di Alessandra Daniele
Diabolico, sarcastico, spietato pluriomicida e machiavellico tessitore di trame occulte, se l’agente dei Servizi deviati Filippo De Silva respira gas nervino, a restare avvelenato è il gas nervino.
Capace di sopravvivere a tutto, dai buchi di pallottola ai buchi di trama, Lazarus De Silva di Squadra Antimafia rinasce sempre dalle sue ceneri, ogni volta più letale e misterioso che mai.
Il più grande dei misteri però è come sia stato possibile che un personaggio così, un bastardo tanto ben riuscito sia nato in un contesto di solito così stagnante e perbenista come la fiction tv italiana.
Narrativamente più vitale delle serie connazionali per la sua parentela col cinema di genere, e in particolare col poliziottesco all’italiana anni ’70, Squadra Antimafia s’era già distinta per un’inedita sfida urban western al femminile fra la vicequestore Claudia Mares (Simona Cavallari) e l’aspirante capomafia Rosy Abate (Giulia Michelini) Filippo De Silva però, grazie anche all’eccezionale interpretazione di Paolo Pierobon, è di gran lunga l’elemento migliore della serie, dotato d’una straordinaria resilienza agli errori di sceneggiatura, oltre che il miglior personaggio originale che la fiction tv italiana abbia mai prodotto.
Complessivamente Squadra Antimafia rimane pur sempre un pulpettone poliziottesco che del cinema di genere ha anche tutti i difetti, inclusa la cagneria di qualche interprete. Squadra Antimafia è un ottimo esempio della legge di Sturgeon. Conoscere De Silva però vale la pena di sopportare anche le unità cinofile che a volte lo circondano, ci vuole pazienza, come direbbe lui stesso.
Non che lui ne abbia molta, però.
Di norma, Filippo De Silva non ha bisogno d’una ragione per ucciderti. Ha bisogno d’una ragione per non ucciderti.
Questa ragione di solito è che gli servi. E raramente dura più di qualche giorno.
De Silva però non è un killer professionista. È un professionista killer.
De Silva è il modo in cui lo Stato si serve della Mafia. Ed è il modo in cui i poteri occulti si servono dello Stato, e degli Stati.
Il modo in cui usano le guerre per fare affari, e gli affari per scatenare guerre.
De Silva è il king maker, il Rasputin degli zar criminali, il Magus, il Neuromante che tesse attorno a loro realtà fittizie che diventano reali, ma solo per poco.
Non a caso, il segnale del suo ennesimo ritorno dagli inferi è l’origami a forma d’unicorno di Blade Runner.
De Silva è l’affabulatore, il manipolatore, il persuasore che riesce anche a spacciare al povero vicequestore Calcaterra (Marco Bocci) la caduta del clan Mezzanotte per un “regalo d’addio”, quando non è che un’altra iterazione del suo consueto schema: affiancare un leader, servirsene, e in un modo o nell’altro guidarlo prima alla vetta, e poi alla rovina.
Che si tratti d’una cosca mafiosa come i Mezzanotte e i Ragno, o d’una loggia coperta come Crisalide, nessuna famiglia è più autorizzata a diventare egemone, ma solo a provarci. Perché è sul conflitto controllato che si basa il Sistema, non sull’ordine.
Esaurito il suo compito, ogni viceré deve passare mano. Bisogna che periodicamente tutto cambi perché tutto rimanga com’è.
Quindi Filippo De Silva costruisce universi che cadono a pezzi.
E li costruisce affinché cadano a pezzi.
Non importa quanto di tutto questo fosse nelle intenzioni originarie degli autori della serie, e quanto queste intenzioni saranno mantenute nelle prossime stagioni. Non importa se e quanto cercheranno di riscriverlo. De Silva è un genio che comunque non tornerà nella lampada.
“Ho smesso di giocare. Adesso faccio giocare gli altri. Una squadra contro l’altra. E loro giocano per me”.
Filippo De Silva, s2e07