di Gioacchino Toni
Da Sud a Nord, dagli Anni ’80 ad oggi, tra un passato inconfessabile ed un presente insopportabile: il nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli
Giovanni Iozzoli, La vita e la morte di Perzechella, Edizioni Artestampa, Modena, 2016, 416 pagine, € 17,00
Il nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli conduce il lettore dalla Napoli degli anni Ottanta all’Emilia dei nostri giorni in un viaggio di andata e ritorno nello spazio e nel tempo che, oltre a narrare le vicissitudini di alcuni personaggi incapaci di incidere sulla realtà che li travolge, ci racconta la storia di un intero Paese immerso in una crisi profonda. Si tratta di una crisi declinata su piani molto diversi: la crisi economica, quella che è sotto gli occhi di tutti, che svuota le fabbriche e le tasche, la crisi di qualsiasi legame civile ed umano ma anche la crisi di senso che rende oggi incapaci di comprendere quanto sta accadendo. Insomma una crisi globale che investe tutto e tutti, come se il declino fosse l’unico angolo di visuale possibile sull’Italia di oggi.
Un infame, quanto maldestro, lontano omicidio, perso nel mucchio dei morti ammazzati degli anni Ottanta, diventa l’occasione per un viaggio nella storia e nella geografia del Belpaese, che di bello pare davvero avere, ed aver avuto, poco. L’improvviso riemergere di un passato ignobile, dopo qualche decennio di forzata, quanto voluta, apatia, non solo finisce con lo svelare il peggio di un’epoca lontana, coincidente con la giovinezza dei protagonisti, ma palesa anche quanto sia nauseabonda l’attualità.
Al centro della narrazione vi sono le vite di due individui incompiuti, le cui solitudini si incontrano nella Napoli degli anni Ottanta: uno studente universitario, Alfonso, vagamente politicizzato, fuori corso, che, in fin dei conti, si lascia vivere, senza speranze, in perenne attesa che qualcosa accada, ed una giovane venditrice di sigarette di contrabbando all’angolo di una strada, Perzechella, anch’essa piena di tormenti e delusioni. L’inaspettato rapporto tra i due si intreccerà con una serie di altrettanto inattesi eventi. Il matrimonio della sorella di Alfonso con un boss locale trascinerà il giovane, seppur marginalmente, in ambienti da cui si era sempre tenuto alla larga e di cui ignora i codici comportamentali e la relazione, tenuta nascosta, con la ragazza, finirà per ingenerare equivoci che si riveleranno tragici. Se Alfonso si avvicina ad un mondo criminale che non conosce, Perzechella tenta, invece, di uscirne e sarà proprio questo aver oltrepassato i rispettivi confini a determinare la tragedia.
Diventato improvvisamente omicida, lo studente dovrà abbandonare in fretta e furia la sua città salendo sul primo treno diretto al Nord e, giunto in Emilia, dovrà ricostruirsi una vita dimenticando il passato e recidendo qualsiasi contatto con i pochi cari che ancora gli restano. Così come improvvisamente, senza nemmeno sapere come e perché, si è trovato a dover fuggire da Napoli, altrettanto improvvisamente quel passato da cui è scappato lo raggiunge e lo costringe non solo a fare i conti con ciò che ha commesso ma anche a guardare negli occhi l’attualità in cui vive. Da quel momento non solo il passato trascorso da patetico perdigiorno si rivela orribile, ma anche il presente vissuto da stimato professionista si mostra per quello che è: falso, ipocrita ed invivibile.
Se i personaggi che popolano gli anni Ottanta, pur nella loro negatività, sembravano comunque in un certo senso inseriti in certezze e caselle ben delineate, con ruoli e strade tracciate come le rotaie di un tram, nell’Italia di oggi, invece, prevale il disincanto, la stanchezza, l’invecchiamento e, soprattutto, l’incapacità di decifrare quanto è accaduto e quanto sta accadendo.
Questo pendolo di andata e ritorno, geografica e temporale, rivela un presente indecifrabile in cui i patetici riflettori televisivi delle piccole tv private degli anni Ottanta, anni ruggenti quanto creduloni, appaiono sempre più fiochi, come il carisma dei vecchi uomini d’onore che si incontrano tra le pagine del romanzo, in una generalizzata decomposizione della società italiana, particolarmente evidente in ambito meridionale, soprattutto nella sua capitale infetta, Napoli.
Iozzoli risulta particolarmente abile nel tracciare, di tanto in tanto, in poche righe, il preciso contesto sociale, politico ed urbanistico in cui si svolgono gli eventi narrati. Un primo esempio è dato dalla sintesi con cui ricostruisce, mirabilmente, la Napoli post-terremoto dei primi anni Ottanta: «Tra l’80 e l’81, dopo il tremendo terremoto che in due minuti aveva spezzato la storia della Campania, seguirono infiniti altri sconvolgimenti. La scossa aveva dato il via ad un domino frenetico. Napoli sembrò implodere su se stessa, miracolosamente tenuta in piedi da un reticolo precario di putrelle, travi, tubi innocenti – ma anche di speranze, imprecazioni, urla, lacrimogeni, sangue e calcolatrici sempre all’opera. Il terremoto certo fu un formidabile detonatore: ma la Santa Barbara era già lì, pronta a esplodere, con le sue baraccopoli urbane e i suoi bassifondi fetidi e malati, e le ferite già aperte, sul punto di infettarsi e diventare cancrena. Quando Valenzi, il sindaco di Napoli, dettava i numeri dei senzatetto nei primi bilanci successivi alla scossa, barava e lo sapeva: dentro aveva fatto conto pari, e ci aveva infilato anche quelli che una casa non ce l’avevano mai avuta, le coabitazioni promiscue, i figli delle lamiere e dei cartoni, gli scantinatisti e quelli che abitavano case dichiarate da trent’anni insalubri e pericolose. Come capita alle guerre, il terremoto aveva ricomposto e quasi costituito un immenso esercito di senza speranza, che in pochi mesi trovò la forza della sollevazione, si riconosceva corpo collettivo, generava le sue avanguardie, tra capipopolo arraffoni e pronti a svendersi e studentelli occhialuti, poveri e caparbi. In pochi mesi successe di tutto – e come tutte le grandi ribellioni napoletane, anche questo uragano lasciò pochissime tracce del suo passaggio» (pp. 15-16).
Nuovamente, nel tratteggiare la Napoli della seconda metà degli anni Ottanta, Iozzoli riesce abilmente a ricostruire sinteticamente e compiutamente un’epoca ed uno spaccato di società: «Tra il 1986 e il 1987, il grosso del movimento post-terremoto era defluito in mille rivoli contrapposti, metabolizzato dall’enorme flusso di spesa pubblica che si stava rovesciando sulla Campania. Dopo il grande ciclo di occupazioni delle case, dopo le prime assunzioni di disoccupati organizzati, rimanevano le frange precarie di quelli che erano rimasti fuori. Dall’esercito della povera gente, tra i figli dei quartieri, che pure avevano copiosamente riempito le piazze di Napoli, pochissimi continuavano a resistere nell’impegno politico, lasciando soli ed esterrefatti i rivoluzionari di professione. I partiti, anche i più piccoli e mal frequentati, avevano recuperato il pieno controllo sulla società, reclutando a man bassa e rafforzando il loro ruolo di agenzie dove si intermediava di tutto: credito, posti, finanziamenti, appalti e affari criminali. […] A parte la massa cospicua degli arrestati e inquisiti, al giro di boa della prima metà degli anni ’80 centinaia di militanti erano letteralmente scoparsi. Alcuni non si facevano più vedere, persi dietro ai fatti loro, in una declinazione individualistica della vita che quasi mai (come invece sostenevano le riviste) culminava con la riscoperta delle gioie del privato. Il riflusso era deriva, deriva pesante, fatta di eroina, esaurimenti, depressioni, suicidi, e un massiccio rientro nei ranghi di una normalità al ribasso, mai gloriosa o appagante. Migliaia di persone, all’inizio degli anni ’80, vivevano semplicemente con un piede di qua e uno di là, sospesi in un nulla quotidiano e un po’ allibiti nel ritrovarsi così sbandati, in un gigantesco 8 settembre da nessuno mai dichiarato» (pp. 47-48).
«Sangue, eroina, calcestruzzo e monnezza si impastavano senza sosta, gonfiando una slavina velenosissima. Napoli fremeva, ma senza nessuno slancio o speranza: quella vitalità era solo la lotta quotidiana delle iene per accaparrarsi l’ultimo lembo di carne» (p. 92)
Nell’Emilia contemporanea le cose non sembrano andare meglio, tanto che anche alla Maserati iniziano a girare le prime lettere di licenziamento, anzi, di mancato rinnovo, visto che i più sono stati assunti come interinali ed a tempo determinato. «Essere entrato in un’azienda così prestigiosa, tre anni prima, sia pur precariamente, lo aveva riempito di vero orgoglio. Basta officine da quattro soldi. Andava anche a fare la spesa con la divisa color crema, col tridente in bella vista sul petto e sulla schiena; anche se non era nessuno, chiunque, incrociandolo – magari anche un giapponese – lo avrebbe collocato dentro una luce di eccellenza, di professionalità. Lui costruiva le macchine dei ricconi. Lui era il piccolo anonimo ingranaggio di una cosa grande e prestigiosa. Adesso era fuori. Fuori da tutto. Tutto stava crollando; come un presepio quando finiscono le feste, e i pastori finiscono a testa in giù negli scatoloni. La città sembrava paralizzata dalla paura. Anche nei baretti di periferia si aspettavano con ansia le notizie sull’indice Nikkei. C’era un’aria di fine secolo – anche se il secolo era appena iniziato; un’aria di crollo imminente, come una bella époque che sta per chiudersi, mentre da lontano nuvoloni minacciosi e rombi di cannone non lasciano sperare nulla di buono» (p.156).
Anche nei tradizionali quartieri popolari è evidente la trasformazione in atto nell’Emilia fiera e produttiva. «Quando erano andati ad abitare là, nel 1996, era una strada decorosa di anziani di periferia, un po’ di verde e cortiletti di ghiaia, l’associazione di quartiere. Adesso si era come spaccata a metà. Dal lato destro c’erano tutte case basse, di uno o due piani, e anche un paio di villette bipiano monofamiliari; gli occupanti erano vecchi operai emiliani doc, o loro eredi, che avevano negli anni risalito la scala sociale e si erano sistemati: casette belle, ristrutturate, in cui si accumulavano i risparmi operosi di una o due generazioni infaticabili. C’era ancora qualche vecchio reduce delle Fonderie, che proprio lì vicino avevano avuto la sede. Sull’altro versante della stessa strada, c’erano tre palazzine alte, del dopoguerra. Anche queste erano vecchie case operaie di gente delle Fonderie; ma non si erano mai evolute, erano rimaste come quarant’anni fa, per affittuari senza pretese, e il loro status di dignità popolare si era trasformato in degrado» (p. 157)
In questo clima di malessere generalizzato che, seppure in maniera differente, accomuna il Sud da cui la vicenda ha preso il via, ed il Nord, che era stato individuato come rifugio sicuro, terra salvifica, ove tutto torna invece improvvisamente a galla, il riemergere del passato determina un’improvvisa frenesia, un accavallarsi di vicende sconclusionate da cui emergono personaggi bizzarri, seppur verosimili, nello sbandamento generale del tempo presente: una ridda di facce e storie – maghi falliti, cantanti neomelodici, narcotrafficanti e loschi faccendieri – che si intrecciano fatalmente, quasi magicamente, conducendo al termine la vicenda narrata. L’epilogo è amaro, non poteva essere diversamente, come il destino di uno dei personaggi, un camorrista di vecchia scuola, che muore ammazzato l’ultimo giorno del 1999, l’ultima notte del secolo, quasi a sancire la sua non adattabilità ai tempi nuovi che si profilano nel nuovo millennio: tempi di feroce vacuità, per certi versi sempre più violenti, lo stiamo imparando a suon di disillusione ed incapacità di reagire. Dopo I terremotati (Manifestolibri, 2009) [su Carmilla] ed I buttasangue (Artestampa, 2015) [su Carmilla], Giovanni Iozzoli continua a realizzare opere che vale la pena leggere.