di Luca Cangianti
Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, “crisi secolari” ed euro, Imprimatur, 2015, pp. 254, € 16,00
La figura geometrica che rappresenta meglio lo sviluppo del modo di produzione capitalistico è la spirale: una sequenza di cerchi che si allargano e collassano ciclicamente, per riprendere poi il proprio movimento da un nuovo punto d’inizio. Domenico Moro, nel saggio Globalizzazione e decadenza industriale, illustra con chiarezza la causa di tali movimenti, sia sul piano alto e modellistico della critica dell’economia politica marxiana, che su quello empirico delle cronache economiche e politiche contemporanee.
Uno dei temi principali del libro riguarda la perdita di capacità produttiva subita dall’Italia. Nel periodo 2007-2014 nel nostro paese gli investimenti fissi lordi in valore reale sono diminuiti del 30,4% a fronte del 12,3% nell’Unione europea. Ciò tuttavia non va considerato un fallimento del sistema, mera decadenza industriale, ma una “riorganizzazione complessiva dell’economia e della struttura delle imprese italiane, in quanto necessario adattamento alla nuova fase di accumulazione caratterizzata dalla globalizzazione e dallo stato endemico di sovrapproduzione in cui versa il capitale.” In sostanza, le perdite dell’Italia non sono frutto di scelte sbagliate di avidi operatori economici, né dell’inefficienza e corruzione di un ceto politico-amministrativo che avrebbe impedito l’adeguamento del paese al nuovo contesto internazionale. Il rallentamento economico del nostro paese rispetto ad altre zone industrializzate è il risultato dell’applicazione profonda e tempestiva di strategie neoliberiste utili a contrastare la caduta del saggio di profitto che misura il ritorno del capitale investito.
Di contro all’incapacità di spiegare teoricamente la crisi da parte delle scuole economiche convenzionali che individuano cause sempre diverse e contingenti (prezzo del petrolio, eventi bellici, speculazioni di ogni sorta), Moro trova più convincente l’approccio monistico marxiano e impiega la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, e specialmente le sue cause antagonistiche, come griglia analitica. Consistendo il saggio di profitto nel rapporto tra plusvalore (numeratore) e capitale investito in macchine e salariati (denominatore), l’aumento costante di questo capitale anticipato nella dinamica di sviluppo del capitalismo comporta il ridursi del tasso. Ciò, tuttavia, non consente d’immaginare nessuna forma d’implosione del modo di produzione dominante. La caduta del saggio di profitto è infatti contrastata da altri fattori: l’aumento del grado di sfruttamento della forza-lavoro, la riduzione del salario al di sotto del suo valore, la svalorizzazione delle macchine e delle materie prime, l’aumento dell’offerta di forza-lavoro sul mercato, la crescita del capitale azionario (che può sfuggire al livellamento del saggio medio di profitto) e infine lo sviluppo del commercio estero. Quest’ultimo è uno dei fattori più importanti, comportando migliori economie di scala, la vendita delle merci a prezzi di produzione superiori al loro valore e il drenaggio di quote di plusvalore dalle economie meno sviluppate verso quelle più sviluppate.
Non a caso negli ultimi anni le istituzioni europee hanno agevolato in tutti i modi l’esportazione di capitale e di merci mediante la contrazione dei costi di produzione. Gli investimenti diretti esteri (ide) in uscita dall’Italia sono passati dall’1,6% del pil nel 1980 al 28,9% del 2013. Inoltre tra il 1990 e il 2013 la crescita annua degli ide italiani è stata del 22,4% in confronto al 19,8% dell’Eurozona. Tale dinamica sottrae all’economia nazionale risorse per l’occupazione e gli investimenti generando recessione. Sul versante delle esportazioni di merci è vero che l’Italia ha perso delle quote relative sul mercato mondiale passando dal 3,9% del 2003 al 2,8% del 2014, tuttavia l’incidenza delle esportazioni sul pil è in crescita e la competitività internazionale del nostro paese nel periodo 2010-2014 è stata superiore ai livelli del 2007-2008 precedenti alla crisi. Il calo delle esportazioni insomma va messo in relazione con la sovraccumulazione di capitale ormai presente anche nelle aree periferiche del globo grazie all’affluenza di investimenti diretti esteri.
La recessione permanente in questo modo diventa strumento di gestione della crisi: “il capitale, in questa fase storica del suo sviluppo, non ha interesse né alla crescita né alla piena occupazione e, essendo il mercato globale, non ha neanche un interesse particolare al mercato nazionale.” Questo significa che piuttosto che di decadenza industriale in Italia si deve parlare di decadimento sociale per tutti quei settori, e sono la maggioranza, esclusi dai benefici del nuovo assetto economico: salariati pubblici e privati, piccola e media impresa, grandi imprese non inserite nelle catene transnazionali del valore o nei monopoli. Tra i vincitori invece abbiamo il grande capitale globalizzato che controlla i settori dell’economia italiana capaci di esportare, le élite professionali tecnico-scientifiche e manageriali collegate a questi comparti, e in generale chi riesce a vendere sul mercato competenze adeguate a un contesto più tecnologico e internazionalizzato. Insomma, conclude l’autore, “Ciò a cui si assiste è il rialzo dei profitti del vertice capitalistico, sempre più integrato con il capitale internazionale, al prezzo del peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte della società e della stagnazione di lunga durata dell’economia”.
Secondo Moro a fronte di una situazione che spontaneamente tende verso una recessione permanente, nuovi investimenti che rilancino lo sviluppo e la produzione di beni e servizi socialmente utili (ma non necessariamente profittevoli) possono provenire solo da un’organizzazione statuale sottratta ai vincoli sovrannazionali di bilancio e di gestione della moneta unica. Tuttavia parlare oggi di uno stato “espressione degli interessi della collettività” che non sia “un organismo separato e contrapposto a essa” è un obiettivo di natura titanica, impensabile se non con l’emergere in Europa di una forte conflittualità sociale in congiunzione con uno dei momenti di collasso ciclico della spirale capitalistica.