di Dziga Cacace
Viviana Correddu, Il Gallo siamo noi, Chiarelettere, Milano 2015, 180 pagine, € 13
Era stato difficile spiegarlo agli amici che avevano alcune preclusioni ideologiche: dopo il mio primo incontro con Don Andrea Gallo, ero rimasto folgorato. Gli avevo fatto – oltre dieci anni fa – due interviste televisive: lui paziente, disponibile, seducente, arguto nella sintesi e decisamente simpatico. Ma erano stati l’atteggiamento e le parole a telecamera spenta a conquistarmi: un’umanità travolgente, una semplicità immediata, una bontà che dalle parole si faceva materia, che sentivi, vedevi, percepivi mentre incrociava i “suoi” ragazzi nella comunità di San Benedetto al Porto, a Genova, quando dava un parere o chiedeva semplicemente come andavano le cose. In quei due pomeriggi di incontro avevo potuto intuire quale carisma emanasse la sua figura e, se fossi credente, oggi, parlerei di Grazia.
Il suo impegno pubblico ultradecennale e le sue prese di posizione lo avevano reso – negli ultimi vent’anni di vita – anche un personaggio mediatico, ma era il lavoro con la gente – spesso invisibile, la gente e il lavoro – a renderlo unico. La sua non era un’impresa economica fondata sulla bontà retorica e troppe volte ambigua, no, era un impegno concreto, quotidiano, di fatica e di assistenza, a tanti che avevano bisogno, senza fare domande, senza giudicare sul perché fossero arrivati da lui.
Queste impressioni me le ha confermate la splendida testimonianza di una ragazza che dall’incontro con Don Gallo ha avuto una svolta esistenziale. Il Gallo siamo noi racconta di come si siano intersecate la vita di Viviana Correddu e quella dell’uomo che l’ha salvata dopo sette anni di eroina, ed è un racconto spontaneo, in realtà neanche pensato per trarne un libro, bensì come una sorta di debito da onorare verso se stessa, attraverso la parola terapeutica, e un omaggio a chi, come l’autrice, ha seguito un percorso simile al suo, incontrando il Don.
Viviana non è una scrittrice di professione (anche se cura un blog sul Fatto Quotidiano), fa un altro mestiere e ha sempre lasciato alla scrittura la possibilità di esprimere quello che a parole faceva fatica a uscire. Ha destinato i proventi del libro a quella che è diventata una delle sue famiglie, la comunità di San Benedetto, una comunità d’accoglienza, lontana da tanti modelli terapeutici coercitivi. Qui è fondamentale la responsabilità individuale: non si è controllati o rinchiusi e bisogna assumersi la responsabilità della propria condotta. Autodeterminazione è la parola chiave, che però non significa che non esistano regole, compiti, ruoli, cose da fare e da portare a termine, lavorando con e per gli altri. Viviana ha ritrovato a Sanbe – come la chiama affettuosamente – quella fiducia che non riusciva più a ottenere dopo sette anni in cui aveva mentito ad amici, a familiari e soprattutto a se stessa. Il racconto è vivo, vivace e doloroso, quotidiano e a tratti anche lirico – è una passione della Correddu, la poesia – ma soprattutto è un racconto vero: oggi è una donna serena, i suoi occhi chiari sono combattivi e speranzosi e c’è una storia da condividere.
L’autrice non intellettualizza, non si giustifica, non accusa. Non rinnega niente e se deve vergognarsi – afferma –, è con se stessa, non con altri. Si prende le sue responsabilità a ulteriore riprova del percorso intrapreso in comunità. È stata la “tossica, egoista, disperata e bugiarda” che ha scelto di vivere e lottare, e ce l’ha fatta. L’ho incontrata una fredda mattina di gennaio, sotto Palazzo Ducale a Genova, ed è una minuta gigantessa, con la schiettezza a volte ispida dei genovesi, ma anche la generosità di chi è passato attraverso la condivisione del dolore e della fatica di vivere, in un centro storico che – oggi come ieri – è crogiolo di diversità e difficoltà.
E poi c’è il ritratto di Andrea, che Viviana conosce quando è ormai sugli ottant’anni, ed è un ritratto che non troverete da altre parti: un genoano burbero e simpatico, “un vecchio rompipalle viziato”, perché viziato dai ragazzi della comunità, amatissimo e rispettato, capace di accogliere e ascoltare chiunque, aiutandolo e facendolo sentire qualcuno, importante, per sé e gli altri. E che non mancava di chiamare ragazze e ragazzi “i miei tossici di merda”, una definizione iperbolica che si poteva permettere.
Il Don Gallo col cappellaccio nero e il sigaro nella bocca sdentata che esce da queste pagine è lontano dai santini post mortem buoni per le t-shirt. È un uomo sanguigno e tenerissimo, istrionico e “puttana” (come si definiva) per raccogliere soldi e aiuto per i suoi ragazzi. Ed è un Don che parlava chiaro agli ospiti della comunità: non lesinava urlate e incazzature e non voleva mai darla vinta a nessuno, neanche alla malattia, chiedendo in uno dei suoi ultimi giorni del baccalà fritto di cui era umanamente goloso.
Prete di strada, partigiano, comunista, voce di chi voce non ne aveva. Uno che finiva la messa cantando Bella ciao, perché per lui la messa iniziava in quel momento, fuori dalle mura della chiesa fisica, in mezzo alla gente; una chiesa che era inclusione e compresenza, mezzo e non fine, in movimento, senza giudicare, dove avevano diritto di parola Moni Ovadia o Enzo Motta, lo straordinario protagonista de La bocca del lupo.
E quel suo modo di dire: “Poi fai come credi”, dando libertà ma chiedendo assunzione di responsabilità, come chiave per ritrovare un’esistenza dignitosa.
Ne Il Gallo siamo noi – oltre a una prefazione intensa di Vasco Rossi, amico del Don e della comunità – sono raccolte anche le testimonianze di altri ospiti di San Benedetto: altre storie, altri cammini e incontri. Persone che si sono ritrovate grazie a chi ha valorizzato la loro unicità, senza proclami o slogan per la rivoluzione futura, ma che lavorava oggi, qui, adesso, con gente in carne e ossa, finalmente restituita alla vita. E la religione pare sempre importare poco. Sicuramente non interessava a Don Gallo che accoglieva e discuteva volentieri con tutti – atei, fedeli o agnostici – facendo un discorso di umanità, mai di credo: “Tutti insieme, gomito a gomito”.