliore di me perché non hai ucciso il tuo bimbo.
Poi tu, chissà, chi lo sa se anche tu non ne saresti capace. Sono tutte uguali le mamme del mondo. Non si dice così? È questo vero che ti tormenta? Hai studiato tanto prima di venire qui, hai letto tanti libri e tante testimonianze. Hai parlato con tanti esperti e ti hanno convinto che si perde la ragione, è un attimo, la testa vola via e si compie l’irreparabile. Poi ci si pente. Poi si vuole morire. Poi no, non si vuole più morire perché è continuare a vivere la vera punizione. Se muori, se ti uccidi, se accorci la sofferenza, la fai franca. Se sei pentita devi vivere. E male. Ogni giorno deve pesare come mille. E invece io non sto male, io non mi affliggo, io voglio essere felice. E tu sei in collera.
Sei nel pallone, perché se io non mi odio, se io per prima non odio me stessa, tu non sei autorizzata né a disprezzarmi né ad assolvermi. Non sai da che parte devi stare, la mia di prima o la mia di ora. Stai cercando di riflettere su cosa è più giusto, più corretto, più etico. Per te. Ma hai il voltastomaco, perché immagini la scena, vedi solo il sangue e ti sembra di sentirne l’odore acre e nauseabondo. Hai paura di sporcarti. Il tuo istinto ti porta ad allontanarti, per non essere colpita da uno schizzo, per non essere insozzata. Ma stai tranquilla, siamo io e te qui, qui, al sicuro. Da fuori ci osservano, non può capitarti nulla.
Ti sembra di essere paranoica, che no, non è possibile che io sia di fronte a te, seduta, coi jeans e una maglietta attillata e scollata, con le paillettes all’altezza del seno. Stringi gli occhi, come quando ci si sveglia, li riapri. Ma io sono sempre io, non ho cambiato volto, non ho cambiato abiti, non ho cambiato postura. Non sai cosa fare.
Te lo dico io cosa non fare. Non devi perdonarmi, io non te l’ho chiesto. Non devi biasimarmi, tu non sai cosa è successo. Tu quel momento di follia non lo hai mai provato. Tu quella lucidità non sai cosa sia. Eppure ti faccio schifo, io lo vedo, mi reputi riprovevole perché io voglio ancora essere felice.
[Camilla Ghedini giornalista libera professionista e PR letteraria, vive a Ferrara. E’ autrice di diversi libri nei quali, con stile narrativo, affronta temi sociali.]