di Danilo Arona
Tra i tanti misteri di una vita quello della Sincronicità tra gli eventi resta tra i più affascinanti. Tutti nella vita ne abbiamo fatto e ne facciamo esperienza, anche se non tutti a volte se ne rendono conto. Val la pena di richiamare in breve quel che ne scrisse Carl Gustav Jung nel famoso saggio del ’52, ovvero che la Sincronicità è la somma di almeno tre fattori: il primo, un’immagine inconscia che si presenta in modo diretto (letteralmente) o indiretto (simboleggiata o accennata alla coscienza come sogno, idea improvvisa, presentimento); il secondo, un dato di fatto obiettivo che coincide con questo contenuto, magari un evento esterno che può svolgersi fuori della percezione dell’osservatore ed essere quindi distante nello spazio e nel tempo. Un’ipotesi che presuppone la percezione oscura di un senso latente. Il terzo, un evento reale che ne anticipa un altro, in qualche modo “empatico”, creando una interazione tra momenti temporali in grado di sviluppare e sottolineare quella percezione oscura cui si accennava più sopra.
Al di là di una maggiore o minore (in certi casi nulla) facoltà percettiva individuale, si può affermare che più o meno tutti, una o varie volte nella vita, hanno la possibilità di verificare strane coincidenze che risaltano tanto per l’elevato contenuto simbolico e di significato, quanto per qualche gruppo di eventi legati da un filo misterioso che non può essere spiegato in termini di causa ed effetto. Il concetto di sincronicità, difficilmente accettabile in un ambito scientifico occidentale, è particolarmente caro alle concezioni filosofiche orientali e nella filosofia antica. Alcune discipline borderline come l’astrologia lo considerano ovvio e sottinteso. È però possibile interpretare il concetto come una norma di funzionamento dei processi conoscitivi della mente: la tesi consiste nell’osservare come tutti i processi conoscitivi si basino sulla coincidenza di segni che poi divengono rilevanti tramite un processo di selezione che ne sottolinea la pertinenza. Sostanzialmente il cervello funziona come un potente selezionatore di coincidenze e quindi le Sincronicità acquistano una particolare rilevanza per le funzioni conoscitive. Sincronicità quindi come nesso che lega in maniera acausale, o casuale, gli eventi. Eventi associati a immagini, letterali o simboliche, ha poca importanza. In tutti questi casi noi osserviamo il presentarsi concomitante di due eventi che non appaiono legati da un nesso causale, bensì da uno sincronico. Parliamo quindi di sogni o di segni premonitori, di simboli che si presentano alla nostra coscienza e ci palesano aspetti della realtà oggettiva, o ci ragguagliano su quanto sta accadendo nella nostra vita.
Con un certo sforzo mnemonico da parte mia vorrei fornire un esempio che mi riguarda e che forse spiega, meglio di qualsiasi prefazione teorica, l’essenza della Sincronicità. Intanto era di giovedì 12 dicembre e l’anno era il 1969. Per me, diciannovenne innamorato della musica e rockettaro itinerante con i Privilege, era stata sino a quel giorno un’annata densa e divertente, divisa tra lo studio a Genova e un sacco di serate sparpagliate nel territorio tra Alessandria e Asti (quelli erano tempi che ho tentato di rievocare nella prima parte di Rock, i delitti dell’Uomo Nero, Edizioni della Sera).
Sino a quel giorno, appunto, perché nel tardo pomeriggio arrivò la notizia della bomba alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano. E qualcosa cambiò per sempre nella mia percezione del mondo, identica sensazione non credo proprio relegata alla mia sola sfera individuale che ritrovai in un pomeriggio di tanti anni dopo, l’11 settembre 2001.
Era chiaro, inoppugnabile, che si era trattato di un attentato e non di una disgrazia, alibi temporaneo della mente per rifiutare il reale. Una cappa plumbea di malumore e tristezza, accentuata se non ricordo male dal mix classico di maltempo invernale alessandrino, leggi nebbia e freddo sotto zero, si avvinghiò su ognuno. Quella sera me ne andai a vedere un film che non mi ricordo ma che in realtà non vidi perché mi perdevo in altri pensieri: la netta sensazione che un bel periodo della vita (la mia e quella di parecchi altri) si fosse di colpo interrotto e la percezione che il Male – va scritto così perché il Male è un’entità… – stesse sferrando un attacco malvagio e micidiale alla società del tempo. Mi sentivo di colpo esposto e poco difendibile, oppresso nel profondo da qualche residuale senso di colpa che non capivo. Ma sentivo soprattutto, per citare il sommo Ray, che Qualcosa di Sinistro doveva ancora vieppiù accadere.
Due sere dopo i Privilege dovevano suonare proprio a Milano. In un luogo chic, non proprio congruo al nostro essere e alla nostra musica da Jimi Hendrix della bassa Padana, che si chiamava Hotel Palace. Partimmo da Alessandria nella nebbia pomeridiana che già s’imbruniva e arrivammo all’Hotel che era buio. Il pulmino Volkswagen con gli strumenti e un’automobile per il gruppo. Si trattava di una festa privata di compleanno di cui ho scarsi ricordi visivi: la festeggiata che era molto bella e giovane, i musi lunghi di ciascuno e un’allegria generale a dir poco forzata, lo scarso feeling del nostro repertorio tra i ragazzotti della Milano bene che mi sembravano degli alieni giunti sulla Terra da un pianeta morente. Arrancammo sino all’una, fummo ben pagati e tanti saluti. Dopo di che il pesante rituale aborrito da ogni orchestrale, ovvero lo smontaggio di fine nottata e conseguente carico di colonne e amplificatori nel pulmino. Un po’ più appesantiti del solito perché pure noi avevamo partecipato con generosità ai brindisi, finimmo il lavoro intorno alle due e mezza. Ricordo che iniziò una strana e quasi surreale discussione su chi doveva affiancare nell’abitacolo del camioncino il guidatore che si chiamava Enzo, per tutti ancora oggi Enzone data la mole, e il cui ruolo di autista non appariva contestabile dato che era il proprietario del mezzo. Vito Oliva, grande amico di allora e di sempre, tastierista in grado di far impallidire Brian Auger, che era stato compagno di viaggio all’andata non voleva salire, e così pure tutti gli altri. E per troncare la strana vis polemica che dal nulla si stava impossessando del gruppo e frutto senz’altro del nervosismo palpabile nell’aria, ci andai io.
Partimmo. Nebbia da Carpenter, Enzone assonnato e un po’ incazzato, io di umor tetro perché quella serata musicale sembrava avere sancito la fine di un bel periodo senza farmi capire quel che stava iniziando – si trattava con evidenza di considerazioni ingenue sullo stato dell’arte dei Privilege.
Alle quattro, minuto più minuto meno, a pochi chilometri da Tortona, per quanto immerso in uno stato di beato torpore mi resi conto che la testa di Enzone stava ciondolando sul volante. Ebbi appena il tempo di dire: Enzo, cazzo, stai sveglio!, che con un frastuono inverosimile qualcosa sbriciolò il vetro e io mi convinsi di essere morto sul colpo. Non vedevo più nulla, ma scorgevo nel mio delirio quasi onirico e senza dubbio traumatico, i cadaveri dilaniati dentro la Banca dell’Agricoltura, pezzi di uomo dispersi in laghi di sangue, quell’estetica mostruosa della cronaca splatter cui allora non eravamo ancora assuefatti. Alla ricerca di pezzi miei, finii, sempre accecato, per poggiare le dita sul naso. E, mentre Enzone urlava che era pieno di sangue, io percepii qualcosa di duro, quasi metallico, e mi convinsi che un elemento del cruscotto mi si era incastrato tra le narici. Non so come, riuscimmo a uscire, verificando che per fortuna, nello scontro con la parte posteriore di un Tir il cui conducente non si era accorto di nulla, il camioncino aveva sbandato sulla destra finendo in corsia d’emergenza. E questo forse ci salvò la vita. I danni però non erano da poco: tutto il sangue che l’ululante Enzo sotto shock dichiarava di avere addosso era in realtà il mio e la cosa dura, quasi metallica, che mi ritrovavo al posto del naso era in verità l’osso rotto e messo a nudo dalla violenza dell’impatto. Un po’ di strumenti erano schizzati via dal portellone di destra e si erano rovinosamente dispersi, pure loro, nella carreggiata di sosta, aspetto anche quasi fortunato nella sfortuna dell’evento. Rammento la visione dei tasti del Thomas di Vito che tappezzavano l’asfalto, un tocco irreale a quel piccolo inferno di lamiera e di sangue.
Poi va da sé che non ricordo più tanto bene. Ma sono in grado di riportare con lucidità che fu la terza macchina che transitò la prima a fermarsi e a condurmi al Pronto soccorso di Tortona, dove cinque ore dopo mi risistemarono il naso alla meglio e mi cucirono con 19 punti di sutura. Qualcosa di sinistro era accaduto. La mia vita da quel momento cambiò tanto quanto i miei lineamenti. Non so dire, ma non è affatto importante il saperlo, se in meglio o in peggio. Di certo so che il 12, il 13 e il 14 dicembre del ’69 si dimostrarono tre giornate dominate da quei “segni” di cui non fui in grado di cogliere la forza simbolica. Forse, la possibilità va rimarcata, il mio naso ne avrebbe giovato. Il compianto Oberto Airaudi, nella prefazione a Sincronicità e linee sincroniche, edizioni Horus, 1985, illumina da par suo questi ricordi, più emotivi che ponderati, in questo modo:
Stiamo viaggiando su una macchina, vediamo un uccello alla nostra sinistra e nel frattempo buchiamo una gomma. Dopo un anno, mentre siamo in viaggio, vediamo un uccello volare alla nostra sinistra; istintivamente ci viene in mente che l’anno prima in quella occasione avevamo forato; fermiamo la macchina e vediamo un chiodo a pochi centimetri dalla gomma (op. cit., pag. 13).
Quella notte al Palace Hotel di Milano la musica dei Privilege risuonò lugubre e drammatica, nonostante arrivassimo da un’estate zeppa di serate allegre dove la gente si era divertita ballando per ore al suono di Hush dei Deep Purple e Suzie Q dei Creedence. Perché i nessi sincronici sono a loro modo magici. Ma la magia non sempre è bianca.