di Mauro Baldrati
Don Winslow, Il cartello, Einaudi Stile Libero 2015, pp 896, € 22
L’ha detto l’autore stesso, in uno dei suoi libri precedenti: gli americani sono i più grandi commercianti del mondo. Per loro tutto è commercio: se si vende l’antiamericanismo, il prodotto è già pronto. Se invece è il momento del patriottismo, eccolo. “Tira” la rivoluzione? Voilà, viva Che Guevara, Fidel Castro & C. Esiste un mercato per tutto lo scibile immaginabile, hippies, crimine, porno, corruzione, religione, peccato, speranza e disperazione. La casbah globalizzata offre tutto e il contrario di tutto, con qualunque stile, horror, commedia, azione.
Chissà se Don Winslow, autore di grande successo e talento, è consapevole, in qualche zona mimetica del suo inconscio, di questo retaggio ormai ancestrale che sembra guidare chiunque, dal centro dell’Impero, si occupi di storie, di narrazioni e intrattenimento. Compreso lui. Chissà se anche i beat, quelli “veri”, quelli sinceri e arrabbiati, sapevano di essere dei commercianti: di emarginazione, di desolazione e di tristezza. Chissà se Jim Morrison, quando cantava “Padre? Sì, figlio? Voglio ucciderti!” sapeva di vendere le zone oscure e l’insoddisfazione affettiva di una generazione.
Il cartello, l’ultimo romanzo di Don Winslow, pone molte domande. E’ un testo di grande respiro, che contiene una buona dose di epica, che da sempre è una delle mercanzie preferite degli americani. E non senza ragione: privi della chiusura psicologica e demoniaca del Medio Evo, privi della sublime civilizzazione dell’antichità, hanno corso come purosangue dopati per un paio di secoli per colonizzare uno dei paesi più grandi e più meravigliosi del mondo, ricco di risorse, di paesaggi, di territori generosi e inesplorati. Hanno sviluppato un’epica dominante, che continua a essere esposta in bella vista sui banchi della casbah globalizzata: il cow boy solitario, che passa attraverso tutti gli stadi della violenza, del dolore, dell’odio, della bassezza umana, e resta incorrotto, anche quando si corrompe e assume gli stessi comportamenti dei barbari assassini che combatte, talvolta fino all’estremo sacrificio.
Stiamo parlando proprio di Art Keller, l’eroe del libro. Eroe al 75 per cento circa, perché in alcune sezioni Il cartello è un testo policentrico, con personaggi di pesatura quasi uguale che si contendono l’empatia del lettore. Forse anche per questo James Ellroy, che sembra una sorta di sponsor di Winslow, ha coniato una delle sue boutades di abile venditore: “Il Guerra e pace della lotta alla droga”. Ora, lasciando perdere questa confusione tra sacro e profano (anche perché il sacro è morto da tempo, e dobbiamo per forza accontentarci del profano), lo “strillo” non è del tutto fuori luogo. Il ritmo è “alto”, gli eventi sono epocali, capitoli tragici di una grande, mostruosa guerra: i cartelli della droga messicani, i nuovi conglomerati del crimine totale, che controllano le polizie locali, i militari, ovviamente i politici, che lottano per il predominio del territori. Art Keller, agente della Dea piegato nell’animo da tutti gli orrori che è stato costretto non solo a vedere, ma a compiere, esce dal precedente Il potere del cane (2005) disilluso e a pezzi. Proprio come certi personaggi del filone americano del cinema, belli e perdenti, si è ritirato in un monastero ad allevare api, dopo avere finalmente rinchiuso in un penitenziario il patròn di uno dei cartelli vincenti, Adàn Barrera. Ma può un cow boy solitario essere lasciato in pace? Possono gli orrori del mondo ignorarlo? E soprattutto può sfuggire al suo destino? Ovviamente no. Le regole dell’epica moderna non possono permetterlo. Deve tornare in campo. Deve ricominciare a combattere. Deve terminare il suo percorso di discesa agli inferi.
E Winslow non ci va giù leggero, con le storie e col cosiddetto americanismo. La guerra alla droga non ha soluzione, perché esiste la domanda, enorme e insaziabile, per cui il problema non è “messicano”, ma “americano”. Finché i cittadini americani vorranno tirare coca, o fumare crack, ci sarà chi produce. E chi vende. Il commercio totale, appunto. Come spesso accade nei romanzi noir (o meglio, il nuovo genere adesso si chiama crime), il racconto ci spiega i meccanismi oscuri del crimine e della sua infiltrazione nelle cellule profonde del potere. Ci sono pagine terribili, non reticenti, sui comportamenti di Reagan, che movimentava tonnellate di coca per conto dei cartelli con gli aerei militari americani in cambio di fondi neri per armare i contras del Nicaragua. Oppure l’operato della CIA e delle forze speciali per organizzare il colpo di stato in Guatemala del 1954, uno dei più mostruosi della storia, perché il governo democraticamente eletto aveva osato nazionalizzare le infrastrutture e i giacimenti, sottraendoli al dominio dell’Impero. Poi, da vero americano, mantiene un filo, sottile, di etica, lungo il quale scivolano tra mille difficoltà gli operati di Keller e di qualche ufficiale messicano, che combattono da eroi la guerra ai narcos, ostacolati dagli alti papaveri e dai politici.
Si alternano le storie, i personaggi, tutti ben delineati, con una psicologia verosimile, speranze e tragedie, e pagine di orrori, crimini che ricordano l’operato delle SS Testa di Morto, le unità di sterminio dei nazisti. Talvolta il lettore stenta un po’ a credere a tanta violenza, ma Winslow sa quello che scrive, si sente che ha studiato in profondità il problema. D’altra parte il nostro redattore Fabrizio Lorusso, che vive in Messico, pubblica spesso dei reportages sulla corruzione del sistema messicano-americano, le decine di migliaia di morti, di desaparecidos, i prodotti di una ferocia senza limiti che riduce la terra una zona morta.
Questa deriva apocalittica viene resa con terribile realismo anche nel romanzo di Winslow: intere città desertificate dai narcos, che massacrano la popolazione, o la cacciano per insediare se stessi, trattenendo solo gli uomini validi e le donne giovani da ridurre in schiavitù. Ma qui non ci sono i bombardieri che esportano le bombe democratiche, non ci sono le alleanze anti-Isis. Il tutto avviene con la complicità dell’esercito e dei poliziotti, che addirittura lavorano per i cartelli come guardie del corpo o come killer.
In questa guerra eterna contro il Male Art Keller, e i suoi pard, operano in uno stato di semi-isolamento, con mezzi insufficienti, con scarse coperture, mentre il suo stato psicologico peggiora, per l’assassinio efferato di persone a lui care, persone innocenti, vittime di una violenza che non ha più nulla di umano.
Così prende una decisione, l’unica possibile in quella guerra già perduta: la sola opzione per interrompere la spirale di follia è smantellare i cartelli più estremi, gli sterminatori, favorendo il male minore: la vittoria finale proprio di Adàn Barrera, il suo nemico giurato, colui che nel libro precedente ha gettato due bambini da un ponte, dopo avere ucciso la loro madre; colui che fatto assassinare una ragazza che Keller amava, e torturato a morte un poliziotto che era come un fratello per lui. Deve annullare il suo giuramento di ucciderlo, a qualunque costo, visto che arrestarlo è inutile. Infatti in carcere viveva in una immensa suite, con le guardie del corpo, una palestra personale, una sala riunioni, televisori al plasma e le immancabili prostitute per le orge a base di coca. Finché non ha deciso che era arrivato il momento di evadere. Adàn Barrera è l’unico che può garantire la pax narcotica. Insomma, Keller deve vendere l’anima al diavolo. Perché anche questo può essere nel karma dell’eroe solitario: la propria rovina interiore, inevitabile nella lotta contro i demoni.
Il cartello si può definire l’ultima evoluzione del romanzo di genere, anche se ne conserva qualche difetto: la parte centrale è più lenta e descrittiva, ma si riprende nel blocco finale, in un crescendo di sangue, violenza e forme (molto americane) di romanticismo macabro.
Ma, va detto, il lettore dei testi di genere lo sa, lo mette in conto, e perdona con facilità, specialmente se ha per le mani un autore che, quando vuole, sa essere un fuoriclasse come Don Winslow.