di Gioacchino Toni
Demetrio Paparoni, Il bello, il buono e il cattivo. Come la politica ha condizionato l’arte negli ultimi cento anni, Ponte alle Grazie, Milano, 2014, 417 pagine, € 26,00
“Non ci convinceranno a mangiare il pasticcio putrefatto di carne umana che ci offrono”. Così si esprime Hugo Ball riferendosi alla Prima guerra mondiale nell’ambito della rivolta dada contro il potere e l’arte che ne ha tessuto le lodi. Al di là del riferimento specifico alla carneficina bellica, l’affermazione si presta ad una riflessione più generale circa il rapporto tra arte e potere. Quante volte gli artisti si sono accomodati a mangiare, o anche solo, più discretamente, ad assaggiare, il pasticcio putrefatto offerto dal potere? Quante altre volte sono stati obbligati a farlo? In quanti casi l’arte si è rivelata complice delle maggiori nefandezze dei dominanti? La questione del rapporto tra arte e potere è vecchia quanto il mondo e se si pensa che, fino ad epoche relativamente recenti, gli artisti hanno quasi sempre lavorato su commissione, non è difficile immaginare come un certo grado di asservimento sia risultato quasi inevitabile. Certo, non sono mancate le eccezioni, o i casi in cui, persino nelle opere celebrative, sono stati inseriti elementi di critica sfruttando la natura polisemica del linguaggio artistico. Se da una parte non mancano esempi di artisti in grado di insinuare dissenso, non mancano nemmeno casi in cui, invece, anche all’interno degli ambiti artistici più innovativi dal punto di vista formale, si rilevano elementi di contiguità col potere. Questa ultima casistica viene affrontata, ad esempio, da Jean Clair, nel suo testo La responsabilité de l’artiste, Gallimard 1997 (La responsabilità dell’artista, Allemandi, 1997) ove l’autore sfata il mito dell’artista ribelle e dell’avanguardia come arte all’opposizione, rivelandone complicità, più o meno consapevoli, con il potere. Nell’ambito di tali ragionamenti si inserisce il saggio di Demetrio Paparoni che, prendendo in considerazione il periodo che va dall’inizio del Novecento fino ad oggi, si propone di indagare come la politica condizioni la vita e la produzione degli artisti.
Trattandosi di indagare il rapporto tra politica ed arte, inevitabilmente una parte rilevante della trattazione è dedicata ai totalitarismi novecenteschi a partire da come il linguaggio neoclassico si riveli il modello di riferimento tanto per l’arte propagandistica sovietica di matrice realista, quanto per l’arte nazista. Sono, ad esempio, numerose le opere che celebrano Lenin e Stalin derivate dall’esaltazione neoclassica di Napoleone operata da artisti come Jacques-Louis David ed evidenti sono, nella stessa propaganda nazionalsocialista, i riferimenti neoclassici; si pensi, ad esempio, alla statuaria di Arno Breker ed alle opere cinematografiche di Leni Riefenstahl. “Ad accomunare l’arte gradita ai dittatori è l’idea dell’opera totale, dell’opera cioè che si identifica con l’intero contesto in cui è inserita. Muovendo dal presupposto che all’interno del regime tutto debba mirare al consolidamento di un progetto che si riconosce nel pensiero unico di chi governa, le dittature hanno considerato le arti strumenti al servizio del potere o dell’ideologia dominante” (pp. 18-19).
Il saggio ricostruisce la politica artistica attuata dal regime hitleriano a partire dal divieto di esposizione per le opere d’avanguardia e dalla regolamentazione della critica d’arte obbligata a sostituire le valutazioni artistiche con resoconti descrittivi delle opere. Il rifiuto per l’arte d’avanguardia non porta certo ad un realismo crudo, tanto che la poetica della “fotografia esatta” di August Sander, testimone della realtà delle cose, viene risolutamente censurata; l’arte nazionalsocialista mira piuttosto a forme di realismo idealizzato ed il Neoclassicismo, da questo punto di vista, diviene inevitabilmente il linguaggio da cui attingere. Nel 1937 a Monaco vengono allestite, pressoché contemporaneamente, due grandi esposizioni: la mostra relativa all’Arte Degenerata e la Grande Rassegna di Arte Germanica. Nella prima esposizione, vietata ai minorenni, vengono raccolte più di seicento opere appartenenti ai principali movimenti artistici del primo Novecento e messe a confronto con disegni realizzati dai “malati di mente” al fine di mostrare le analogie. Non manca nemmeno l’intento di dimostrare che dietro all’arte degenerata si celi un grande complotto giudaico-comunista. Soltanto una parte delle opere esposte viene distrutta; i lavori più importanti vengono invece venduti all’asta a Lucerna consentendo al regime di ricavare una cifra considerevole. Ad essere mandate al rogo nel falò di Berlino del 1939 sono infatti soprattutto le opere prive di mercato internazionale.
Nel saggio viene menzionato l’insolito caso di Emil Nolde, pittore che resta fedele agli ideali nazionalsocialisti anche quando la sua produzione espressionista viene accusata di essere arte degenerata. All’ostracismo del regime nei confronti della produzione pittorica di un artista di fede nazista, fa da contraltare l’apprezzamento estetico da parte di chi “si è opposto con energia al nazismo, o lo ha subito” (p. 371), tanto che Paparoni sottolinea come “nel valutarne i dipinti e gli acquerelli si è tracciata una linea di demarcazione tra la sua arte e le sue scelte etico-politiche”.
Sicuramente al servizio del Terzo Reich è Arno Breker, celebre soprattutto per le monumentali statue realizzate per il cortile d’onore del Palazzo della Cancelleria, volte a rappresentare l’ideale ariano di bellezza. Paparoni segnala diversi punti di contatto, dal punto di vista estetico e formale, tra le opere dello scultore tedesco e quelle realizzate in Unione Sovietica da Vera Mukhina. Entrambi si confrontano con la rappresentazione della “forma umana idealizzata dai rispettivi regimi” (p. 97), naturalmente le differenti visioni ideologiche si fanno sentire: nel caso sovietico, ad essere celebrata attraverso i robusti corpi è la classe operaia ed il suo duro lavoro nei campi e nelle fabbriche, mentre nel caso nazionalsocialista i possenti corpi intendono esaltare la perfezione ariana. Breker pare davvero incarnare l’ideale estetico dei totalitarismi visto che riceve proposte di lavoro da Franco, da Stalin che, addirittura, al termine della guerra, lo invita a trasferirsi in Unione Sovietica ed, ancora, nel 1971 viene chiamato da Hassan II, re del Marocco, per la realizzazione di una statua equestre in onore del padre.
Nel 1941, in occasione di un’imponente mostra di Breker a Berlino, vengono invitati a presenziare diversi artisti di fama mondiale provenienti da Parigi, tra questi i pittori Maurice Vlaminck ed André Derain. Le foto della loro partenza dalla Gare de l’Est parigina insieme agli ufficiali della Wehrmacht e della successiva visita ai principali musei tedeschi, sono sfruttate ad arte dal Governo tedesco e, di pari passo, l’accusa di collaborazionismo non tarda ad arrivare nei confronti di quanti si sono prestati alla macchina della propaganda nazista.
Risulta difficile convenire con Paparoni nel suo sminuire la portata del lavoro di Leni Riefenstahl. Nel saggio, al fine di ribaltare la testi di chi vede la grandezza della cineasta oscurata dalla sua fede nazista, si sostiene che, al contrario, nella sua produzione non sono ravvisabili valori artistici e che la sua notorietà è conseguenza “dell’enorme macchina propagandistica messa in moto dal regime per sostenerla” (p. 75). Pare limitativo affermare, come fa l’autore, che le sue opere non abbiano inciso sul cinema del dopoguerra; sono diversi gli esempi hollywoodiani da cui emergono riferimenti alle opere della cineasta tedesca. Lo studioso paragona la produzione di Rodčenko con quella della Riefenstahl sostenendo che la grandezza del primo è dovuta alla sua finalità di “dare vita a un linguaggio nuovo per scompigliare le carte” (p. 84), mentre la produzione della seconda si limita a voler “mettere ogni cosa al suo posto” (p. 84). Continuando col confronto, Paparoni sostiene che per quanto “le immagini dei ginnasti o delle parate militari di Riefenstahl e quelle di Rodčenko sembrano in alcuni casi assomigliarsi, esse rispondono a valori estetici diametralmente opposti” (p. 84). Non si vede perché questo confronto tra poetiche dovrebbe obbligatoriamente voler dire grandezza di uno ed, addirittura, inconsistenza dell’altra; non per forza un’estetica volta “all’ordine” deve essere sintomo di mancanza di valore estetico e di inferiorità rispetto ad un’estetica volta a “scompaginare le carte”. Tante volte il pendolo della storia dell’arte ha oscillato tra ordine e disordine, tra classicismo ed anticlassicismo, alternando momenti di innovazione radicale a ritorni all’ordine ma, non per questo, esteticamente parlando, al di là delle inevitabili preferenze personali, un’opzione deve per forza di cose negare valore all’altra. Nel suo stroncare la cineasta tedesca, Paparoni premette di esprimere un parere meramente estetico affrancandosi da ogni pregiudizio ideologico-politico, nella convinzione che si debbano analizzare le “qualità formali dell’opera al di là del fatto che essa promuova valori negativi o positivi” (p. 75). A supporto di tale impostazione l’autore cita l’esempio di come si possa tranquillamente attribuire un giudizio positivo all’opera di Nolde a prescindere dall’ideologia filonazista del pittore. Nonostante la premessa, resta l’impressione che comunque, nel caso della Riefenstahl, il pregiudizio ideologico continui ad incidere sul giudizio estetico. [Sull’argomento si rimanda allo scritto “Estetiche del potere. Sport e propaganda. Olympia di Leni Riefensthal” pubblicato su Carmilla]
Il passato nazionalsocialista continua a pesare sulla produzione artistica tedesca contemporanea e sul dibattito che ne scaturisce. A tal proposito, Paparoni, dedica spazio anche ad Anselm Kiefer, artista intento ad indagare l’identità problematica del popolo tedesco attraverso un viaggio a ritroso nella cultura germanica, tra i suoi miti ed eroi tradizionali, senza tralasciare l’universo nazionalsocialista, nella convinzione che non si possa tacere su nessuna parte del passato. Sull’operato dell’artista, quando tocca tali questioni, sostiene lo studioso, si scatenano inevitabilmente polemiche, così come “ogni qualvolta si torna ad analizzare le relazioni fra la Storia del popolo tedesco, il Romanticismo e la cultura espressa dal nazionalsocialismo” (p. 136). In particolare nel saggio vengono affrontate le polemiche suscitate in Germania dalla mostra, a cui prende parte lo stesso Kiefer, “De l’Allemagne, 1800-1939. De Friedrich à Beckmann”, tenuta a Parigi, al Louvre, nel 2013.
Se in ambito tedesco il passato nazista ha continuato ad essere problematizzato a livello culturale fino ai giorni nostri, in ambito italiano i conti col passato fascista per certi versi sono stati più all’insegna della rimozione; il più delle volte si è preferito non affrontare la questione, soprattutto evitando di interrogarsi circa gli elementi di continuità della politica culturale del dopoguerra con quella del regime. In ambito artistico si è preferito limitarsi a condannare all’oblio gli artisti maggiormente compromessi col fascismo e con essi la loro produzione. Soltanto sul finire degli anni ’70 in Italia cade il più o meno tacito ostracismo nei confronti di artisti direttamente legati al regime, come Sironi, e ciò avviene quando si afferma una generazione di giovani artisti che decide di attingere dal linguaggio artistico del passato ed, in particolare, dalle proposte del primo Novecento.
Nella Russia della Rivoluzione, l’ampia libertà espressiva goduta dagli artisti si interrompe soprattutto a partire dalla metà degli anni ’30, quando il Realismo socialista conquista il monopolio della scena obbligando di fatto l’arte ad esprimere “verità oggettive” contro ogni “soggettivismo”. L’arte d’avanguardia viene accusata di “formalismo”; il suo interesse per la forma e per il linguaggio viene ritenuto in contrasto con la “funzione rivoluzionaria dell’arte”. Anche negli anni della destalinizzazione di Chruščëv, la posizione ufficiale nei confronti dell’arte non cambia; viene infatti ribadito che “la vocazione delle arti sovietiche deve riflettere con sincerità la vita, ispirare il popolo nella costruzione del comunismo e instillare negli uomini i sentimenti più belli ed elevati e un profondo senso della bellezza”(pp. 169-171). Paparoni sottolinea come, paradossalmente, gli artisti sovietici che, dagli anni ’70, si sono trasferiti in Occidente per poter realizzare opere sperimentali, si sono trovati proiettati in un contesto in cui l’avanguardia pare avere perso la sua carica innovatrice e trasgressiva. Soltanto con la fine dell’Unione Sovietica il Realismo socialista cessa di essere imposto quale unica modalità artistica ma la produzione culturale russa si trova a fare i conti con una Chiesa ortodossa particolarmente attiva nella sua battaglia contro tutte le manifestazioni artistiche, e non, considerate blasfeme o contro la morale. Celebre l’attacco, nel 2003, di un commando di attivisti cristiani ortodossi, poi prosciolti da un tribunale evidentemente asservito all’asse di potere politico-clericale che domina il paese, ad una mostra moscovita incentrata sul ruolo dei simboli religiosi nella società contemporanea votata al consumismo. A proposito dell’attuale situazione russa, scrive Paparoni: “Questi fatti sembrano dimostrare che per via dei condizionamenti della Chiesa ortodossa sulla politica, e della politica sull’arte, in Russia l’avanguardia ha ragione di continuare a esistere. Lo testimonia l’inquietudine trasgressiva e iconoclasta serpeggiante, la voglia di rivalsa degli artisti su un sistema che una volta imponeva il Realismo socialista e che oggi impone dietro pressioni della Chiesa ortodossa regole considerate repressive” (p. 181).
Il saggio dedica uno spazio importante anche al burrascoso rapporto tra arte e potere politico nella Cina contemporanea, per certi versi la situazione cinese non è così differente da quella russa. Confrontando tutto ciò con quanto avviene negli Stati uniti od in Europa, l’autore sottolinea che mentre in Russia ed in Cina le azioni provocatorie degli artisti tendono ad avere, il più delle volte, finalità di denuncia sociale o politica, in Occidente, invece, si ricorre frequentemente allo scandalo come stratagemma per conquistare l’attenzione ed accrescere la fama ed il successo economico.
Il ruolo della politica nel panorama artistico occidentale è analizzato dal testo soprattutto in riferimento alla situazione nordamericana negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso. Sin da inizio Novecento, in ambito statunitense, il governo ed influenti fondazioni private comprendono l’importanza di una politica culturale volta a definire e celebrare l’identità culturale del paese anche se permane il timore, da parte dei settori più conservatori, ben da prima del maccartismo, di trovarsi di fronte ad un ambiente culturale profondamente segnato da infiltrazioni comuniste. La caccia alle streghe guidata da McCarthy porta ad un vero e proprio ostracismo nei confronti dell’arte europea d’avanguardia, accusata di contenere “il germe della sovversione”. A tal proposito, il senatore repubblicano del Missouri, George Dondero, nel 1949, intervenendo al Congresso, così si esprime: “dadaismo, futurismo, costruttivismo, suprematismo, cubismo, espressionismo, surrealismo e astrattismo. Tutti questi ‘ismi’ sono di origine straniera e non dovrebbero davvero trovare posto nell’arte americana. Sebbene non tutti siano mezzi di protesta sociale o politica, sono però tutti strumenti e armi di distruzione. (…) Il Cubismo mira a distruggere attraverso il disordine progettato. Il Futurismo mira a distruggere attraverso il mito della macchina (…) Il Dadaismo mira a distruggere attraverso il ridicolo. L’Espressionismo mira a distruggere scimmiottando il primitivo e il folle (…) L’Astrattismo mira a distruggere suscitando accessi di follia. Il Surrealismo mira a distruggere negando la ragione (…) Gli artisti degli ‘ismi’ cambiano la propria designazione con la stessa rapidità e prontezza delle organizzazioni del fronte comunista” (p. 42). Da qui la necessità di sostenere un’arte sinceramente americana, non influenzata dalla produzione europea. Nel saggio, oltre ad essere sottolineato come il discorso del senatore del Missouri ricalchi le tesi sull’arte degenerata espresse dal nazionalsocialismo, viene evidenziata anche la contraddittorietà statunitense nel suo volere da una parte una sorta di arte autoctona, valorizzante l’identità nazionale, mentre dall’altra, al fine di legittimare a livello mondiale una produzione artistica di un paese “culturalmente giovane”, auspica l’arrivo negli Stati uniti di opere europee al fine di mostrare come le due tradizioni siano accomunate da un “unico destino culturale”. L’arte europea viene ad essere da una parte rifiutata in quanto portatrice del germe sovversivo e dall’altra ritenuta necessaria al fine di legittimare quella nordamericana. Sul finire degli anni ’40, l’offensiva repressiva si concentra soprattutto sull’industria cinematografica hollywoodiana, ritenuta, per la sua capacità di raggiungere un pubblico vasto, ben più pericolosa rispetto all’ambito strettamente artistico.
Paparoni ricostruisce come il passaggio del testimone, non certo volontario, dalla Francia agli Stati uniti, per quanto riguarda la scena artistica occidentale, avvenga grazie alla coeva politica egemonica statunitense del dopoguerra. In particolare viene affrontato il rapporto arte/politica a proposito dell’arte astratta americana che, secondo Kozloff, viene utilizzata agevolmente dalla propaganda proprio perché apparentemente priva di contenuti espliciti o definiti. Inoltre, in quanto privo di contenuti narrativi, l’Espressionismo astratto, secondo Paparoni, può essere investito da un forte supporto teorico. Resta da verificare, secondo l’autore, l’incidenza della politica statunitense del dopoguerra a livello di ricaduta estetica sulle opere del periodo.
Se è pur vero che il bacino d’utenza delle mostre dell’Espressionismo astratto è tutto sommato risibile al fine di incidere sull’immaginario popolare americano ed internazionale, le ingenti cifre investite direttamente dalla Cia al fine di sostenere il movimento fanno pensare ad un obiettivo di più lunga prospettiva: esporre in Europa le opere dell’Espressionismo astratto americano significa prima di tutto agire sulla formazione e sulle preferenze culturali dei giovani europei. Nel primo dopoguerra, continua lo studioso, gli Stati uniti lavorano sulla capacità dell’arte di creare ed imporre nuovi modelli estetici affiancando il Piano Marshall nel suo obiettivo di colonizzazione europea.
Avvicinandoci ai giorni nostri, contestualmente alla rivoluzione telematica, sostiene l’autore, buona parte dell’arte occidentale pare aver rinunciato alla tensione etica che invece ha caratterizzato le avanguardie del passato, di queste l’arte più recente pare aver mantenuto i linguaggi ma non l’impianto ideologico. “Questo significa che l’artista contemporaneo non riesce a proporre un sistema linguistico che abbia l’ambizione di cambiare la società, preferendo concentrarsi su come far proprie le strategie di consenso e le logiche del profitto che costituiscono l’ossatura di quello stesso sistema borghese cui le avanguardie storiche erano ostili” (p. 12). L’attualità, pertanto, risulta dominata da quell’ideologia di mercato che si propone come pensiero unico e, sostiene Paparoni, “creare le proprie opere rimanendo indifferente alle logiche di mercato diviene così per l’artista una sorta di impegno socio-politico, sia che egli faccia arte per l’arte, sia che consideri il proprio lavoro filosofia politica, sia che affronti temi esistenziali o puramente linguistici. Nel nuovo millennio, l’impossibilità di rimanere estranei alle logiche generate dall’ideologia di mercato dell’era post-ideologica pone nuove questioni etiche cui l’artista non si può sottrarre, come non vi si può sottrarre la critica che, laddove svolga il ruolo di cassa di risonanza delle esigenze del mercato nega il suo ruolo, che è quello di far riflettere sul valore estetico e sociale dell’arte” (p. 374). L’atto d’accusa nei confronti dell’arte contemporanea ha sicuramente ragion d’essere ma senza dimenticare che anche nelle avanguardie del passato non sono mancati casi in cui al linguaggio eversivo non ha corrisposto una sostanza ed una volontà di critica altrettanto radicale, con diversi artisti volti più alla ricerca del successo e del profitto che non a fustigare il potere.
Tornando alle parole del tedesco Hugo Ball citate in apertura, non sono pochi gli artisti che, nel corso dei secoli, si sono accomodati ad assaggiare il pasticcio putrefatto offerto dal potere, sicuramente in diversi casi sono stati costretti a farlo, in altri si sono rivelati complici delle peggiori nefandezze dei dominanti ma non mancano nemmeno casi in cui, in punta di piedi o in maniera eclatante, l’arte ha avuto il coraggio di rifiutarsi, di contrastare e di denunciare. Come sempre, ad ognuno il compito di scegliere da che parte stare.