Dalle fessure del vagone abbiamo visto un nome: Treblinka. Il treno riduce la velocità. È un sollievo sapere che stiamo arrivando, che tra pochi istanti apriranno le porte ed entrerà una boccata d’aria. Qui si respira un’aria spessa come un brodo, acre, acre di escrementi e corpi sudici. Da molti giorni – quanti? – viviamo nella penombra. Irene mi dice che ha fame. Chi non ce l’ha? Sara non è con noi, nemmeno la mamma. Credo che siano state destinate a un altro treno. Spero che non ci separino. Il treno si ferma. I vagoni rimangono chiusi. Dalle fessure vedo pile di vestiti ammucchiati. È strano. E sarebbe strano se ti dicessi che quello che più desidero in questo istante – non ridere – è pisciare comodamente, il bacino in avanti, le braccia a giara con le mani appoggiate in vita. Conosci un modo migliore di pisciare, Isaac?
D’un tratto si aprono le porte con fragore, si sente gridare “fuori, fuori!”, e alcuni uomini con dei vestiti a strisce e fasce al braccio con la stella di David salgono e ci spingono, sussurrando, a voce molto bassa, parole incomprensibili:
“Nessuna giovane donna scenda con bambini in braccio”.
“Le donne incinte cerchino di nascondersi”.
E continuando a gridare:
“Fuori, fuori! Le valigie restano nei vagoni, lasciate tutto sul treno!” E spingono e spingono e sussurrano:
“Che nessuno si faccia vedere malato”.
E: “Muoversi, muoversi, più in fretta!” e nessuno capisce niente. Non ho mai sentito nulla di simile.
In ogni caso, sulle valigie sono verniciati i nostri nomi. Ce le consegneranno.
Adesso le grida sono assordanti. Gli uomini delle SS pullulano sul marciapiede, accompagnati da feroci cani alsaziani. Le famiglie sono state separate, i genitori, gridando, cercano i propri figli, la luce, dopo tanti giorni, ci acceca, le madri reclamano i loro figli.
“Jaime, Jaime!”
“Ruth! Dov’è Ruth! Dove ti portano, Ruth?”
“Abraham, Abraham, vieni qui! Non senti? Sei sordo?”
“Jaime! Ti sto chiamando!”
E la guardia urla e nessuno sa in che situazione ci troviamo, ecco, danno l’ordine di svestirsi.
Treblinka, Isaac, è una stazione ferroviaria. Ci sono diverse costruzioni in legno, una che sembra una cucina, laboratori. Si vede anche un ampio spiazzo dove vengono raccolti vestiti, scarpe, indumenti intimi, lenzuola, pennelli da barba e molte altre cose. Ci sono centinaia di uomini che li classificano e li suddividono.
Di fronte al marciapiede, le baracche. Una strada fiancheggiata da piante e persino da qualche fiore, come il sentiero di un giardino, muore all’altezza di quella che sembrerebbe una fabbrica.
E nel frattempo, Isaac, io sono nudo, me la faccio addosso per il freddo e non ho ancora pisciato.
Il mondo è qualcosa che non so molto bene cosa sia. Fito dice che ha un cugino a Buenos Aires che si chiama Pascualito, e che Buenos Aires ha una luce che sembra rossa. A volte noi la vediamo. Vediamo in cielo, da quella parte, la luce rossa che è Buenos Aires. Non è come una lampadina. No. È come una nuvola. La vediamo di notte. Buenos Aires è una nuvola rossa dove vive Pascualito. Mio fratello dice che quello che diciamo non è vero. Che quella nuvola viene da un palco di carnevale che, suppergiù, è a tre isolati più in là. Mio fratello dice che una sera di queste ci porta, me e Fito, a piedi, “per farci vedere”.
Buenos Aires è un palco di carnevale.
La mia mamma ha un mucchio di foto, grande così, in una scatola da scarpe. Le scatole servono per conservare le cose. Nelle scatole c’è di tutto. E la mia mamma, nella scatola da scarpe conserva le sue sorelle, la mamele, che è la mamma di lei, della mia mamma; e la mia mamma mi chiama e indicando con il dito dice: “Questa è Irene e questa è Anna, che ha due bambini” – ma nella foto non si vedono – “e che sono come voi”; e “perché non vengono?”; e la mia mamma, “e come fanno a venire?” Perché stanno in Polonia, che ha un colore che non so come sia. E la mia mamma, indicando col dito, dice: “E lei come si chiama?”; e io dico: “Irene”, e “Anna”, e “Rosa”, e a volte non lo so, perché sono tante.