FRONTE-A-perdicuore_Bellanova-Bartolomeo-01-FILEminimizerdi Pina Piccolo

[Recensione e testi estratti del libro di Bartolomeo Bellanova, A perdicuore. Versi scomposti e liberati, Ed. David and Matthaus, 2015, € 12,90, pp. 86]

Da buon poeta consapevole della centralità del fare in poesia (parola che deriva appunto dal greco poiesis=  fare), nella sua ultima silloge Bartolomeo Bellanova parte esibendo al lettore i materiali di cui dispone per costruire. Nella poesia intitolata “Ho visto troppo” che apre la silloge “A perdicuore- versi scomposti e liberati” (ArteMuse, 2015) egli  ci lascia intravedere il materiale che sarà impiegato per impastare la sua arte: morte, denaro e amore, e rivela anche quale sarà il suo fare o non fare rispetto ad essi, cioè mette in campo da subito la propria soggettività ed azione. Non a caso, nella terzina d’apertura appare un Thanatos attualizzato nella sua  anonima molteplicità: Ho visto troppi morti con le facce tutte uguali/ raggrinzite e gialle / per preoccuparmi della morte/ ; en pendant nella quartina di chiusura, quasi per ad equilibrare il topos binario, compare e non compare  Eros, Ho visto troppo poco amore / seppellito da valanghe di melma inutile e invidiosa, / per non amare sempre con ogni cellula viva / e con ogni respiro strozzato/ strofa che con la sua reiterazione di un troppo mancante crea un gioco linguistico che indirizza chi legge  verso la determinazione/promessa dell’autore di non rinunciare alla ricerca, in prima persona, dell’amore (visto che manca), nonostante tutto. Infatti, è quasi con accanimento egli  promette di dedicare a tale missione  fin la parte più piccola di sé, la cellula.

Sebbene rieditati per suggerire l’attualità, Eros e Thanatos rimangono pur sempre tropi della tradizione, ma l’elemento innovativo di cui li infarcisce il poeta sta proprio nei versi di mezzo, in cui fa capolino per la prima volta l’elemento scatenante del caos, cioè il denaro: /Ho visto troppi padri e figli e amici e puttane/ giocarsi la vita per una pioggia acida di banconote/ usate / per occuparmi di soldi/. Forse seguendo la scia di questo importante ingrediente dell’impasto, il denaro, si può arrivare alle molteplici forme di squilibrio che il poeta presenta nei suoi versi, a diversi livelli e in diversi registri.

Se il plasmare suggerisce ordine, dobbiamo anche ricordarci che il titolo della silloge addita ben altro: cioè la scompostezza, la liberazione e un certo parossismo insito nel neologismo “perdicuore”  coniato sul termine perdifiato che suggerisce intensità, cioè quell’accanimento, di cui sopra,  una modalità da cui i poeti odierni in Italia sono solitamente avulsi.

Partendo da questa osservazione credo che valga la pena soffermarsi su un altro elemento che appare spesso nella raccolta in funzione metaforica e che credo sia strettamente legato al concetto di caos: il vento. Per integrare le attente analisi di Michela Zanarella [1] e William Piana [2] che in interviste e nella prefazione al libro si sono soffermati sul carattere di istantanea della sua poesia, la sua ipotetica appartenenza al filone di “poesia civile”,  la funzione della luna, spesso evocata nella raccolta, in questo breve saggio proporrei un approfondimento della funzione del vento nell’economia dell’opera.

Nella cosmogonia sumera, il vento “Enlil” è l’elemento che separa il cielo dalla terra e il Prologo di Gilgamesh e gli inferi [3] tratta di questo primo atto violento, di separazione,  che, dallo stato iniziale di immutabilità,  implica anche la creazione di qualcosa di nuovo, il moto e il mutamento.  Da questa prima accezione del vento come elemento di dinamismo, seguendo i sentieri del mito e della religione, si può arrivare per analogia al soffio vitale, al fiato, e da lì  alla parola creatrice il passo è breve e si ricongiunge al concetto di Verbo della tradizione ebraica.

Nella raccolta, la scompostezza, il dubbio, quel lieve movimento che suggerisce che l’essenza della cosa potrebbe non corrispondere esattamente alla sua immagine sono spesso metaforicamente introdotti da una folata di vento. In alcuni casi il vento non è menzionato direttamente; ad esempio ne “I pipistrelli e la luna” (p.12)  /Le foglie secche rotolano mulinelli sul cemento/e graffiano il cuore,/sbriciolano le certezze del nulla/ l’elemento primordiale di caos è presente in maniera sottaciuta, attraverso l’immagine del mulinello di foglie  sul cemento, che ricorda certe atmosfere montaliane. Mentre nella poesia “Il vento” (p. 14) l’elemento aereo dà addirittura il titolo alla composizione /Nello sciabordio del vento tra il fogliame scarmigliato/voci di passato pungono le guance come foglie secche/ e offre l’occasione per una meditazione sul passato, presente e il futuro.  Nella poesia “Fai piano luce” (p.17) il poeta esorta la luce a /…percuoterci piano con il vento di ghiaccio,/ spazza via il velo dai nostri occhi/ . Questa funzione chiarificatrice, quasi di purificazione, la si può ricollegare  a quello che lo stesso Bellanova in un’intervista alla rivista Margutte [4], definisce come essenza della poesia, “Percepisco la parola poetica come evoluzione lievitata attraverso le precedenti esperienze, come strumento di lettura di noi stessi e della realtà umana liberata dai pregiudizi e dai preconcetti dai quali è più difficile staccarsi narrando storie.”

Nelle poesie “I fiori di oleandro (p. 22) prevale la funzione scompositiva del vento, mentre in “Coccarde” (p.27)il poeta evoca il vento nella sua capacità dinamica e creatrice: il mulinello non è più quello un po’ minaccioso di foglie secche  che graffiano il cuore ma elemento necessario per costruire /…coccarde di colori e di fiato /da donare alle tue pupille di luce/.

Dopo aver riconosciuto la dimensione dissacrante del vento nella poesia “Cenere (p.36) /Vento irriverente che spettini la primula/ e insidi le sottane nere /(come non pensare al vento che soffiava  e scompigliava i cardinali seduti a piazza san Pietro  nel giorno in cui venne proclamato papa Benedetto XVI?), il poeta lo convoca come alleato, esortandolo a portarlo via “cellula dopo cellula” nelle esperienze avventurose  della vita, come pure nell’apprezzamento delle meraviglie meno eclatanti della natura (il verme che rompe il fango), di quelle più belle (lo sbocciare misericordioso della rosa). Chiede poi al vento di condividere la sua forza /Di ringhiare all’intolleranza saccente/ e di spalancare la porta cigolante della vita/ per finire con il vento compagno “crepitio e cenere”.

Sempre in vena dissacratoria, Bellanova rivolge le sue attenzioni a una delle vacche sacre della poesia italiana “L’infinito” di Leopardi, soffermandosi sul luogo fisico “compreso nel complesso immobiliare di proprietà della famiglia Leopardi a Recanati” (p.37). Si sostituisce, quindi, al Leopardi, identificandosi prima come capello solitario separatosi accidentalmente dai compagni poi come /… uomo solo, esile, /opaco grumo di bassezze e fegato/ slanci e salti/ ghiacciai eterni e cristalli/,  grugniti e porcili/ poi come /… rondine mai sola/ baffo portentoso di Monet /  Nella poesia di Leopardi il vento compare evocato esplicitamente a metà della composizione  /e come il vento/ odo stormir tra queste piante/ inducendo il poeta a una comparazione tra il suono provocato

 dall’azione del vento e l’assenza di suono del silenzio.  Anche nel componimento di Bellanova il vento appare a metà poesia, ma in maniera sinestetica, diventa lo spiffero di cielo sul collo che si trasforma in io narrante e, a differenza del dolce naufragare di Leopardi  nelle immensità spazio-temporali , lo trasporta verso le  considerazioni più amare della conclusione infarcite di termini presi in prestito da diverse liriche leopardiane e “scompigliate” a seconda necessità /all’uomo assorbito dal mio vagito/ rallento il cammino /nel labirinto sconosciuto della morte/.

La presenza del vento affiora con costanza nei componimenti, fino al termine della raccolta, talvolta perfino con nome specifico come il maestrale, ad esempio in “Olio blu” (39), e altre in accezioni più indistinte , ma sempre in funzione di scomposizione, come in “Sbuffi di galassia” (p.40) /Gli aghi di pini rattoppano i brandelli di azzurro/ scuciti dal vento/. Nella stessa poesia , il vento terrestre e il vento del fiato del corridore a un tratto, in un momento di grazia,  quasi come in varco montaliano incontrano il fiato della galassia, /L’orizzonte avaro apre i cancelli agli sbuffi di fiato/ della galassia, che avanzano sospirando verso di me./   / Spalanco le braccia / S’apre la vita./.  Nell’ultimo componimento della silloge, il vento si è trasformato ne “L’alito dell’Ade” (p. 64) e l’universo prova pietà  per /… i nostri cuori screpolati,/ marciti, vuoti, smarriti, intirizziti, sfregiati/,  interrati ancora pulsanti/ sotto le maschere del vivere nostro/, il sole accorre per alleviare la sofferenza con un suo raggio, ma incontra la resistenza  del fiotto della città morta e finisce per arrendersi, sdegnato.  Sebbene la raccolta poetica si chiuda su questa immagine disperata, nel discorso complessivo del poeta mi pare che esistano ancora dei margini di speranza, da ricercare, naturalmente nell’amore E’ sempre il vento, l’elemento dinamico che preannuncia il mutamento. Ciò accade ad esempio, con il ritorno del mattino dopo una notte insonne, nella poesia “Stelle”  (p. 60), in cui il poeta si attacca “ alle mascelle ossute del vento” e dopo una vana lotta  cercando di cadere nelle braccia di Morfeo, si ritrova nelle braccia del mattino /Amore i tuoi brillanti annunciano alfine il mattino/ mi accendono con la luce di quelle stelle cadute!/. Un promettente uscire a rivedere le stelle, al termine del purgatorio, guidato da Amore che move il sole e l’altre stelle.

Ho visto troppo

Ho visto troppi morti con le facce tutte uguali

raggrinzite e gialle

per preoccuparmi della morte.

 

Ho visto troppi padri e figli e amici e puttane

giocarsi la vita per una pioggia acida di banconote usate

per occuparmi di soldi.

 

Ho visto troppo poco amore,

seppellito da valanghe di melma inutile e invidiosa,

per non amare sempre con ogni cellula viva

e con ogni respiro strozzato.

 

I pipistrelli e la luna

Oh luna alta a tappo del nero inchiostro,

un boscaiolo gigante ti ha tranciato uno spicchio

e ora sanguini polvere di nebulose.

 

In faccia a te pipistrelli danzano,

hanno lasciato le caverne umide

dove guardano il mondo a testa in giù.

 

E’ più chiaro a loro il nostro destino

che a noi a testa alta e vana,

ricolmi di sguardi inutili e vuoti.

 

Le foglie secche rotolano mulinelli sul cemento

e graffiano il cuore,

sbriciolano le certezze del nulla.

 

Scrostano via l’estate

divorata quanto attesa;

bramata stagione di lieta inquietudine.

 

Fai piano

Fai piano luce,

fai piano a percuoterci col vento di ghiaccio,

spazza via il velo dai nostri occhi.

 

Ci ritroviamo nudi,

davanti alle lampade di una vetrina.

 

Manichini pietrificati dalla loro vanità senza fondo

ci mettono in guardia: non li possiamo sentire.

 

Le parole rimbalzano sorde sul vetro.

 

Il cuore è un campanaccio scosso dal freddo.

 

La vita e la morte s’accapigliano tra le pieghe del cappotto.

 

Cenere

Vento irriverente che spettini la primula

e insidi le sottane nere,

verginali turbamenti di monache,

portami via cellula dopo cellula.

 

Che possa abbracciare i poli e l’equatore,

che possa sorridere al verme che rompe il fango,

all’elefante che perdona ma non dimentica,

alla gazzella, cuore che salta nella polvere.

E sopra ad ogni cosa allo sbocciare misericordioso della rosa.

 

Dammi la forza di ringhiare all’intolleranza saccente

e di spalancare la porta cigolante della vita:

spazio finito, tempo di uno starnuto dell’universo.

 

Mentre dormo vegetando i giorni si allunga la mia collana

dei sogni inanellati l’uno nell’altro e poi nel prossimo,

senza risveglio apparente.

 

L’ultimo si spegnerà nella cenere, crepitio e cenere.

Solo la mia e la tua cenere confuse

terranno viva la fiamma ancora.

 

La siepe dell’Infinito [5]

Sono un capello solo, un capello antico,

esile,  luce nel tuorlo d’uovo del sole.

Eterno ondeggiare, ho smarrito il padrone

e i fratelli miei in corsa,

tra gli schiamazzi usati.

Dormo sul gelsomino in amore,

mi solletico sulla siepe dell’Infinito,

verde decomposizione.

 

Sono un uomo solo, esile,

opaco grumo di bassezze e fegato,

slanci e salti,

ghiacciai eterni e cristalli,

grugniti e porcili.

Eterno sopravvivere a un padrone invisibile,

dai mille nomi e dai mille travestimenti.

Mi lascio cullare dal nulla che va

e dal nulla che viene

attraverso la siepe dell’Infinito.

 

Sono una rondine mai sola,

baffo portentoso di Monet [6],

spiffero di cielo nel collo.

Pennello col cuore pazzo

le promesse d’amore eterno,

indifferente all’ingratitudine umana.

Vivo senza attendere la vita,

sospesa in alto sul muro

di pietre e lucertole dell’Infinito.

Non mi giovo del mio volare,

ma all’uomo assorbito dal mio vagito

rallento il cammino

nel labirinto sconosciuto della morte.

 

Sbuffi di galassia 

Se ne va la terra a galleggiare nell’infinito.

Se ne va l’uomo a fischiettare fuori di sé l’anima lieve.

 

La strada per il sole è lastricata

da cento orgasmi taciuti e intimi.

 

Gli aghi dei pini rattoppano i brandelli di azzurro

scuciti dal vento.

Ne fanno pigiami per le nubi sognatrici.

 

Incessanti, forsennati cadono gli aghi sfiniti

ai miei piedi veloci.

 

Le chiome delle felci aspergono l’ossigeno nel sangue

e spumeggia il passo lento.

 

L’orizzonte avaro apre i cancelli agli sbuffi di fiato

della galassia, che avanzano sospirando verso di me.

 

Spalanco le braccia

S’apre la vita.

 

L’alito dell’Ade

Si chiudono le porte della città dei morti.

 

Milioni di aliti insonni vagano per i campi,

inciampano nei fili d’erba,

si appigliano ai rami nudi

di un inverno latitante.

 

Fluiscono i sospiri dal regno dell’Ade tutt’attorno,

senza sosta e cancellano il tempo;

quanti abitanti mormorano laggiù.

 

Ammantano ipnotici le forme delle colline,

ne tagliano ogni curva

e riempiono le fosse

solo strati piani di verde

uniforme e infreddolito.

 

Le parole e le lacrime liberate da sotto terra

si condensano in gocce di latte.

Sono i dolori per i nostri cuori screpolati,

marciti, vuoti, smarriti, intirizziti, sfregiati,

interrati ancora pulsanti

sotto le maschere del vivere nostro.

 

Due raggi di sole inteneriti

provano a sciabolare luce,

luce sciancata, accieca per un istante

l’occhio ingrigito.

 

Presto si riaddensa imperturbabile

il fiotto dalla città morta.

Il sole indietreggia

si alza sdegnato per l’esilio forzato

e rinuncia alla lotta.

 

 

Stelle

Mi attacco alle mascelle ossute del vento.

 

La notte è un guscio di buio e ululati lontani,

polvere di foglie,  chele di ragno

e cristalli d’ali di mosca.

 

Letto sospeso tra le ondate degli spifferi

tremano i piedi di legno marciti.

 

Forte è il soffio che schioda dalla volta celeste

le stelle una a una

e precipita giù il diadema

Apocalisse,  Vergine, Regina.

 

Baritono, fiamma,

colonna d’aria ritorta,

mantice dalle viscere,

soffi e ti cali,

riprendi e ti gonfi.

 

Arresa è l’insonnia che trema.

 

Amore i tuoi  brillanti annunciano alfine il mattino;

mi accendono con la luce di quelle stelle cadute.

 

NOTE

[1] Zanarella, Michela,  Prefazione, A perdicuore –Versi scomposti e liberati, ArteMusa 2015, pp. 7-9; “Intervista di Michela Zanarella a Bartolomeo Bellanova”, oubliettemagazine, 24 novembre 2015 http://oubliettemagazine.com/2015/11/24/intervista-di-michela-zanarella-a-bartolomeo-bellanova-autore-di-a-perdicuore-versi-scomposti-e-liberati/.

[2] Piana, William, “Immersi nel mondo “A perdicuore”, Radio Città Fujiko, 8 ottobre 2015 http://www.radiocittafujiko.it/eventi/immersi-nel-mondo-a-perdicuore.

[3] Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Mitologia_sumera

[4] Margutte, “Il mondo del possibile, 30 dicembre 2014, http://www.margutte.com/?p=8763

[5] La siepe e il muro fanno riferimento al luogo fisico compreso nel complesso immobiliare di proprietà della famiglia Leopardi a Recanati.

[6] Claude Monet noto pittore francese (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 6 dicembre 1926), padre dell’impressionismo.

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