di Gianfranco Marelli*
Jean-Marie Apostolidès, DEBORD. Le naufrageur, Flammarion, Paris 2015, p.592
Le biografie, si sa, sono appannaggio di illustri personaggi, e Guy Debord (1931 – 1994) – nel suo piccolo – ne ha meritata ben più d’una, anzi cinque. Quasi sempre, però, più che vere e proprie biografie sono state dei panegirici – unica eccezione quella di Christophe Boursellier, Vie et mort de Guy Debord (1999) – ad uso e consumo della sterminata orda di “pro-situs”, vale a dire i fans, i tifosi, gli imitatori delle gesta di quella che è stata da molti considerata l’ultima avanguardia politico/artistica della seconda metà del secolo scorso.
L’imponente lavoro di Jean-Marie Apostolidès – professore di letteratura francese all’università di Stanford, da sempre studioso appassionato del concetto di “spettacolo” e delle sue implicazioni politiche con la storia sociale , nonché autore di un precedente studio sul situazionista parigino (Les tombeaux de Guy Debord) – è tutto tranne che un monumento innalzato alla gloria e al coraggio di colui che comunemente viene considerato il profeta del Maggio francese, il “cardinale di Retz” della rivolta situazionista, l’intellettuale colto e raffinato che ha saputo interpretare meglio di qualunque altro la società del secondo dopoguerra, le sue contraddizioni ideologiche apparentemente antagoniste fra capitalismo diffuso (le democrazie occidentali) e capitalismo concentrato (l’Urss e gli stati ad essa satelliti), e le sue possibilità tecnologiche capaci di un radicale superamento dello stato di cose presenti.
Lo si comprende subito leggendo il sostantivo che accompagna il titolo dell’opera: Le naufrageur, traducibile soltanto con una proposizione relativa esplicita: chi provoca il naufragio. Debord, il “naufragatore”: colui che, di fronte a una tempesta di mare, volutamente con false indicazioni convince i passeggeri a dirigersi tutti da un lato mettendo in pericolo la stabilità dell’imbarcazione al punto da provocare il suo rovesciamento. Che dire di una simile impresa? Perfidia dell’autore del libro, o cinismo del suo protagonista principale?
In verità, dovremmo essere avvezzi ad un’interpretazione di tal fatta. Dopotutto lo stesso Debord ci ha abituati a considerarlo e raffigurarlo fra «i naufrageur che non scrivono il loro nome se non sull’acqua», come possiamo leggere nella sceneggiatura del suo ultimo film, In giro imus nocte et consumimur igni, proprio nei frames in cui racconta di sé e della sua amicizia con il situazionista Ivan Chtcheglov (alias Gilles Ivain, a cui per altro si deve uno dei primi studi psicogeografici di Parigi che consentiranno a Debord di precisare meglio il concetto, fondamentale per il pensiero situazionista, di “deriva”).
Pertanto se l’autore della “Società dello spettacolo” è un naufrageur, è per sua scelta. Del resto, uno dei suoi più cari e intimi amici, Asger Jorn, ne disegnò la celebre icona, quando di lui scrisse che se non può non essere conosciuto che come il Male, Debord è tuttavia mal connu. Ecco: il libro di Apostolidés toglie il velo maligno che avvolge la figura di Debord, ma non procede al fine di denigrarne l’immagine che il personaggio medesimo si è creato, quasi che l’intera sua opera non abbia avuto altro motivo se non quello di inventarsi quale mito maligno e pestifero che attacca dalle fondamenta la società dello spettacolo e trascina con sé nella lotta sino all’annientamento i suoi fedeli seguaci.
No, nel tratteggiare l’ “io-mitologico” che Debord inscenò nel corso dell’intera vita – sognando, di volta in volta, di poter essere un grande criminale à la Lacenaire, un imperatore folle come Nerone, un capo banda al pari di Fu Manchu, un agitatore rivoluzionario (naturalmente, lui stesso), un generale con l’acume di Clausewitz – Apostolidès minuziosamente ricompone i pezzi dello specchio in cui il parigino amava rimirarsi, offrendone un’immagine complessa, tutt’altro che monolitica, sicura di sé, delle sue idee, del suo destino; anzi, presentandocelo come un sognatore che insegue il suo sogno mitico fino alle estreme conseguenze, ne tratteggia i lineamenti di «un uomo fragile, più abile a dissimulare le proprie debolezze che a correggere i propri difetti».
Cosa rimane del “noto” situazionista? Molto di più di quanto siamo stati abituati a leggere, soprattutto il suo lato umano, troppo umano, se volessimo soltanto soffermarci all’aspetto che forse solleticherà il conoscere i gusti sessuali di Debord, delle sue mogli, delle sue amanti (e amanti delle mogli), e delle ambigue figure misogine partecipanti ai giochini erotici nelle vesti di marsupial (a voi scoprirlo con la lettura del libro). Ma non solo questo.
Debord – così come lo ricostruisce Apostolidés, basandosi anche su un’ampia documentazione inedita depositata presso l’Università di Yale – è soprattutto un homme de groupe, la cui singolarità s’incarna nell’azione collettiva, quasi che abbia bisogno di affermare un’esistenza collettiva per poter vivere la propria individualità. Ecco spiegarsi, fin da piccolo, l’esigenza di appartenere ad un insieme per ergersi suo protagonista indiscusso; in questa dialettica fra singolare e plurale si snoda la sua storia personale e quella dei gruppi che lo hanno visto artefice principale, ad incominciare dal gruppo familiare eteroclito, alla banda di giovinastri scapestrati, per poi passare al movimento situazionista, trasformato in una setta religiosa con tanto di dogmi e disciplina, che una volta dissoltasi verrà ricomposta in una nuova identità, l’orda pro-situs, le cui caratteristiche esacerberanno ancor più l’assoluta obbedienza ai voleri del capo, pena la morte civile nell’olimpo dei rivoluzionari.
Di questa ciclopica biografia, frutto di «quarant’anni di letture, dieci anni di ricerche, e tre anni di stesura», non si può certo sostenere che la figura di Guy Debord si staglierà nitida e maestosa come alcuni pretendono che sia, ed altri hanno cercato in tutti modi che fosse, vantando di esser stati stretti collaboratori del situazionista parigino. Non crediamo, però, che il compito prefissatosi dall’autore sia stato di distruggere l’immagine dell’individuo che più di ogni altro ha fatto della sua opera l’immagine di se stesso; piuttosto riteniamo che lo studio di Jean-Marie Apostolidès abbia messo in pratica quanto l’Internazionale lettrista, a firma anche di Guy Debord, scrisse nel 1952: «Crediamo che l’esercizio più urgente della libertà è la distruzione degli idoli, soprattutto quando loro stessi ci spronano alla libertà».
C’è riuscito, non c’è che dire.
*Gianfranco Marelli è l’autore di: L’amara vittoria del situazionismo, BFS 1996; L’ultima Internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica. Bollati Boringhieri 2000; della voce Internazionale Situazionista nel secondo volume di L’Altronovecento. Il sistema e i movimenti [Europa 1945 – 1989] ( a cura di Pier Paolo Poggio), Jaca Book 2011 e di Una bibita mescolata alla sete, BFS 2015