di Walter Catalano
No story, no scenes. Just killings.
“Né storia, né scene. Solo ammazzamenti”. Con tale lapidaria sintesi Burt Kennedy spiegò a John Ford cosa fosse lo spaghetti western su Films in Review del 1969. Tutta invidia.
All’inizio agli americani – sempre pronti a colonizzare ma assai poco disposti ad essere colonizzati – non andava affatto giù che qualche straniero osasse appropriarsi del loro immaginario mitico e addirittura stravolgerlo e reinventarlo. Gli italiani, o meglio gli europei – perché in realtà di coproduzioni si trattava, in larga parte, italo-franco-tedesche e, soprattutto, spagnole: la Spagna di Franco, infatti, attenuata la censura e l’isolamento, aveva spalancato le porte a convenienti investimenti esteri e le sierras dell’Almerìa si erano in breve trasformate nelle mesetas dell’Arizona – avevano inconsapevolmente, e in direzione inversa, parafrasato l’intuizione di Edgar Allan Poe sul romanzo gotico e il romanticismo notturno di E.T.A. Hoffmann, enunciata nell’introduzione ai suoi Racconti del Grottesco e dell’Arabesco – primo grande conseguimento della letteratura americana – “il terrore non è della Germania ma dell’anima”: analogamente si dissero: “il western non è dell’America ma dell’anima”. Un meta-western che – come si era per altro già manifestato negli esempi migliori americani, dal maupassantiano Boule de Suif, riscritto nell’Ombre Rosse di Ford in poi – poteva innestarsi iconologicamente su qualsiasi tradizione narrativa preesistente o parallela, dal teatro kabuki con i samurai di Kurosawa, al Goldoni dell’Arlecchino servitore di due padroni, all’Hammett di Red Harvest del leoniano Per un pugno di dollari, alla tragedia greca, al dramma politico brechtiano, fino all’opera lirica verdiana del tardo Leone.
Tra il 1961 e il 1977 furono girati circa 600 euro-western (circa 400 tra il 1964 e il 1969). La televisione e le serie TV come Rawhide (prima palestra della futura icona Clint Eastwood) o Bonanza, avevano pesantemente inflazionato il western americano e contribuito alla crisi generale di tutta l’industria hollywoodiana. All’inizio degli anni ’60, l’eroe vecchio stile non reggeva più, la netta distinzione fra il bene e il male, la violenza stilizzata e senza sangue, i dialoghi moraleggianti avevano stancato il pubblico. Già alcuni western terminali yankee suggerivano piste inedite che gli europei – con un occhio al cinema d’autore e l’altro alla pura exploitation – avrebbero ripreso e amplificato. Un dollaro d’onore (1959) di Howard Hawks, ci aveva messo la situazione claustrofobica, antitetica agli spazi ampi e aperti della grande esteriorità tipicamente western (che tanto avrebbe influenzato anche i cross-over tra genere e genere di John Carpenter), la perdizione (ancora con redenzione finale, però), e soprattutto il deguello che Ennio Morricone avrebbe ascoltato con grande attenzione (purificandolo dalla retorica sciovinista di cui John Wayne lo aveva appestato con il suo The Alamo del 1960); e I magnifici sette (1960) di John Sturges, l’ispirazione samurai kurosawiana, i messicani spietati e lo spirito di corpo che unisce anche i farabutti (tema in seguito portato alla massima espressione da Sam Peckinpah nel western e da Robert Aldritch nel guerresco), oltre alle facce degli attori, non più i vecchi tromboni patriottici Wayne e Martin ma gli angry young men MacQueen, Brynner (“giovane” non tanto anagraficamente quanto stilisticamente), Bronson, Coburn e Wallach. Il moralismo di fondo sussiste ancora ma già qualcosa è cambiato. Nel giro di tre anni, l’inaspettato ciclone di Per un pugno di dollari scompiglierà tutte le carte del mazzo.
Krautwestern, Chorizowestern, Sushiwestern.
Leone non era stato affatto il primo in assoluto ma era stato il primo ad avere uno straordinario successo di pubblico. Prima di lui già i tedeschi, memori della loro tradizione western letteraria, con i romanzi di Karl May, avevano prodotto film decenti come Il tesoro del lago d’argento (1962) o La valle dei lunghi coltelli (1963) di Harald Reinl o Sei pallottole per Ringo (1964) di Sobey Martin, dove già si facevano notare Klaus Kinsky e Mario Adorf, ma sono storie ancora vecchie e all’americana, con tanto di indiani cattivi. Stesso può dirsi per gli spagnoli Duello nel Texas (1963) di Ricardo Blasco o La sfida degli implacabili (1964) di Ignacio Iquino e per gli italiani Jim il primo (1964) di Sergio Bergonzelli o Alla conquista dell’Arkansas (1964) di Alberto Cardone.
L’Italia aveva fino ad allora usato il West soprattutto per le farse e le parodie, mandandoci in esilio i poco convinti Tognazzi e Vianello con Un dollaro di fifa (1960) di Giorgio Simonelli; Chiari, Tognazzi e Vianello, I magnifici tre (1961) e Chiari e Vianello, Due contro tutti (1962), sempre di Simonelli; e perfino i Brutos con I magnifici Brutos del West (1964) di Marino Girolami. Con Leone, stanco del peplum e in cerca di nuovi stimoli avventurosi, finalmente si cominciò a fare sul serio.
Inconsapevoli delle vecchie regole del codice Hays che continuavano a condizionare il cinema di Hollywood, gli italiani infransero sistematicamente il dogma western di non mostrare mai compresenti nella stessa inquadratura l’uccisore e l’ucciso: dalla non osservanza di questo tabù primario nacque l’accusa – spesso veritiera – di compiacimento verso una violenza indiscriminata. Altri registi, prima, durante e dopo Leone, si cimentarono subito nell’impresa ma non tutti seppero entrare nello spirito del rinnovamento: il pur grandissimo Mario Bava, per esempio, rese uno scarsissimo servizio al sottogenere con il pastiche vetero-fordiano La strada per Fort Alamo (1964): il western non era decisamente nelle corde del mago dell’horror che pure lo ritenterà – sempre fuori tono – in chiave melò, come rincalzo allo spagnolo Antonio Romàn, in Ringo del Nebraska (1965) e parodistica-caricaturale in Roy Colt & Winchester Jack (1970), ormai a testimonianza della chiusura di un’epoca gloriosa alla quale non aveva partecipato.
Anche altri grandi del nostro cinema di genere, restano sostanzialmente estranei al western: Umberto Lenzi ne gira solo due, mediocri, nel 1968 Tutto per tutto e Una pistola per cento bare, e Antonio Margheriti traveste una commedia, Joe l’implacabile (1967) e un gotico, Joko, invoca Dio…e muori ! (1968), da western e ne gira, alla fine, solo uno davvero encomiabile: E Dio disse a Caino… (1969), con un Klaus Kinsky eccezionalmente nel ruolo del buono.
Con il sempre maggiore successo di pubblico emergono però nuovi eroi, divi e autori di caratura media: ad esempio Sartana, interpretato soprattutto da Gianni Garko tra il 1967 e il 1969 in quattro film principali, per la regia prima di Gianfranco Parolini e poi di Giuliano Carnimeo; personaggio abbastanza fortunato dalla carriera tortuosa: che inizia come antagonista in Mille dollari sul nero (1966) di Alberto Cardone, ma svolta subito a protagonista, prima drammatico e in seguito addirittura comico, nei successivi …Se incontri Sartana prega per la tua morte (1968) di Gianfranco Parolini e Sono Sartana, il vostro becchino (1969) di Giuliano Carnimeo, fino a creare una sorta di ciclo infinito proseguito fuori controllo in produzioni improvvisate con budget minimali, attori arrangiati e registi all’ingrosso.
Un modo molto tipico di sfruttare al massimo un filone fino ad esaurirlo: decine e decine di filmetti western che riciclano personaggi presi a prestito, usando nel titolo un nome fortunato come specchietto per le allodole: dollaro, pistole, Sartana, bara, massacro, e così via. Simbolo di questa proliferazione brulicante e degenerativa del genere è l’ex scenografo passato alla regia Demofilo Fidani. Le colonne dello spaghetti western, oltre e al di là di Sergio Leone e svettanti in mezzo alle decine di minori e di mestieranti, sono comunque senza dubbi e fin dal nascere del fenomeno, Sergio Corbucci e Duccio Tessari.
Una bara per Django.
E’ proprio Sergio Corbucci infatti, il regista che andrebbe considerato il vero capostipite del western all’italiana, perché il suo Massacro al Grande Canyon (1964), precede di diversi mesi Per un pugno di dollari, pur non avendo avuto lo stesso successo planetario del primo episodio della trilogia del dollaro. Il film è più che altro la scoperta di un genere congeniale al regista ma in cui questi si trova coinvolto quasi per caso, e solo per girare una parte delle scene, per rimpiazzare un collega incapace; dirige un legnoso James Mitchum, figlio dell’iconico Robert Mitchum e a lui molto somigliante, e altri attori americani. Girato in Jugoslavia, il film è una prova generale più che un’opera riuscita, orecchia da una parte ancora troppo il western classico e dall’altra, all’opposto, la sua storia di faide familiari sembra molto più mediterraneamente vicina al dramma rusticano o alla vendetta corsa che al far West. Bisogna aspettare il successivo Minnesota Clay (1965), di poco posteriore a Per un pugno di dollari, per iniziare ad assaporare davvero il tocco magistrale di Corbucci. Il poco espressivo Cameron Mitchell è Minnesota Clay, un evaso in cerca dell’uomo che lo ha fatto condannare innocente che si ritrova a negare i suoi servigi a due bande in lotta fra loro: di nuovo un Arlecchino servitore di due padroni, ma stavolta è meno furbo e più riluttante dell’Eastwood leoniano; lotta contro entrambe le bande, viene anche lui torturato e, invece della mano, perde quasi del tutto la vista, trovandosi costretto ad usare l’udito finissimo per sparare giusto nel duello finale e vendicarsi (curiosamente niente musica – di Piero Piccioni – nel duello risolutivo: un’enfasi inversa rispetto al binomio Morricone/Leone).
E’ però nel 1966 che Corbucci compie il suo primo passo nella leggenda, scrivendo il successivo capitolo imprescindibile del neo-sottogenere: un film da epopea che non ha niente da invidiare a quelli di Leone e dalla maniera di Leone si tiene lontanissimo: Django. Intanto il nome: niente di messicano o indio come potrebbe sembrare. Django è un nome Sinti (cioè “zingaro”), scelto in onore del sommo chitarrista jazz Django Reinhardt, zingaro appunto, e con gravi menomazioni alle dita della mano che pure non gli impedirono – lui, nato in Belgio, lontano dal cuore nero del jazz – di diventare, per quanto riguarda la chitarra – strumento che, amputato com’era, non avrebbe teoricamente nemmeno potuto suonare – il massimo esponente di questo stile musicale. Così anche il Django del film, con le mani quasi completamente spappolate, riuscirà nel duello finale a usare bene le pistole e sparare dritto e veloce eliminando gli odiosi antagonisti. Corbucci scherzando diceva che, dopo un pistolero cieco, il passo successivo era mostrarne uno quasi senza mani. Un grande film: geniale anche perché non vuole fare il verso a Leone. Mancano l’umorismo e le battute sarcastiche – il taglio è serioso e cupo, non epico ma gotico – manca la struttura cartesiana e solidamente strutturata della sceneggiatura, la storia non sempre regge dal punto di vista consequenziale e logico, ma non importa. Django è un film che si sostanzia soprattutto attraverso l’immagine e l’atmosfera. Un cow-boy senza cavallo ma che si trascina faticosamente dietro una bara (scopriremo più tardi che la bara contiene una mitragliatrice) è una figura perturbante e iconica che resta conficcata nella memoria e nell’immaginario (pare Corbucci si sia ispirato ad un fumetto per l’idea): non si tratta di letteratura ma di iconologia e non a caso Robert Rodriguez, Quentin Tarantino, Takashi Miike, e tanti altri fra i maggiori registi degli anni successivi ne sono rimasti così profondamente segnati e ispirati da volerla omaggiare e reinventare, ognuno a suo modo. Ugualmente iconico è il protagonista: “Ford aveva John Wayne, Leone Clint Eastwood, io ho Franco Nero” – dichiarò orgogliosamente il regista: era nata una nuova stella, Franco Nero. All’epoca appena ventitreenne ma già molto consapevole del suo carisma, diventa non solo il protagonista per antonomasia dei film di Corbucci, ma una delle figure più significative del cinema di genere e, contemporaneamente, di quello d’ autore (confermando l’insussistenza di un’arbitraria antitesi, inventata da critici reazionari e spocchiosi: in realtà buono o cattivo cinema, tutto qui). Sarà Keoma, nel crepuscolo dello spaghetti western, un indimenticabile Matteotti in Il delitto Matteotti di Florestano Vancini, Garibaldi per eccellenza in un apprezzabile serial televisivo e un’infinita galleria di personaggi fino al breve ma emozionante cameo del Django Unchained di Tarantino: uno dei volti più giustamente internazionali del cinema italiano.
Nell’apparente cinismo iconoclasta dello spaghetti western – così saggiamente lontano dai moralistici manicheismi delle ridicole Società per la salvaguardia degli ideali americani del patriota John Wayne e dei suoi accoliti yankee – il cupo Django si bilancia tra i fanatici sudisti e razzisti del proto Ku-Klux-Klan del maggiore confederato Jackson e i messicani, desperados ammantati di ideali rivoluzionari, del “generale” Hugo Rodríguez, avversando e tradendo entrambi, lui stesso indeciso tra i motivi affettivi (vendicare la moglie messicana uccisa dal despota razzista) e quelli venali (rapinare l’oro conservato nel fortino dei governativi messicani). Resta la dovuta sovradose di violenza che supera abbondantemente quella di Leone: il taglio dell’orecchio dell’ostaggio (omaggiato da Tarantino in Le iene, ma qui anche fatto mangiare alla vittima); lo spappolamento delle mani di Django sotto i calci dei fucili e gli zoccoli dei cavalli dei messicani; l’assassinio a sangue freddo del factotum Nataniele e presumibilmente – perché sebbene dopo essere stata colpita la ragazza si rianimi, che ne sarà della bella ferita dopo la morte di Nataniele, che avrebbe dovuto curarla ? Non ci viene detto – della romantica prostituta Maria.
Sulla stessa scia di violenza esasperata, anche se non famoso come Django, è I crudeli (1966), con il veterano Joseph Cotten; storia di sudisti e nordisti, ancora con bare (che però non nascondono mitragliatrici ma oro), faide familiari, maniaci stupratori misogini (ripresi da Tarantino-Rodriguez in Dal tramonto all’alba) e – rarissimo nello spaghetti western – perfino tribù di Apaches. Forse non ai livelli di Django ma comunque un ragguardevolissimo Corbucci. Meno riuscito invece Johnny Oro (1966) con Mark Damon, girato in realtà prima di Django (e si vede…) ma uscito dopo; anche qui Apaches trasteverini, vecchietti ubriaconi nella migliore tradizione fordiana, banditi spietati ma sceriffi eroici, tutto un po’ arretrato rispetto alle opere precedenti… Gli indiani restano – lodevole ma fallimentare eccezione nel panorama dello spaghetti western – un interesse particolare di Corbucci anche nel suo successivo Navajo Joe (1966), con un Burt Reynolds che sostituiva un del tutto ipotetico Marlon Brando ed era reduce da un servizio fotografico che lo vedeva nudo su Playboy. Il protagonista è appunto un indiano Navajo che stermina, con abbondanza di scotennamenti, per vendicare l’eccidio della sua tribù, la spietata banda dei Duncan salvando la cittadina di Esperanza a costo della vita. Reynolds ricorda vagamente il personaggio che, in tutt’altro contesto, riprenderà in Un tranquillo week-end di paura (1972) di John Boorman; Tarantino omaggerà la pellicola, che all’epoca non ebbe particolarmente successo, riprendendo varie tracce della musica di Morricone in Kill Bill.
L’ultimo grande western di Corbucci, prima delle sue opere ambientate durante la rivoluzione messicana di cui parleremo in un paragrafo a parte, è Il grande silenzio (1968): probabilmente l’altro suo massimo capolavoro, al fianco e forse ancor più di Django. Atipico per ambientazione e per cast oltre che narrativamente, è una delle opere più originali realizzate all’epoca. Nessun americano tra i protagonisti: l’eroe (Gordon, detto Silenzio) è un intensissimo Jean-Louis Trintignant, attore francese avvezzo a tutt’altro genere di ruoli, pistolero muto armato non della solita Colt ma di una Mauser a dieci colpi (arma iconograficamente remota dal revolver classico) e l’antagonista è un mefistofelico Klaus Kinsky (il bounty-killer Tigrero), apprezzatissimo nel settore dopo il breve ma indimenticabile ruolo del gobbo nel Per qualche dollaro in più di Leone. Dopo il cieco e il monco, ora il muto: la galleria degli outsider corbucciani si allarga ulteriormente. L’idea risolve oltretutto il problema linguistico, Trintignat non sapeva una parola d’inglese, conferendo al personaggio un’icasticità ineguagliata. Altra infrazione al genere è l’ambientazione in mezzo alle nevi – Ford aveva esplicitamente sconsigliato, di girare western con la neve: le impronte degli zoccoli dei cavalli rendevano più difficili i raccordi fra le scene – per nulla intimorito Corbucci ci abbaglia con candidi paesaggi innevati per un film intero. Ultima infrazione: un finale in cui i buoni e le vittime (il vendicatore Silenzio, lo sceriffo Gideon Corbett, la vedova Pauline) vengono sterminati senza pietà ed i carnefici e i cattivi (Tigrero e i bounty-killer corrotti) trionfano impuniti. Il produttore americano Zanuck impose un diverso finale posticcio, girato alla rinfusa e con una controfigura al posto di Kinsky, in cui Silenzio si rialzava e uccideva Tigrero, ma così incongruo che circolò solo sui mercati asiatici e africani; in effetti però un explicit così lugubre e negativo non portò fortuna al film, rivalutato solo in anni successivi; addirittura si racconta che in Sicilia alcuni spettatori giunsero a sparare sullo schermo per la rabbia e la delusione. Questa storia mesta e violenta, ambientata in un villaggio attanagliato dai ghiacci, dove avidi bounty-killer scatenano eccidi a catena per incassare le taglie e si fanno beffe impunemente della legge, incarnata da un nuovo, onesto, sceriffo condannato alla sconfitta, resta comunque tutt’ora uno dei più geniali e innovativi film di tutto il western all’italiana.
…E una pistola per Ringo.
L’altro padre indiscusso dello Spaghetti western, anche lui come Leone e Corbucci proveniente dal peplum, è Duccio Tessari; già co-sceneggiatore di Leone in Per un pugno di dollari e scopritore di un attore-icona che condivide con Eastwood e Nero il predominio del genere: Giuliano Gemma – Montgomery Wood, secondo lo pseudonimo che lo americanizzava nei suoi primi film. Tessari gli aveva dato il suo primo ruolo da protagonista nel peplum del 1962 Arrivano i Titani, sapendo cogliere a pieno la garbata ironia dell’aitante giovanotto ex vigile del fuoco e l’aveva poi trasferita e adattata al mondo del western.
Il tocco inimitabile che Tessari e Gemma conferiscono a Una pistola per Ringo (1965), infatti è la dimensione del gioco, sanguinoso e violento quando è il caso, ma ironico, divertito e che richiede la totale complicità da parte dello spettatore: le prime inquadrature mostrano Gemma/Ringo intento a saltare la cavallina, mentre minacciosi figuri si avvicinano, giunto al saltello finale Ringo si volta, estrae fulmineamente la pistola e li fa fuori tutti; dichiarazione esplicita. La storia rielabora liberamente in chiave western il noir di William Wyler Ore disperate (1955) con Humphrey Bogart: una banda di desperados messicani dopo una rapina si rifugia in un ranch, prendendone in ostaggio i padroni: un maggiore dell’esercito con la figlia, fidanzata dello sceriffo che, per evitare ritorsioni contro i prigionieri, libera dalla prigione la simpatica canaglia Ringo – detto Faccia d’angelo – e lo assolda per infiltrarsi nella banda, tradirla e, in cambio del quaranta per cento del bottino, favorirne la cattura o l’eliminazione. Ringo è un personaggio satirico e talvolta parodistico, interessato molto più al denaro che alla vita degli ostaggi, il nome riprende quello del John Wayne di Ombre rosse (1939) e del Gregory Peck di Romantico avventuriero (1950) di Henry King e sembra quasi volerne stravolgere il mito in chiave antieroica: forse proprio per questo rischioso confronto non era piaciuto a Leone quando Tessari glielo aveva proposto per l’Eastwood di Per un pugno di dollari. Il successo del film, anche per questo suo non prendere del tutto sul serio la materia avventurosa, fu ecumenico e riempì gli schermi di decine di Ringo tarocchi, così Tessari nel giro di pochi mesi bissò con Il ritorno di Ringo (1965).
Qui Gemma – che nel frattempo aveva girato un altro notevole western: Un dollaro bucato di Giorgio Ferroni – è un Ulisse yankee che, tornato dalla Guerra di secessione, dove ha combattuto con il grado di capitano sul fronte unionista, trova la casa e il paese infestato da banditi messicani che gli hanno ucciso il padre e gli insidiano la moglie: travestito con una lunga barba che lo invecchia rendendolo irriconoscibile (Gemma non amò molto questo film perché la sua “faccia d’angelo” restò per buona parte delle scene ricoperta) e aiutato da uno sceriffo ubriacone e da uno stregone Apache, troverà la sua sanguinosa vendetta.
Nel 1969 è la volta di Vivi o preferibilmente morti, capolavoro mancato in cui Tessari si avvale di Ennio Flaiano come soggettista e sceneggiatore e di un cast che comprende oltre all’immancabile Gemma, il campione di boxe Nino Benvenuti e la bella Sidney Rome nel suo primo ruolo da protagonista. L’operazione non riesce: una storia troppo indecisa fra commedia e avventura; due protagonisti che, sebbene amici intimi fin dai tempi del servizio militare (“purché non si parlasse di politica” – diceva Gemma, alludendo alle note simpatie destrorse del campione dei pesi medi, non condivise dall’attore), non ingranavano sullo schermo: troppo legnosa e impacciata la performance del pugile rispetto alla dinoccolata scioltezza di quella dell’attore professionista; inoltre Benvenuti non sapeva dare pugni “cinematografici” e, eccessivamente veloce per funzionare davanti alla macchina da presa, diventava addirittura pericoloso nelle scene di combattimento.
Dopo lo scarso successo del film, Tessari si concede una lunga pausa dall’ovest selvaggio: rimonterà a cavallo per un’escursione messicana solo nel 1971 – ne parleremo nel paragrafo specifico – e poi realizzerà uno Zorro con Alain Delon nel 1974, per tornare al western propriamente detto ormai fuori tempo massimo: siamo già molto lontani dall’epopea dello spaghetti western e si tratterà invece di un weird western, perché la storia ha fortissimi aspetti fantastici, tratto da un fumetto. Tex e il signore degli abissi (1985), unico tentativo di portare sugli schermi un’avventura di Tex Willer, il nostro cow-boy nazionale creato da Bonelli e Galeppini: è un film purtroppo fallimentare, sebbene siano iconograficamente perfetti sia Gemma che William Berger nei ruoli rispettivamente di Tex e di Kit Carson (simpatico cameo anche dello stesso papà di Tex, Giovanni Bonelli, nel ruolo di uno stregone indiano). Troppo esiguo il budget e poco convinti gli autori – irresoluti tra un’impossibile fedeltà al fumetto e le arbitrarietà di un libero adeguamento a un diverso linguaggio – un’occasione mancata che rappresenta l’ultima apparizione western, mestamente deludente, sia per Gemma che per Tessari.