di Valerio Cuccaroni
«Un libro su monsignor Romero? E perché? Perché a firma di una ex brigatista che non rinnega il suo passato, di una comunista che non prende con le pinze la parola, pur senza farsene scudo?» Con questa domanda inizia il saggio Oscar Arnulfo Romero, beato fra i poveri, a cura di Geraldina Colotti (Edizioni Clichy, 2015, pp. 144, € 7,00).
Le risposte possono essere almeno tre: la prima, data dalla stessa autrice, è poetica; un’altra, ricavabile dalla sua analisi, è politica; nella terza si intrecciano ragioni biografiche e geopolitiche. Innanzitutto, Colotti, giornalista del “manifesto” e direttora del Diplò italiano, considera Romero «una figura complessa, fragile e visionaria come i poeti e i profeti, capace di spingersi al limite» e lei ha «sempre avuto interesse – politico, professionale e letterario – per chi ha frequentato il limite: assumendolo, oltrepassandolo o sentendone la presenza come una ferita aperta».
L’arcivescovo Romero non ha realmente superato «il limite del ruolo e del dogma», ma lo ha «fortemente» interrogato: «nei suoi discorsi sulla necessità della violenza per difendersi dalla sopraffazione; nel suo rapporto con le organizzazioni popolari che porteranno alla nascita del Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martí; nelle denunce contro i responsabili della repressione, che gli costeranno la vita. Chi ha coscienza del limite, sa quel che lo aspetta: “La missione del profeta è terribile” ha scritto Romero “deve parlare anche quando sa che non lo ascoltano”». In queste parole è chiara la ragione politica che ha spinto Colotti a interrogarsi sulla vita e le opere di un religioso: la sua scelta “partigiana” di sostenere gli interessi della classe subalterna, a costo della propria vita.
In questo senso Romero può essere considerato un compagno, anche se «la religione è l’oppio dei popoli»? La realtà batte l’ideologia, o meglio la realtà della pratica include dialetticamente uno dei poli dell’ideologia, per cui la scelta supera le barriere ideologiche? No, allora come oggi, in campo restano due opzioni distinte: «l’opzione religiosa, salvifica e trascendente, e quella di classe, concreta, storica e poco rassicurante». Ma dal percorso di Romero emerge la drammatica inaggirabilità della «scelta, l’obbligo della scelta, quando la realtà ti chiama alla coerenza coi principi. La scelta e il peso di decidere anche per gli altri.»
Un religioso al servizio dei poveri e degli esclusi, per un verso, è un compagno di strada, dunque, ma, per l’altro verso, in chiave marxiana, resta uno spacciatore di oppio? Il contesto storico-sociale in cui predicò Romero era il Salvador della guerra civile e, soprattutto da un certo momento in poi, l’arcivescovo non elargì consolatorie teorie sulla vita ultraterrena, ma denunciò nelle sue omelie gli oppressori del popolo. E, il giorno prima di morire, il 24 marzo 1980, esortò addirittura i militari salvadoregni a disertare, piuttosto che uccidere i fratelli contadini.
Già nel suo libro Talpe a Caracas, in cui descriveva la rivoluzione bolivariana del Venezuela, Colotti era stata costretta ad affrontare la questione tutta sudamericana di un sincretismo rivoluzionario che adora, in moderni affreschi, il trittico Cristo, Che Guevara e Chavez.
Negli ultimi anni, la scrittrice-giornalista ha soggiornato a lungo in Venezuela e in Sudamerica, fondendo biografia e geopolitica alla ricerca del socialismo del XXI secolo. Con lo stesso sguardo, affronta il tema di questo nuovo saggio, e rileva: «Contro le piccole patrie xenofobe, si fa strada un bisogno di universalismo, che la Chiesa vuole colmare, “appropriandosi” della questione sociale: fino a convocare centri sociali e organizzazioni popolari, interrogando dal basso la legalità delle mani pulite, che uccide lasciandoti senza “casa, terra e lavoro” (tierra, trabajo y techo, le “tre T” di Bergoglio)». Perché si guarda oggi alla Chiesa, istituzione da sempre alleata dei poteri dominanti? Perché, dopo la caduta del campo socialista, «sacrificarsi per un’idea, per un progetto comune che richiede la messa fra parentesi dei progetti individuali» è «quasi una bestemmia, oggi, senza il guizzo salvifico della religione. Almeno avessimo profeti incompatibili con la melma imperante, capaci di trasmettere il fuoco dell’utopia». E dunque? «E dunque, Romero.»
Colotti apre il suo saggio con una biografia essenziale del «vescovo rosso», che riprende in seguito per sottolineare che dalle posizioni conservatrici dei primi anni ’70, in cui l’apostolato al servizio dei poveri di Romero è concepito per togliere argomenti al comunismo e alle «cristologie inneggianti alla rivoluzione, portatrici di odio», come sosteneva lui stesso. L’arcivescovo di San Salvador cambia posizione nel 1977, quando viene assassinato dal regime salvadoregno il suo amico gesuita, compagno dei poveri, Rutilio Grande. Da quel momento in poi, come documentano estratti di omelie e foto, nella terza parte del volume, si moltiplicano le denunce di Romero nei confronti della repressione del regime salvadoregno, sostenuto dalla Cia, fino a giustificare, a un mese dalla morte, l’uso della violenza, a fini insurrezionali: «Quando una dittatura lede gravemente i diritti umani e il bene comune della nazione – sosteneva Romero il 24 febbraio 1980 – ,quando si rende insopportabile e si chiudono i canali del dialogo, della comprensione, della razionalità, quando questo succede, allora la Chiesa parla del legittimo diritto alla violenza insurrezionale […] del diritto all’insurrezione, che la Chiesa ammette quando si sono esauriti tutti i mezzi pacifici». Un’opzione, questa della violenza insurrezionale, che Colotti ha praticato negli anni ’70 e ’80. E che non ha mai rinnegato.