di Gioacchino Toni
«Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità [presuppone che] tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. […] Ed è ciò che oggi sta avvenendo […] I “like” di apprezzamento o altri indicatori simili sono […] delle unità di misura del successo» (V. Codeluppi)
«devi diventare merce per poter propagandare altra merce» (G. Arduino – L. Lipperini)
Da qualche tempo sembra sempre più difficile affrontare la realtà senza ricorrere al filtro di una registrazione. Non è difficile imbattersi nelle località turistiche in visitatori che rinunciano a godersi la visione diretta di ciò che hanno di fronte per riprenderlo col proprio telefonino, ossessionati dal dover registrare quanto hanno davanti agli occhi. Qualcosa di simile accade anche al pubblico degli eventi sportivi e dei concerti. Tanti affrontano l’esperienza del concerto impugnando e puntando verso il palco altrettanti smartphone al fine di catturare qualche memoria digitale dell’evento da poter poi condividere sul web. Probabilmente pochi si riguarderanno veramente le riprese effettuate, nel migliore dei casi i più finiranno per caricarne qualche frammento sul web condividendolo con schiere di conoscenti, più o meno virtuali, che, a loro volta, daranno un’occhiata fugace e magari contribuiranno a far girare, a vuoto, in rete il tutto. Nei concerti molti smartphone più che essere puntati verso il palco sono in realtà indirizzati verso i mega-schermi che, a loro volta, diffondono le immagini del palco registrate dall’organizzazione. Sicuramente un primo motivo di tale comportamento può essere individuato nel fatto che, soprattutto negli eventi di grandi dimensioni, il palco è molto lontano e la folla presente intralcia la visione e la ripresa ma, probabilmente, tale pratica è dovuta anche al fatto che il pubblico si è talmente abituato a fruire immagini che trova più interessante osservare, dunque registrare, le riprese elaborate e trasmesse dagli schermi che non “accontentarsi” della piatta visione del palcoscenico. Per quanto la band sia abile nel tenere il palco, non c’è paragone, per chi è cresciuto a riproduzioni di realtà, l’elaborazione offerta degli schermi è molto più accattivante.
Anche in diversi eventi sportivi si è avuta una vera e propria proliferazione di mega screen che trasmettono, in definitiva, ciò che lo spettatore visionerebbe in ambito domestico dal televisore. Alla visione diretta dell’evento si sostituisce la visione della sua spettacolarizzazione televisiva, quasi si fosse alla ricerca di una tele-visione del reale. La realtà sembra dunque essere fruita tele-visivamente in un gioco di specchi in cui ci si allontana sempre più dal reale: riprese di riprese a loro volta caricate sul web che le darà a vedere attraverso monitor.
Risultano davvero tanti gli schermi che si frappongono tra la realtà e la fruizione finale a partire dal monitor del primo apparecchio digitale di registrazione, passando per il grande schermo che diffonde le immagini e via via attraverso il monitor dello smartphone che riprende tale schermo… fino al monitor del computer che le darà a vedere. Sono davvero numerosi i filtri e le inevitabili modificazioni subite da quel frammento di realtà iniziale determinate dai diversi media e dalle scelte dei diversi operatori. Risulta difficile dire quale percezione di realtà sia possibile avere in un contesto di tale tipo.
Descrivendo questo fenomeno per cui le immagini sembrano via via sostituirsi al reale, Marc Augé, (La guerra dei sogni) sul finire degli anni Novanta, per spiegare la frustrazione provata nel percepire chiaramente tale deriva nel disinteresse collettivo, ricorre ad un efficace parallelismo con The Invaders (ABC, 1967/68), la serie televisiva statunitense ideata da Larry Cohen che mette in scena lo sbarco di extraterrestri intenzionati a conquistare il globo sostituendosi pian piano agli esseri umani. Augé, nel denunciare la crescente “messa in finzione” della realtà, afferma di sentirsi un po’ come il protagonista della serie che scopre il segreto della sostituzione ma fatica a convincere di ciò gli altri esseri umani.
Questa reticenza ad affrontare la realtà direttamente senza ricorrere a mediazioni (ri)produttive, aprirebbe numerose questioni su cui varrebbe la pena riflettere. Se, ad esempio, alla “messa in finzione della realtà” abbiamo dedicato spazio [su Carmilla], così come alle difficoltà di realizzare immagini documentarie capaci di fronteggiare la spinta contemporanea tesa alla «progressiva trasformazione dell’immagine in surrogato della realtà e della realtà in surrogato dell’immagine» (I. Perniola, L’era postdocumentaria, p. 98) [su Carmilla], in questo scritto vale la pena soffermarsi sul fenomeno dell’esibizionismo contemporaneo e sulla costruzione identitaria entro cui si colloca la pratica dei selfie.
A tal proposito, riflessioni interessanti si trovano nel saggio di Vanni Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano – Udine, 2015, 118 pagine, € 10,00. Tale testo parte dalla presa d’atto di come i nuovi strumenti di comunicazione abbiano moltiplicato le possibilità di produrre e diffondere messaggi ed in particolare quelli che ogni individuo produce su se stesso.
Codeluppi sostiene che tutto ciò può essere fatto risalire alla diffusione settecentesca delle vetrine nelle grandi città e da allora gli individui hanno mutuato tale sistema comunicativo, basato sulla spettacolarizzazione e sull’esibizione dalle merci, applicandolo su se stessi, al fine di comunicare efficacemente a proposito della propria persona.
È vero che gli esseri umani hanno sempre tentato di valorizzare la propria immagine nei confronti degli altri ma ultimamente tale esigenza sembrerebbe essersi resa sempre più impellente, tanto che lo studioso, al fine di definirla, ricorre al termine “vetrinizzazione”, proprio per sottolineare come, nelle competitive società massificate ed urbanizzate, gli individui sentano sempre più urgente il bisogno di costruirsi identità distintive tese alla propria valorizzazione.
Codeluppi individua le radici del selfie nelle pratiche fotografiche ma nel caso del selfie non serve nemmeno un mediatore (il fotografo). Mentre l’antenato “autoscatto” tendeva ad essere essenzialmente privato, come le fotografie prima della diffusione dei nuovi media, il selfie tende ad essere eseguito per essere condiviso. La diffusione degli smartphone, dotati di obiettivo frontale, permette a tutti di aver sempre “a portata di mano” uno strumento in grado di fotografare e condividere tali scatti sul web istantaneamente. Secondo i dati riportati da M. Smargiassi (“La Repubblica”, 09/12/12), su Facebook ogni ora vengono caricati circa dieci milioni d’immagini.
La tendenza alla vetrinizzazione, secondo Codeluppi, deriva dalla necessità dell’individuo contemporaneo di creare e gestire la propria identità. Si tratta di un tentativo di catturare l’attenzione attraverso un adeguamento agli standard di rappresentazione sociale prevalenti nella società. Attraverso la pubblicazione del selfie in internet si cerca una certificazione pubblica della propria esistenza all’interno del web. In riferimento a ciò, da qualche tempo si è diffuso il termine “selfbranding” indicando con esso l’allestimento del proprio sé, la presentazione sociale, la trasformazione della propria soggettività in una realtà d’interesse pubblico.
Avendo a che fare con la fotografia, anche il selfie, sostiene l’autore, ha in qualche modo a che fare con l’immortalità. Le comunità tradizionali tendevano ad attribuire un senso di immortalità a tutti coloro che ne facevano parte; si viveva nella, ci si identifica in e si sopravviveva attraverso la comunità. I processi di modernizzazione e di urbanizzazione hanno frantumato le comunità ed hanno condannato gli individui ad una sorta di atomizzazione di massa. La fotografia, nel corso dell’Ottocento, ha permesso di “immortalare” la propria immagine, dunque ha offerto a tutti la possibilità di costruirsi un monumento. Secondo l’autore il selfie sviluppa le capacità della fotografia di conferire durata e diffusione sociale agli eventi personali, attraverso la fotografia ci si sentirebbe meno effimeri.
Nel selfie risultano importanti le azioni compiute dal soggetto che scatta la foto; davanti all’obiettivo frontale, si compiono movimenti tesi a valorizzare l’individuo e ciò risulta possibile grazie allo schermo che funziona da specchio per la performance messa in atto dal fotografo/fotografato. Nella pratica del selfie lo smartphone è a contatto col corpo ed è normalmente sempre a disposizione dell’individuo. Il selfie concentra l’attenzione su un’inquadratura limitata al volto o alla parte superiore del corpo di chi lo esegue, cioè a quanto è permesso dal porre l’obiettivo ad una distanza “di un braccio” (protesi telescopiche turistiche a parte). L’ambiente perde d’importanza, di esso interessa solo qualche indicazione relativa al luogo in cui si trova il soggetto che è il vero attore principale della “messa in scena”; l’obiettivo è fissare la presenza del soggetto all’interno di un evento. Se il selfie può ricordare la pratica del diario personale che testimonia la quotidianità di chi lo tiene, da esso si differenzia per il fatto che mentre il diario ha solitamente un carattere privato, il selfie per sua natura tende ad associarsi alla condivisione, all’esibizione pubblica.
Se da un lato il selfie può sembrare una risposta all’esigenza di dare consistenza a se stessi, di non essere fantasmi, dall’altro queste immagini contribuiscono a rendere l’individuo sempre più fantasmatico. Nella società contemporanea tutti cercano un pubblico e, spesso, si tende a parlare a proposito del selfie come di una pratica narcisistica. Secondo Codeluppi, però, non sono tanto i selfie, le fotografie o i media stessi a generare narcisismo, è piuttosto il tipo di società contemporanea a determinare il narcisismo in quanto impone condotte individualistiche che richiedono di prestare attenzione a come si è percepiti dagli altri.
Nel testo è riservato uno spazio al mito della trasparenza che sembra guidare la società contemporanea. Se nelle piccole società tradizionali tutti si conoscevano, nelle società di massa urbanizzate si ha a che fare con sconosciuti e per potersi fidare di chi non si consce si è alla ricerca di trasparenza. Negli ultimi tempi sono diversi i luoghi e gli spazi abitativi e di lavoro che si sono smaterializzati esaltando così da un lato l’idea che non si ha nulla da nascondere e, dall’altro, il fatto che sentirsi esposti può contribuire a generare l’idea di non essere soli, di poter sempre contare su una rete di conoscenze che trasmette sicurezza anche se, in realtà, tale rete di relazioni è talmente effimera e debole che difficilmente si può contare realmente su di essa. Il bisogno di trasparenza sembra essersi trasformato in “ossessione sociale” tanto che si è venuta a creare una società di “schiavi della visibilità”. La trasparenza si è, infatti, presto trasformata in vero e proprio “controllo sociale”, in un sistema di coercizione dell’individuo che pare sempre più impegnato a fornire e ad a gestire un’immagine personale adeguata alle richieste sociali.
Il senso di solitudine ed isolamento sembrerebbe indurre l’individuo a cercare una platea per rafforzare l’identità e la strategia di vetrinizzazione pare tesa a magnificare e valorizzare se stessi. Però, mette in guardia Codeluppi, «più si celebra online la propria vita, più aumenta la propria insoddisfazione nei confronti di essa» (p. 41) perché si è costretti a rapportare la propria vita reale, non sempre idilliaca, con quella conformista ideologia della positività imperante nei social network che insistono col mostrare vite felici, divertimento, vacanze ecc. Tutti tentano di costruire un’immagine della propria esistenza conforme a quelle comunicate dai network, dunque i profili personali finiscono per assomigliarsi tutti essendo costruiti da un bricolage degli stessi materiali assemblati soltanto in maniera leggermente diversa.
Per quanto riguarda gli usi dei corpi sul web, Codeluppi nota la tendenza a superare le norme morali stabilite e l’indirizzo prevalente sembra essere quello di rinunciare al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità, il più delle volte costruita e gestita in maniera da renderla accattivante come richiesto dall’omologazione imperante sulla falsariga di quanto avviene nei reality show composti da (fino a quel momento) sconosciuti. «Rinunciando alla privacy, così, le persone pensano di poter operare come quei personaggi di successo che sono oggetto della loro venerazione» (p. 47).
Anche coloro che diventano celebrità su You Tube, sembrano sempre più votati ad incarnare un modello culturale conformista, il più delle volte “virato al positivo” ove «non è previsto uno spazio per i lamenti e le critiche e tutto dev’essere allegro e spensierato» (p. 47). Inoltre, sottolinea Codeluppi, quello degli youtuber «si presenta come un mondo decisamente consumistico. Un mondo dove ciò che conta è riuscire a raggiungere un certo livello di popolarità per poter firmare dei vantaggiosi contratti con le aziende al fine di promuovere i loro prodotti» (pp. 47-48). Come affermano G. Arduino e L. Lipperini: «devi diventare merce per poter propagandare altra merce, essere sempre connesso, sempre sulla scena, non distrarti mai» (Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del web, 2013, p. 47). Codeluppi conclude pertanto che, in base a tale logica, diventa necessario «accettare l’idea che tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque può anche essere misurato e valutato. Ed è ciò che oggi sta avvenendo, grazie soprattutto a una progressiva digitalizzazione di ogni cosa. I “like”di apprezzamento o altri indicatori simili sono infatti delle unità di misura del successo davanti al suo pubblico. E, proprio per questo, ciascuno tende a credere che il suo valore come essere umano sia strettamente dipendente da tali indicatori» (p. 48).
In effetti, seguendo il ragionamento di Codeluppi, non stupisce l’ansia da prestazione, la mania di controllare il numero di condivisioni e apprezzamenti che si ottengono con una pubblicazione di immagini o scritti sul web. Alla mania di controllare, magari con una certa frequenza, “il risultato” che si sta ottenendo, andrebbe forse sostituito un ragionamento circa la pratica stessa della condivisione e del giudizio nei social network. A proposito della fruizione della fotografia, Ilaria Schiaffini mette in luce come ultimamente la fruizione sia divenuta «sempre più frettolosa, o “distratta”, per usare le parole di Benjamin: l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione» (R. Perna, I. Schiaffini, Etica e fotografia p. 12) [su Carmilla]. Probabilmente tale riflessione può essere estesa a tutto ciò che viene caricato sul web, dunque, quando si va alla ricerca spasmodica dei “risultati ottenuti”, occorrerebbe tener presente che, soprattutto sul web, la condivisione sembra essere spesso un modo per rafforzare la convinzione di essere inseriti nel network, più che il risultato dell’analisi di un contenuto e ciò sembra valere tanto per colui che invia materiale, quanto per chi lo riceve e che a sua volta inoltra. Allo stesso modo i commenti non di rado vengono emessi senza che il materiale a cui si fa riferimento sia stato realmente analizzato. Facilmente il commento è “a pelle”, superficiale, non argomentato, così come spesso il materiale caricato è assemblato distrattamente. L’ossessione per il consenso tende, inevitabilmente, a spronare gli individui a caricare ed inoltrare materiali graditi ai più, in un gioco teso all’omologazione più deprimente. Non importa l’ampiezza del network di cui si desidera essere parte riconosciuta. Se è il consenso che si cerca, lo si ottiene più facilmente grazie alla condivisione di ciò che “piace a tutti”, come aveva ben compreso il re della mercificazione Andy Wharol. In altri casi la condivisione ed il giudizio positivo si riferiscono all’autore più che al contenuto da esso pubblicato o trasmesso. Alla celebrità è permesso trasmettere qualsiasi cosa, pochi “perderanno tempo” ad analizzare in profondità il contenuto di ciò che viene trasmesso; i giudizi si riferiranno facilmente a colui che ha emesso il messaggio. Questo lo avevano capito bene tanto Marcel Duchamp, con i suoi palloncini gonfi di “fiato d’artista”, quanto Piero Manzoni, con la sua “merda d’artista” venduta letteralmente a peso d’oro. Da questo punto di vista, per certi versi, ad essere condiviso e giudicato non è il materiale presentato ma l’autore stesso e ciò finisce con l’aumentare il panico in quest’ultimo che si vede così costantemente sotto esame.
Vale la pena riprendere la riflessione di Wu Ming 1 quando, giustamente, mette in luce come sia sterile porsi la questione nei termini di stare dentro o fuori dai social media. «Forse è più utile ragionare ed esprimersi in termini temporali. Si tratta di capire quanto tempo di vita (quanti tempi e quante vite) il capitale stia rubando anche e soprattutto di nascosto (perché tale furto è presentato come “natura delle cose”), diventare consapevoli delle varie forme di sfruttamento, e quindi lottare nel rapporto di produzione, nelle relazioni di potere, contestando gli assetti proprietari e la “naturalizzazione” dell’espropriazione, per rallentare i ritmi, interrompere lo sfruttamento, riconquistare pezzi di vita» (Wu Ming 1, Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple).