di Valerio Evangelisti
Alessio Lega, Bakunin, il demone della rivolta, Elèuthera, 2015, pp. 194, € 14,00
Di cantautori che si rivelano eccellenti scrittori abbiamo diversi esempi. Il caso di Alessio Lega è però particolare. Artista che disdegna i palchi troppo illuminati, si è creato una solida fama tutta fondata sulla coerenza stilistica e di contenuti, e su un talento che nessuno oserebbe discutere. Il suo problema – per alcuni – è l’essere un convinto militante libertario, che in musica traduce le sue convinzioni senza attenuarle, o renderle potabili a un pubblico generico.
Eccolo dunque alle prese con Mikhail Bakunin (1814-1876), la sovversione fatta persona. In un testo che non è né romanzo né saggio. Piuttosto una via mediana, in cui non si inventa nulla, ma si tenta di fare emergere del personaggio quello spessore umano che la narrativa sottolineerebbe all’eccesso, e la storiografia detta “scientifica” trascurerebbe.
Operazione perfettamente riuscita a Lega. Bakunin esce dalla narrazione come un personaggio veramente gigantesco (fisicamente e moralmente), ricorrendo anche alle descrizioni che ne hanno lasciato vari testimoni, tra cui il ben più quieto Alexandr Herzen. Un rivoluzionario instancabile, perennemente in moto, grande tessitore di cospirazioni fallite e di tentativi organizzativi variamente efficaci. Con alcunché di bambinesco, ma anche di pienamente maturo nella sua passione sfrenata per la libertà sociale e la democrazia diretta. Non sarà lui a darne una forma teorica compiuta. Non è un Kropotkin: tra carcerazioni, fughe, barricate e complotti non avrà mai il tempo di concludere un saggio che esponga per filo e per segno il suo pensiero. Il segno c’è. Manca il filo.
Ciò lo distingue nettamente dal suo rivale in campo socialista, Karl Marx. Prima dubbio alleato, poi arcinemico. Esuberante, eccessivo in tutto Bakunin; schivo, studioso e di rigore quasi impiegatizio Marx. Viene alla mente il conflitto caratteriale che aveva opposto, molto tempo prima, Danton e Robespierre: lo smodato bon viveur e il mistico abatino della rivoluzione. Ma il paragone non può spingersi oltre: Bakunin non fu mai un corrotto, né Marx fu un sanguinario.
Forse è caratteristica ricorrente di ogni movimento rivoluzionario avere queste due anime: la irruente e passionale, e la riflessiva e analitica. Quando – è considerazione mia – si accordano si procede, quando confliggono si arretra. Fusioni perfette sono rare. Ho in mente il 1968 francese (e le lotte stupende che hanno luogo in Francia, in questi stessi giorni), il 1977 italiano. A metà dell’800 una sintesi era ancora lontana. Così Bakunin, che pur stimava Marx, lo accusò di mirare a un socialismo autoritario e statalista, da buon tedesco ed ebreo (il russo era dichiaratamente antisemita); mentre Marx, che per Bakunin non aveva stima alcuna, lo considerava un confusionario, fautore di una vaga palingenesi contadina.*
Lega non tace le enormi contraddizioni di Bakunin, e si sofferma senza remore sul caso più torbido della sua vita, il sinistro affare Nečaev. ** Tuttavia, giustamente, coglie in lui – il ribelle eterno, lo spiantato che quasi non conosce il valore del denaro e quando ne ha ne spreca, il gran mangiatore, fumatore, bevitore – l’anima eterna di ogni rivolta. Che non è rivoluzione, ma la precede e la scatena. E guai quando l’istinto rivoltoso sparisce dal moto rivoluzionario. Si apre il tempo dei burocrati, dei freddi architetti della “società perfetta”. Col rischio che sia anche peggiore della precedente.
L’aggettivo che Lega usa più spesso, a proposito di Bakunin, è “visionario”. Di solito è riferito ai poeti. E solo un poeta poteva scrivere un profilo così riuscito di un collega d’arte e maestro d’ideali.
* L’unico appunto che mi sentirei di muovere a Lega è l’avere attribuito al solo Marx il concetto di “dittatura del proletariato”. In realtà era comune a varie scuole socialiste del tempo, ben diverso dalla lettura che ne darà Lenin in Stato e rivoluzione.
** Chr. M. Confino, Il catechismo del rivoluzionario. Bakunin e l’affare Nečaev, Adelphi, 1976.