di Giovanni Iozzoli
C’è stata un’epoca, in questo paese, in cui per milioni di persone l’ingresso in fabbrica rappresentava anche un’esperienza di civilizzazione e cultura: si entrava in produzione analfabeti e se ne usciva cittadini consapevoli, grazie alla partecipazione di massa, alle grandi lotte, alle salette interne coi giornali, alle 150 ore o alla formazione sindacale. Era l’epoca folle in cui si pretendeva nientemeno che “far entrare la Costituzione nelle fabbriche”. In quei giorni lontani, il lavoro operaio, oltre che alienazione, non di rado produceva poeti, scrittori e musicisti – e la musica era il linguaggio perfetto per tenere insieme le antiche memorie contadine “preindustriali” con la dura realtà “metallica” delle catene di montaggio e degli scioperi.
Poi gli anni sono passati e le fabbriche (soprattutto quelle più scintillanti e tecno) sono tornate ad essere ciò che per cui sono state create: luoghi di sfruttamento e miseria, anche culturale. Sono quindi voci prepotentemente fuori dal coro, quelle di chi, a partire dalla propria soggettività operaia – dallo specifico cioè di una condizione oggettiva – continua a produrre cultura “altra”, ostinatamente nemica della narrazione dominante in cui la sottomissione operaia è giusta e naturale.
Un esempio di questa capacità di “contro-discorso” è la Banda Popolare dell’Emilia Rossa che, dall’esordio del 2011 ha rafforzato la sua proposta di ricca alternativa, con la sua musica e la sua persistente presenza nelle piazze, nelle manifestazioni e nelle feste politiche in mezza Italia. L’elemento di originalità della Banda è nella sua composizione: è “operaia” per davvero, la maggior parte dei membri sono uniti da vincoli di attivismo sindacale e da un ruolo di avanguardia nei propri stabilimenti; quando cantano di scioperi, stanno raccontando il loro vissuto quotidiano e la lotta di classe non è ideologia ma condizione quotidiana di dignità. Altro elemento, distintivo è il testardo ricollegamento alla storia sociale, letteraria, orale e musicale, del movimento operaio e bracciantile, una scelta che può apparire residuale solo agli ingenui: il terreno della memoria è così fondamentale, che la cultura “mainstream” ha mobilitato negli ultimi 30 anni enormi risorse per estirpare ogni testimonianza di resistenza popolare e demonizzare ogni velleità e ogni tentativo storico di costruire alternative di società. E a fianco della memoria irrompe, nella musica della BPER, l’urgenza del presente: è così che si passa dagli “ever-red” come Su comunisti della Capitale a un brano dedicato all’eccidio di Odessa alla Casa dei Sindacati, il caso di stragismo terrorista più rimosso nella storia recente. Un corto circuito sempre vivo tra passato e futuro, perché è solo l’impegno del presente che può tenere insieme le due dimensioni. E quindi un classico di Woody Guthrie, This land is my land, (nella sua versione non censurata), si accompagna ai canti dei lavoratori africani della Castelfrigo che esultano davanti ai cancelli per la conquista di un contratto dignitoso dopo giorni di scioperi e picchetti. E si parla di Vic Arrigoni e di rivoluzione palestinese, sulle note della musica ebraica klemzer – invocando l’Ittihad, l’unità di classe degli sfruttati contro ogni deriva etnico-confessionale. Bella e necessaria anche la risposta al vergognoso video-propaganda degli scagnozzi di Marchionne, che al ritmo di Be Happy ballavano sulle linee produttive di Melfi, pretendendo di spacciare l’immagine di una fabbrica dal volto umano, proprio là dove il livello di spremitura del lavoro operaio sta in realtà diventato insostenibile: “un pezzo, un culo” (una citazione da La Classe Operaia va in Paradiso) e un contro-ballo che evoca la rivolta e la dignità del lavoro vivo, contro la sua rappresentazione moderna, de-materializzata, neutrale, impalpabile e ballerina.
Cinque inediti e cinque rivisitazioni prestigiose che colpiscono per l’ormai raggiunta maturazione professionale del suono. La band che era partita (come naturale) da un livello amatoriale, si sta ormai consolidando come una realtà musicale di interessante livello – grazie anche a qualche saggio innesto professionale e a importanti collaborazioni (vedi Lucio Gaetani, tra i fondatori dei Modena City Ramblers).
Funky, blues, allusioni etniche e ballate tradizionali: tutto si tiene, nel dipanare un filo rosso che percorre ogni brano. Con durezza e verità, come ci si attende da un gruppo così, ogni nota lavora per il testo e ogni testo – che sia un classico o un inedito – cerca di colpire al cuore chi ascolta.
Il disco – Viva la lotta partigiana – è ovviamente autoprodotto. Una campagna crowfounding ha raggiunto in un paio di giorni l’obiettivo e adesso ogni ulteriore contributo servirà ad ampliare il raggio d’azione della band, che viene ormai chiamata a suonare dappertutto ma che è stata costretta, per ovvie ragioni logistiche ed economiche, a declinare qualche invito importante a cui, forse, ora, sarà possibile aderire (interessante anche il dato della campagna: la maggior parte dei soldi sono arrivati da colleghi di fabbrica e da reti sindacali, come a dire: un “disco operaio” a partire dai suoi finanziatori).
L’ascolto di questo disco rinnoverà in molti l’orgoglio di aver attraversato, nel passato e nel presente, quella cosa strana, contraddittoria e struggente che è stata la storia del movimento operaio: la sensazione di essere stati comunque – tra limiti, sconfitte ed errori – dalla “parte giusta” della storia, l’unica da cui ripartire per fare argine contro la barbarie avanzante.
Insomma, dalla Motor Valley italiana – tra Ferrari, Maserati, precariato sociale, prosciuttifici e Rsu – una proposta di cultura e musica di classe, popolare e sofisticata (e un tempo tutte queste cose riuscivamo a tenerle insieme), che sentiremo ancora per molto tempo nelle piazze di lotta di questo paese.
Questo è il link cui accedere per aderire alla campagna