di Domenico Gallo
Al di là delle molte premonizioni che troviamo nella narrativa popolare italiana, è a partire dalla Seconda Guerra Mondiale che si inizia a sviluppare consapevolmente una fantascienza italiana. Ma, prima ancora di un genere letterario autonomo, la fantascienza è una tensione a sondare un futuro che il presente stava determinando. In Italia questo esercizio di speculazione sembra particolarmente difficile; la società dell’epoca è succube di una cultura bigotta ed è diffusa una spiritualità superstiziosa, il potere politico della Chiesa è fortissimo e le sue gerarchie avevano ampiamente appoggiato il fascismo, negli intellettuali è presente un forte sentimento antiscientifico che impedisce di cogliere le direttrici tecniche che la ricostruzione del Paese aveva abbracciato, e che condanna la cultura accademica a una volontaria marginalizzazione. Inoltre l’intera nazione era stata sottoposta a una capillare propaganda che aveva enfatizzato e vagheggiato un ruolo speciale dell’Italia, a cui molti si erano abituati e che ancora oggi spontaneamente si ripresenta, e che ostacolava una presa di coscienza delle gravi responsabilità politiche della classe dirigente italiana e del clero. In questo senso la descrizione di Roma che si può leggere nella fantascienza, e che simboleggia le difficoltà dell’intera nazione, è spesso permeata di un forte senso morale, da una critica rigorosa, da una visione quasi swiftiana di mondo alla rovescia della denuncia di un intrico di corrotti e corruttori. Ben lontano dalla visione assolutoria che si sta organizzando per l’Italia e gli italiani, lo scrittore antifascista Corrado Alvaro è tra i primi a descrivere la complessa reazione popolare alla caduta del fascismo. Per citare un passo di Primo Levi tratto dal racconto “Oro”, la dittatura “aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici”. Alcuni reagiranno, altri si adegueranno alle nuove condizioni. Nel suo diario Alvaro nota, a luglio del 1943, che “grande è stato il numero dei curiosi andati nei quartieri colpiti a ‘vedere il bombardamento’. A San Lorenzo, le balilla erano piene di ragazze in gita a visitare le rovine. Portavano fazzoletti eleganti legati sotto il collo, alla contadina, com’è di moda”. E ancora descrive i curiosi attirati da una catastrofe che possono godersi da lontano. “Razzi illuminanti, e il tonfo delle bombe. La gente, sulle alture del Pincio e sulle terrazze, sta a ‘vedere lo spettacolo’». Altri romani, l’otto settembre, non staranno a guardare da lontano e prenderanno le armi contro il fascismo e i suoi alleati. Molti di loro ne subiranno le conseguenze, saranno uccisi, torturati e deportati, ma, all’arrivo degli Alleati, tutti saranno in festa per accogliere i liberatori. Corrado Alvaro è forse uno dei pochi intellettuali italiani ad attraversare il fascismo con pochi compromessi; nel 1925 era stato uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, promosso da Benedetto Croce, la pubblicazione dei suoi libri era stata faticosa, ma era riuscito a pubblicare nel 1938 il romanzo politico L’uomo è forte, un’opera con diversi spunti di critica al fascismo e ispirato alle opere di Kafka e Dostoevskij. Alvaro riesce ad aggirare la censura italiana grazie a un’ambientazione ambigua che sembrerebbe indicare l’Unione Sovietica, ma il romanzo descrive una realtà letteraria in cui le propaggini del partito totalitario entrano nella vita quotidiana delle persone, scendono nell’intimità fino a manipolarne i sentimenti, come era accaduto in Italia. Letto oggi è la prima opera letteraria dell’antifascismo italiano il cui spirito militante cerca di muovere l’indignazione verso il regime, incita alla ribellione prima morale e poi sociale, denuncia la soppressione di ogni libertà a vantaggio di una vita collettiva impoverita e orchestrata dai mediocri funzionari del partito. Sono già i temi che Orwell, dieci anni dopo, svilupperà in 1984. Questa passione di Alvaro per la fantapolitica ritorna prepotentemente nella sua ultima opera, Belmoro, del 1957. Tra i molti temi che questo eccezionale romanzo presenta, un’opera incompleta, pubblicata postuma e di oltre 350 pagine, è il ritorno al tema di Roma, la capitale, trasfigurata in un futuro di eccezionale ricchezza tematica. Nella corrispondenza di Alvaro, le tracce di questo romanzo risalgono al marzo del 1953, il momento in cui si stava sviluppando a livello di massa la fantascienza con l’uscita della rivista Urania e de I Romanzi di Urania, fatto che stabilisce l’indipendenza creativa di Belmoro rispetto alla nascita ufficiale della fantascienza italiana. Senza soffermarci sul perché e come Alvaro inventi da zero un modello di fantascienza, limitiamoci a vedere come sia stata organizzata la descrizione della debordante città, Magnitudo, l’estrapolazione futura di Roma. In estrema sintesi Belmoro è una creatura di cui non conosciamo la provenienza che si trova all’improvviso nella campagna vicino a Magnitudo. Il mondo è uscito dalla Terza Guerra Mondiale con una ristrutturazione radicale del sistema nazioni, in cui scienze e tecnologie hanno trasformato pesantemente l’ordine sociale del mondo. Uno stato tecnocratico planetario, l’Opera Mundi, si estende capillarmente attraverso le sue organizzazioni: Opera Nazionale Malvagi, Impresa Emozioni, Unione Igiene e Bellezza, Lega per la Persecuzione dei Poveri e dei Sofferenti, Polizia Biologica. I richiami ai sogni totalitari nazionalsocialisti e all’eugenetica sono evidenti, ingigantiti; le situazioni paradossali simili a quelle che, proprio in quegli anni e senza essersi letti reciprocamente, Robert Sheckley elaborava nella social science fiction statunitense. “Era uno di quei giorni in cui a Magnitudo si rastrellano gli infelici e i poveri, e chiunque ha il diritto di ucciderli e di travolgerli” (pag. 22). L’Unione Igiene e Bellezza è l’organo deputato a selezionare giovani donne “per l’interesse collettivo e la riproduzione” (pag. 49), mentre a Dolonon, una metropoli particolarmente avanzata dell’Opera Mundi, “l’amore era considerato un atto bestiale (…) e le dolonesi sono arrivate a tale grado di nettezza, che hanno ribrezzo di ogni contatto, e perciò si fecondano artificialmente” (pag. 51), e l’Unione Igiene e Bellezza ha il compito di fornire il seme per la riproduzione controllata. Analogamente l’Opera Mundi è, per definizione, l’organizzazione politica che, al termine del terzo conflitto mondiale, raccoglie le persone che hanno scelto la felicità. “L’Ordine Mondiale non tollerava nessun infelice nel suo territorio, e ne espelleva ognuno avviandolo verso Magnitudo o Lipona. (…) D’altra parte, l’Ordine Mondiale non poteva tollerare che gli infelici trovassero un rifugio, senza che ciò contravvenisse al fondamentale ottimismo che ispirava la sua costituzione.” (pag. 62) Per questo chi è povero e chi soffre è nemico della società. Ne L’uomo è forte Alvaro aveva fatto pronunciare all’Inquisitore: “Noi (…) vogliamo che i nostri cittadini siano felici. Devono essere felici per forza. (…). Tutto quello che li turba è delittuoso” (pag. 100).
Tra tutte queste città eugenetiche e geneticamente modificate, Magnitudo è ancora parzialmente fuori dalle regole. Chiassosa, volgare, sfarzosa e priva di decoro, rutilante di riti, organizzazioni e costumi diversi, morale per essere immorale. Nell’Italia del futuro “le cupole, le torri, i palazzi che si levavano al cielo, mi parvero (…) in qualche modo falsi, e direi assurdi per la loro pretesa” (p. 47). Queste città appaiono come nuove e contemporaneamente segnate dall’oblio, e c’è un edificio che richiama le mussoliniane opere dell’EUR. “Poteva assomigliare a una costruzione di cui fossero crollati esattamente i muri esterni, tanti erano i buchi delle porte e delle finestre e le volte dei corridoi che si aprivano a ogni metro della grande struttura” (p. 47). A Magnitudo convergevano, senza regole, i poveri e sofferenti che non trovavano posto nella civiltà pianificata dell’Ordine Mondiale Igiene e Bellezza, fatto che rende questa città promiscua e mobile, incontrollabile. I monumenti superstiti della Terza Guerra Mondiale erano un’attrazione, ma erano in continua ricostruzione, e, secondo uno dei personaggi, Leris, “era questo continuo ricostruire i monumenti quali furono a impedire ogni sviluppo a Magnitudo, che perciò restava sempre con gli stessi pensieri e gli stessi drammi” (p. 64). Traffico di mendicità, vendita di bambini e donne, contrabbando di droghe e di ritrovati atomici sono tra le principali attività di una popolazione in perenne fermento, eccitata e frastornata. Il comportamento del popolo, questa enorme presenza di persone indistinte tipica della percezione di Roma, sembra indipendente da ragionamento e memoria, la scaltrezza e non l’intelligenza sembrano colpire Alvaro, come era stato per quei giovani che, indifferenti alla tragedia, salivano ai belvedere per ammirare il bombardamento del ‘43.
Nel 1954 Ennio Flaiano scrive un grazioso e pungente racconto intitolato “Un marziano a Roma”. La storia è nota, un disco volante atterra a Villa Borghese e ne scende un extraterrestre. Immediatamente Roma si ferma, la folla accorre dalle periferie e blocca il centro della città, si diffonde gioia e speranza che molte cose cambieranno, ma la Roma secolare che digerisce ogni cambiamento per rimanere se stessa inizia il suo lavoro sotterraneo. Papa e Presidente della Repubblica lo ricevono, gli intellettuali e il mondo dello spettacolo lo invitano ai loro party esclusivi, il disco volante viene recintato e per vederlo si inizia a pagare il biglietto “a favore di certe opere assistenziali cattoliche”. Rapidamente non è più di interesse, si è romanizzato, addirittura dei borgatari gli fanno una pernacchia. Lui forse tornerebbe su Marte, se riuscisse a riottenere l’astronave pignorata dagli albergatori…
Flaiano ritorna sul tema nel 1958, con la novella “Una e una notte”. Un disco volante atterra sul litorale romano, la folla si getta a osservare l’oggetto misterioso sospeso sopra la superficie del mare, ma è una folla che alterna la curiosità verso il disco volante con l’attrazione verso l’osteria e le tradizionali occupazioni popolari. A parte il protagonista, un giornalista inquieto che incontrerà una giovane e bella extraterrestre, il resto dei romani matura rapidamente l’indifferenza verso l’eccezionale avvenimento e la vita torna a scorrere come prima. Forse è una metafora della caduta del fascismo e di come la società italiana sia stata capace di ripartire con il minimo dei cambiamenti, ma, in ogni caso, la Roma di Flaiano è un ventre molle che digerisce ogni spinta al cambiamento e la neutralizza.
Nel 1972 la rivista Galassia dopo la pubblicazione di Destinazione Uomo e Amore a quattro dimensioni, due antologie di racconti italiani, dedica Sedici mappe del nostro futuro alla critica sociale. Questa raccolta viene curata da Vittorio Curtoni, Gianfranco De Turris e Gianni Montanari, raccogliendo un panorama completo delle visioni politiche che, all’epoca, rappresentavano gli autori della fantascienza italiana. Senza mezzi termini la maggior parte paventa una dittatura comunista, spesso richiamandosi all’immaginario ancora diffuso costruito per le elezioni del 1948, affiancandola al totalitarismo senza volto del consumismo occidentale. Evidentemente la fantascienza italiana degli anni Settanta mostrava apertamente sia aspetti di nostalgia verso il recente passato del fascismo, sia aderiva al gioco della Guerra Fredda, rielaborando la propaganda occidentale e collocandola in un prossimo futuro di potere comunista. Inoltre è interessante notare come in molti racconti la pratica della dittatura sia interscambiabile tra modelli occidentali e orientali, e l’identificazione politica è lasciata esclusivamente all’uso della terminologia. In maniera molto diretta, la società comunista italiana abolirà la religione, introdurrà sistemi di psico-polizia, cercherà di annullare la dimensione individuale delle persone all’interno di un sistema città dedicato all’ideologia e al controllo. Ingenuamente vengono proiettate le visioni di propaganda e di ridimensionamento della Berlino di Albet Speer in un contesto di Roma comunista che si colloca tra la città trionfale dei cinegiornali italiani del Regime e l’architettura a basso costo delle nuove periferie occidentali. Il racconto di Adalberto Cersosimo “Psicocrazia”, che possiamo collocare più nella tradizione di Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler che di 1984 di George Orwell, è uno dei racconti più interessanti assieme a “Petrus Romanus”, scritto nel 1963 da Gianfranco De Turris e Stefano Pandolfi (che all’epoca della ristampa in Galassia si dissocia dall’anticomunismo della prima stesura). Limitandoci alla descrizione di Roma, in “Psicocrazia” la città è come sterilizzata, ricostruita secondo criteri di razionalismo che vogliono eliminare ogni differenziazione, gli edifici uguali, geometrici e programmati suggeriscono che gli stessi cittadini vengono plasmati da uno stato che sorveglia e progetta il comportamento eliminando ogni libero arbitrio. La Capitale di “Petrus Romanus”, invece, è una città di persone braccate e di spie, povera e affamata, e se non fosse per “via della Rivoluzione di Ottobre” e per il monumento alla Rivoluzione, sembrerebbe la città aperta occupata da nazifascisti e teatro di stragi e rappresaglie. L’icona di Roma, lo Stato della Chiesa, è stretto dalla morsa comunista e destinato alla scomparsa con la morte del Papa, un’occasione per mostrare la spontanea religiosità italiana in opposizione al modello straniero e ateo del comunismo sovietico. La Roma opportunista e conformista, invece, è ben descritta da Pier Carpi nel racconto “La morte del Duce”, che descrive una breve ma efficace ucronia in cui Benito Mussolini, tra i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, muore nel 1971 e viene commemorato da una serie di politici e intellettuali antifascisti che, non essendoci stata la Resistenza, hanno fatto carriera nell’Italia del fascismo. Più classico è certamente “Domenica romana” di Lino Aldani, autore critico del consumismo e della modernità che per molti aspetti si è mostrato in sintonia con la scuola statunitense di Galaxy. La satira della domenica di vacanza sul litorale romano, con le code, gli ingorghi e le brutture della cultura di massa, richiama la quotidianità di una città che ha perduto il gusto del bello, del necessario e della natura. La sovrappopolazione della Capitale comporta di partecipare ad effimeri riti di consumo e di omologazione sociale di cui la fantascienza sottolinea le storture. Anche Giulio Raiola in “Prenestino blocco quattro” immagina una megalopoli comunista in cui gli appartamenti sono sorvegliati da un sistema computerizzato in cui, alla Orwell, ogni gesto ed espressione vengono analizzati e sottoposti al vaglio di un sistema di polizia. Le nuove abitazioni romane sono blocchi di centinaia di appartamenti tutti uguali, dove vivono persone tutte uguali che si spostano da casa al lavoro come automi. L’atmosfera opprimente descrive una Capitale totalmente piegata dal potere e soggiogata da un sistema di polizia. Molti di questi racconti romani si richiamano a George Orwell proponendo quella che era la lettura di 1984 diffusa all’epoca, e sostenuta dall’interpretazione patologica di Palmiro Togliatti, cioè che si trattasse di un romanzo anticomunista dalle simpatie conservatrici, mentre una lettura del testo e dei molti saggi scritti da Orwell all’epoca, in cui sottolinea la speranza di una rivoluzione socialista-libertaria dei “prolet” contro il partito, sembra evidente che si tratti invece di un’opera rivoluzionaria, antifascista e di convinta critica al sistema capitalista.
Gli autori della fantascienza italiana continueranno a evocare visioni romane futuribili più o meno eccentriche, ma la più radicale e fantasmagorica la dobbiamo a Guido Morselli e al suo romanzo Roma senza Papa. Scritto nel 1967, e pubblicato postumo nel 1974, è uno dei più interessanti romanzi di fantascienza sociologica italiana. Il Papa Giovanni XXIV ha abolito il celibato dei preti, eliminato il culto dei santi e ridimensionato il ruolo religioso della Madonna per abbracciare un sincretismo religioso tra le religioni monoteiste e il buddismo. Roma è in assoluta crisi, il Papa ha addirittura abbandonato il Vaticano e si concentra su problemi teologici astratti come l’evangelizzazione delle intelligenze cibernetiche. Senza turisti Roma accentua il suo aspetto popolare e cialtrone di città capace di vivere solo sui fasti del passato, sulle rovine e sulla superstizione del cattolicesimo. La descrizione che Morselli offre di Roma, accentuata dall’occhio di un teologo svizzero rigoroso e distaccato, non è poi così dissimile dalla fantasmagoria di Alvaro che rileva il caos come elemento determinante della città, un’opposizione radicale all’ordine che si esplica nei rapporti sociali della vita materiale fino alla sfera interiore. Per entrambi, Roma e i suoi abitanti sono caratterizzati da un oblio che impedisce la memoria individuale e collettiva, che sfugge alle responsabilità e, inevitabilmente, si pone al di fuori della storia.
L’ultimo capitolo di storia futura di Roma lo dobbiamo a Francesco Verso, scrittore di fantascienza coraggioso e caparbio. Il suo BloodBusters ha vinto il premio Urania ed è stato pubblicato nella raccolta Il sangue e l’Impero (Urania 1624) assieme al romanzo tecno-mistico L’impero restaurato di Sandro Battisti. BloodBusters è una storia di sangue, nel senso che le tasse sono state sostituite da prelievi ematici che i riluttanti contribuenti sono tenuti a versare periodicamente all’erario e, nella più classica tradizione italica, la riscossione è stata esternalizzata a un’azienda privata di dubbia regolarità. Roma è così attraversata da pattuglie di esattori “ematoriali” che braccano gli evasori, i BloodBusters, irrompono come commandos nelle loro case ed effettuano prelievi forzati. Contro di loro opera un gruppo anarchico clandestino, i Robin Blood, che contesta la nuova società basata sul tributo di sangue e contrastano il lavoro dei BloodBusters.
Se la parodia e il gioco di parole sono gli elementi più facilmente rilevabili, che ne garantiscono in ogni pagina divertimento e curiosità, questo romanzo offre ulteriori chiavi di lettura che lo indicano come un’opera di fantascienza sociologica della tradizione di Pohl e Sheckley. La chiave narrativa è quella della letteralizzazione della metafora, ovvero di quel meccanismo che contraddistingue la fantascienza e che consente di rendere elementi narrativi concreti quelle tematiche che, nella letteratura convenzionale, sono espresse in astratto. Un esempio tra i più noti riguarda il film L’invasione degli ultracorpi, il film diretto da Don Siegel nel 1956, in cui la caratteristica psicologica dell’alienazione e dell’annullamento dell’iniziativa personale tipica degli stati totalitari (almeno secondo una delle interpretazioni che riguardano questo film) diventa una reale e biologica perdita della volontà a causa dei poteri alieni di una mente collettiva. Si tratta di un meccanismo frequente nella fantascienza che costituisce il paradosso di creare un contesto per realizzare la metafora sostituendola al significato letterale. Francesco Verso gioca tutto il suo romanzo estremizzando sia la metafora dello Stato dissanguatore e vampiro (metafora che si trova addirittura nei Grundrisse di Marx a proposito del capitale) sia quella del continuo rispecchiarsi tra degrado morale e materiale di Roma. In BloodBusters persone ed elementi urbanistici sono interscambiabili, entrambi vengono abbandonati, scomposti e riassemblati, e ulteriormente abbandonati in un territorio che non è più controllato dai meccanismi di rappresentanza della comunità. Come abbiamo visto questa è una lettura costante di questa città, caratterizzata da un potere molle, che riesce a essere estremamente violento ma per brevi periodi e che, per il tempo restante, si ritrae fino a scomparire. All’indebolirsi del potere istituzionale, comunque privo di ogni reale rappresentanza politica, emergono poteri neo-tribali, controllori di porzioni del territorio sempre più ridotte. Il processo che conduce a nuove tribalizzazioni, che la fantascienza evoca almeno dagli anni Settanta con la lettura del fallimento del modello statunitense di melting-pot, propone forme di sopravvivenza basate su nuovi crimini e sull’incapacità di perseguire le violazioni della legge. Nella sua vocazione antiborghese, la fantascienza, nemica di ogni pacificazione, creatrice e distruttrice di ogni utopia, ostenta con questo romanzo di Francesco Verso la morte della nazione e del suo popolo come il fascismo li aveva declinati, e i cui simulacri sono sopravvissuti fino a oggi. Roma è la rappresentazione della frammentazione dei rapporti che, cessati di essere normati e istituzionalizzati, sono prassi senza teoria, intuizione istantanea e non replicabile, messa in pratica delle emozioni senza mediazione. Tutto questo diventa possibile se la città è vuota, se gli edifici istituzionali hanno perduto la loro funzione e non c’è memoria del loro passato. Roma in BloodBusters è una città di rovine romane, barocche, del fascismo, industriali e post-industriali di cui si sono perdute le etichette che le identificavano e non sono più decodificabili come elementi del passato distinti da quelli del presente. E ancora Verso declina la lezione della nuova fantascienza che osserva un presente dilatato che non conosce il passato, e quindi non si confronta e valuta, e non idealizza un futuro, perché non crede di poter organizzare cambiamenti che siano diversi da quelli del mero aumento dell’entropia. Come ai tempi dell’impero romano, Roma è il crocevia di persone e culture di tutto il mondo conosciuto, nel bene e nel male un crogiolo di culture che sarebbero state devastate dal delirio monoteista, oggi la Roma della fantascienza è una polisemia dove i segni hanno significati sconosciuti, esclusivi di piccole bande, e non esiste più un linguaggio universale.