di Armando Lancellotti
Fabrice d’Almeida, Il tempo degli assassini. I guardiani dei campi di concentramento e le loro attività ricreative (1939-1945), Ombre Corte, Verona, 2015, pp.175, € 16,00
«Giuro che sarò fedele e obbedirò ad Adolf Hitler, capo del Reich e del popolo tedesco, e che svolgerò coscientemente e disinteressatamente i miei doveri di servizio». (p. 40)
Pronunciando queste parole uomini e donne tedesche assumevano il ruolo di guardiani dei lager e contemporaneamente anche un potere pressoché illimitato sui detenuti intrappolati nel terribile sistema concentrazionario dei KL nazisti, i Konzentrationslager.
E proprio dei guardiani dei lager ci parla l’interessante ed originale studio di Fabrice d’Almeida, storico dell’università Paris II Panthéon-Assas, uscito nel 2011 con il titolo Ressources inhumaines. Les gardiens de camp de concentration et leurs loisirs e tradotto e pubblicato in italiano da Ombre Corte nel 2015.
Un libro che si colloca all’interno di quell’ambito di analisi e studi storiografici, sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni (si vedano a questo proposito i saggi di Ch. Browning, D. J. Goldhagen usciti a metà degli anni ‘90 e di altri), che affronta il tema dei lager e della Shoah concentrandosi sui carnefici e non sulle vittime, sugli esecutori dello sterminio o comunque, come in questo caso, sui guardiani dei campi e non sui detenuti.
Una scelta di argomento e di prospettiva che comporta – precisa l’autore – la violazione di almeno due resistenze psicologico-morali e se la prima, soffermarsi sugli assassini o sui loro collaboratori e non sulla tragedia dei deportati, può più facilmente essere superata perché rispondente all’intento di una lettura completa ed esaustiva del fenomeno che tenga conto di tutte le parti coinvolte, la seconda, tralasciare le violenze e la ferocia praticate dai sorveglianti dei campi per studiare l’organizzazione del loro “lavoro” e soprattutto del tempo libero e la predisposizione di spazi e azioni di svago per questa risorsa (in)umana dell’industria concentrazionaria del Terzo Reich, potrebbe sembrare provocatoria, irrispettosa della memoria delle vittime e straniante.
Ma proprio lo studio degli aspetti inizialmente e comprensibilmente considerati meno urgenti dalla storiografia del Terzo Reich e della Shoah in particolare può contribuire oggi ad una comprensione del fenomeno sempre più ampia, ora che la letteratura sull’argomento, sui meccanismi del sistema concentrazionario e del processo di sterminio nazisti può dirsi già copiosa ed approfondita.
Pertanto la scelta di Fabrice d’Almeida di considerare le attività ricreative dei guardiani dei lager, il loro tempo libero e più in generale la politica tedesca di gestione del personale delle unità speciali delle SS impiegate nei campi di concentramento e sterminio – le Totenkopfverbände – ci sembra non solo di grande interesse, ma oltremodo fertile sia per quantità sia per qualità dei contributi euristici forniti, in quanto se da un lato chiarisce aspetti certamente meno noti di altri del funzionamento dei campi di internamento nazisti, dall’altro conferma e rafforza alcune delle principali tesi interpretative di questo capitolo della storia novecentesca. E ci riferiamo non solo alla arendtiana “banalità di un male” che risulta sempre più tale, cioè banale, quando osserviamo ad esempio gli scatti dell’album fotografico Höcker, custodito all’Holocaust Memorial Museum di Washington dal 2007, che documentano momenti di svago e divertimento di ufficiali e ausiliarie SS del campo di Auschwitz (e proprio dal ritrovamento di questo peculiare materiale fotografico ha tratto spunto lo studio di d’Almeida), ma ci riferiamo anche alle tesi di Raul Hilberg riguardo al coinvolgimento “sistemico” dell’intera Germania nazista nel processo di sterminio e alle riflessioni di Zygmunt Bauman sulla “modernità” e razionalità industriale della macchina concentrazionaria e di annientamento predisposta dal Terzo Reich.
Ma proseguiamo con ordine: se consideriamo le tre fotografie dell’album Höcker qui riportate nella loro probabile successione esecutiva, vediamo un gruppo di una dozzina di persone, di cui tre uomini, che evidentemente distesi e spensierati si divertono, scherzano e si fanno fotografare, mentre ridono, suonano e presumibilmente cantano. Insomma una normale, ordinaria, in questo senso “banale”, scena di svago di gruppo.
Le risate sembrano fragorose e prolungate; il divertimento è accompagnato dalle note di una fisarmonica suonata dall’uomo sulla destra; la donna che gli sta vicino assume ludiche pose svenevoli in tutti e tre gli scatti, mentre, nell’ultimo dei tre, due amiche sulla sinistra si slanciano di corsa e allegre verso il fotografo, che forse – proviamo ad immaginare – le provoca e le motteggia. Ma se osservate ripetutamente, queste immagini, nonostante la loro apparente ordinarietà, provocano in noi un crescente disturbo; c’è qualcosa di stonato, di sghembo che produce un effetto di spaesamento. E l’effetto straniante è determinato non solo e non tanto dai lucidi e neri stivali militari sotto le impeccabili uniformi da SS indossate dai tre uomini e da quelle di ausiliarie SS delle donne, quanto piuttosto dalla consapevolezza che il prato attorno e la macchia scura di betulle sullo sfondo che incorniciano questa altrimenti insignificante scena di svago si trovano ad Auschwitz, dove i tre ufficiali e le ausiliarie SS, una volta terminato quel momento di riposante distrazione, torneranno ad infierire brutalmente sui detenuti, seminando terrore e morte.
Una delle tesi più importanti espresse da d’Almeida è quella secondo cui «i guardiani non sono lo scarto delle formazioni militari, come hanno voluto far credere i dirigenti perseguiti all’indomani della seconda guerra mondiale per crimini contro l’umanità», ma sono parte di «un’istituzione che si considera l’élite della società tedesca» (p. 12), soprattutto quando, dopo la “notte dei lunghi coltelli” e il depotenziamento delle SA, organizzazione, gestione, controllo e sfruttamento dei lager vengono assegnati alle SS, a quell’”ordine nero” che del nazionalsocialismo pretende di incarnare l’essenza politica e razziale ed in particolare alle SS – Totenkopfverbände, le “unità testa di morto”. «Per il nazismo, i prigionieri sono secondari. Essi sono il nulla. Ciò che interessa sono i guardiani, coloro che sorvegliano l’interno e l’esterno dei campi. Il loro lavoro appare semplice: consiste nel sorvegliare ed eliminare i nemici della società e della razza tedesche» (p. 11).
Una élite di custodi e sentinelle dell’ordine nazionalsocialista che è parte costitutiva e consustanziale – è questa un’altra delle idee portanti del ragionamento di d’Almeida – del progetto di ingegneria sociale del Terzo Reich, che intende riorganizzare la società sulla base di un darwinismo sociale, politico e razziale che richiede un’eugenetica azione di isolamento ed eliminazione del nemico, dell’inadatto. Ne consegue che il ruolo dei sorveglianti dei campi è una tessera fondamentale dell’intero mosaico sociale nazista ed è in relazione integrante con altri apparati ed istituzioni del regime, in primo luogo «la polizia, che finirà per essere inclusa nello stesso ministero […]. Il partito nazista, naturalmente, che invia loro i mezzi e li colloca al centro della sua dottrina. Le SS, di cui costituiscono una delle forze d’élite. Anche altri “corpi” hanno con loro contatti a intervalli regolari, come quello degli impiegati postali, dei ferrovieri, dei pompieri e soprattutto dei militari, che proteggono da lontano le istallazioni. Si aggiungono a queste amministrazioni dei partner economici, dal momento che le imprese approfittano dello sfruttamento della mano d’opera raggruppata nei campi» (p.11)
Alla realizzazione del progetto nazista di ingegneria sociale, di cui la deportazione, la detenzione e l’eliminazione dei nemici nei lager è la chiave di volta, l’intera società tedesca, articolata in apparati ed istituzioni, partecipa attivamente. Si tratta di un coinvolgimento sistemico che – come già aveva sostenuto Raul Hilberg a partire dagli anni ’60 – non diminuisce, parcellizzandola e distribuendola, la responsabilità delle singole istituzioni, ma, al contrario, ne aumenta la somma totale.
E se il darwinismo razziale fa da orizzonte di comprensione del progetto sociale del nazismo, la metodologia e la logica della sua messa in atto sono quelle burocratiche moderne – come dalla fine degli anni ’80 va dicendo Zygmunt Bauman – e nella fattispecie dei lager quelle industriali fordiste. Osserva infatti d’Almeida che negli «anni precedenti e seguenti la prima guerra mondiale, il taylorismo e il fordismo avevano portato a considerare in maniera scientifica i rapporti fra il lavoro e le conseguenze che esso produce sugli individui. Lo sviluppo delle teorie sul tempo libero e la riduzione dell’orario lavorativo con l’introduzione dei giorni festivi avevano incentivato la riflessione sulle attività al di fuori degli uffici e delle fabbriche. L’esercito stesso se n’era fatto portavoce, grazie al sistema delle licenze intensamente presente anche durante la Grande Guerra». (p. 16)
Di questa ristrutturazione fordista della società novecentesca, che nella massificata e massificante Grande Guerra conosce un passaggio fondamentale, l’industrializzazione operata dal nazismo della detenzione e, come suo sviluppo ed esito, dello sterminio costituisce un ingranaggio essenziale. «Le SS contribuiscono alla modernizzazione della gestione delle organizzazioni propria della produzione industriale e della disciplina dei comportamenti». (p. 17) Pertanto, l’amara conseguenza tratta dall’autore da questa premessa è che dal «punto di vista della storia dell’ingegneria sociale e della gestione delle risorse umane, la svolta rappresentata dal genocidio degli ebrei e degli zingari è comunque eccezionale e pone una quantità di domande, che spesso sono state affrontate in prospettiva psicologica». (p. 18) Approccio quest’ultimo che d’Almeida non intende praticare, preferendo un’osservazione e culturale e materiale del fenomeno dei sorveglianti dei campi di concentramento. Analisi che nell’ottavo ed ultimo capitolo del libro (Il secolo dei guardiani) si allarga ad altri esempi novecenteschi del fenomeno concentrazionario, in particolare a quello dei Gulag sovietici, muovendo dalla convinzione che quella del guardiano del lager sia una figura essenzialmente novecentesca, che trova poi nel totalitarismo il contesto ideale della propria definizione.
Nell’organizzazione industriale e fordista della repressione sociale per via concentrazionaria rientra pertanto il “tempo libero”, quello che contribuisce alla rigenerazione e alla maggior efficienza della forza lavoro. «La vita delle guardiane e dei guardiani doveva essere sufficientemente piacevole nel quotidiano, affinché potessero attivare tutta la loro violenza in seno all’istituzione concentrazionaria. Non dovevano soffrire a causa dell’inattività o dell’ozio, quando lasciavano il loro luogo di lavoro per il riposo, per quanto fosse breve. In questo senso il nazismo è il primo esempio di gestione di risorse umane». (p.19)
Ovviamente anche il salario gioca un ruolo importante in un “rapporto di lavoro”, come dimostra – osserva d’Almeida – il caso delle ausiliarie SS, delle guardiane, che vengono arruolate a partire dal 1938 per garantire la sorveglianza soprattutto, ma non solo, delle prigioniere. Il personale femminile viene formato, inquadrato ideologicamente, in particolare nella scuola creata apposta nel campo femminile di Ravensbrück dal 1940, ma – sostiene l’autore – a differenza di quanto accade per i «loro omologhi maschi, la scelta di mettersi a servizio della politica concentrazionaria non dipende, nel loro caso, da forti motivazioni ideologiche» (p. 40), quanto piuttosto dal salario. «La remunerazione di base di una giovane guardiana è di 185 Reichsmark, superiore di un terzo a quella di un’operaia non qualificata impiegata nell’industria tessile, e con le indennità di servizio può arrivare quasi a raddoppiarsi». (p. 40) Questo da un lato aiuta a capire perché – come scrive lo storico – solo il 4% delle guardiane si sia iscritto al partito e dall’altro ci sembra dimostri una volta di più quanto sia complessa e problematica, sfaccettata e spesso indecifrabile la questione del consenso ideologico all’interno di un regime totalitario.
In questo caso, comunque, sono le logiche del mercato della mano d’opera che contribuiscono a fare la differenza, ad attrarre personale verso l’impiego nei campi di concentramento e a integrare ed includere socialmente, come parte della struttura economico-produttiva, l’inumanità della segregazione concentrazionaria.
Nei capitoli dal terzo al sesto d’Almeida prende poi in esame nel dettaglio le attività dell’ultimo dei sei dipartimenti (Abteilung VI) in cui venne articolata l’organizzazione di tutti i campi, secondo il modello introdotto a Dachau da Theodor Eicke, stretto collaboratore di Himmler; a loro volta tutti i lager tedeschi rispondevano alla IKL – Inspektion der Konzentrationslager, con sede a Berlino dal 1934. È «l’Abteilung VI a mettere a disposizione del personale gli strumenti per il suo intrattenimento, al fine di mantenere la condizione di spirito necessaria per l’adempimento dei servizi richiesti […]. Ottiene le sue risorse dai ministeri della Propaganda e dell’Educazione popolare, diretti da Joseph Goebbels, e, dal 1940 al 1945, diventerà lo strumento indispensabile nell’attuazione dei principi di gestione delle risorse umane, nel periodo in cui l’esplosione della violenza nei campi va verso il suo apogeo». (p. 32)
E così apprendiamo, per fare alcuni esempi, che per quanto riguarda la vita sessuale, secondo d’Almeida è doveroso abbandonare lo stereotipo, perché non supportato da dati ed elementi probanti sufficienti, di una sfrenata attività sessuale attribuita al personale SS di sorveglianza nei campi, così come quello di una sessualità disturbata, spesso attribuita agli ufficiali di più alto grado. Secondo lo studioso francese si tratta di un cliché sorto dopo la guerra «allo scopo di stigmatizzare la mostruosità dei carnefici – come se fosse stato necessario aggiungere ai loro crimini comportamenti che oltrepassavano il senso comune». (p. 67)
Piuttosto la sessualità del personale tedesco dei campi era regolamentata dai divieti conseguenti alle leggi razziali e di difesa del sangue tedesco: «nessuna relazione omosessuale, nessun rapporto interrazziale, nessun contatto intimo tra detenuti e sorveglianti. Nei fatti, i comportamenti sono più variegati». (p. 66)
Di certo fu incoraggiato il ricorso al bordello e ne furono aperti alcuni appositamente per il personale dei campi. «Contrariamente alle case chiuse destinate ai lavoratori forzati, situate nell’area dei rispettivi campi e poste sotto la sorveglianza dei guardiani, come nel caso di Buchenwald, pare che quelle destinate al personale fossero poste al di fuori dei reticolati. Ad Auschwitz, per esempio, le SS potevano recarsi in centro città due giorni a settimana, tra le 17 e le 23, quando era loro riservato un bordello che, altrimenti, era frequentato da cittadini tedeschi e, in particolare, dai militari della Wehrmacht». (p. 71)
Proseguendo, ci viene detto che uno dei modi di trascorrere il tempo libero preferiti consisteva nel mangiare e bere insieme, attività ricreativa che veniva incentivata dalle autorità, dal momento che poteva cementare lo spirito di gruppo ed il cameratismo. Ma anche l’ascolto di musica attraverso l’invio ai diversi campi di un ricco materiale discografico fu utilizzato come mezzo di divertimento e distrazione. Molto apprezzate e richieste erano le radio, in linea con i costumi e le abitudini dei tedeschi, essendo dagli anni ’30 la distribuzione di apparecchi radio particolarmente capillare in Germania. Ma non mancavano naturalmente le carte da gioco, i giochi di società, i giornali e le riviste e le librerie, i cui cataloghi, in larga parte uguali in tutti i lager, da d’Almeida vengono attentamente spulciati, dal momento che in questo caso alla funzione di svago si aggiungeva quella di formazione ed inquadramento politico ideologico. A tutto ciò, si aggiungevano, infine, spettacoli, attività e gare sportive, insomma un interno inventario di pratiche ludiche e ricreative del tutto ordinarie e comuni, se non fosse che per nulla ordinario e comune era il contesto in cui tutto ciò accadeva. Pertanto, scrive d’Almeida proprio nelle ultime righe del suo lavoro, «la conclusione che si impone è racchiusa in una frase. Nei campi di concentramento e di sterminio, gli esecutori non hanno solo massacrato donne e bambini: essi hanno anche ammazzato il tempo». (p. 162)