di Raùl Zecca Castel
[Ecco la seconda parte del saggio, a questo link trovi la prima che è uscita su Carmilla il 3 febbraio]
2 – Sesso è genere
La speculazione circa le questioni di genere portate avanti e dal movimento femminista e, più in generale, da quello LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender) muove, secondo la tesi che qui si vuole sostenere, da una formulazione concettuale di genere quale costruzione socio-culturale che, paradossalmente, mina il principio stesso che si vorrebbe riconosciuto. Elaborare una nozione di genere in opposizione a quella di sesso anatomico e conferirle uno status privilegiato rispetto al quale interrogarsi circa il valore culturale di tale dimensione sovrastrutturale al fine di rendere conto della variabilità e della pluralità delle concezioni ad esso connesse, non evita infatti, ed anzi accentua, una distinzione dalla presunta natura oggettiva del sesso, nel senso che, riconoscendo tale differenza, si riconosce allo stesso tempo anche l’esistenza di un dato fisiologico per così dire puro, a partire dal quale viene poi costruito il genere.
Viene accettato, così facendo, un fondamento biologico delle differenze di genere. Ma la biologia non precede affatto e dunque non fonda il genere: il sesso è già parte del genere. Possiamo affermare, non troppo provocatoriamente, che è il genere a produrre il sesso. In questo senso, come sostiene J. Scott, “non possiamo vedere le differenze sessuali se non in funzione della nostra conoscenza del corpo e tale conoscenza non è ‘pura’, non può essere isolata dalla sua implicazione in un’ampia gamma di contesti discorsivi”[1]. Ma tale visione performativa del genere implica di per sé che l’idea fuorviante del genere quale concetto separato dal sesso sia già stata superata, abolendone la differenza.
Ciò che si vuole mettere in discussione, dunque, è la presunzione di oggettività della natura umana, ed in particolare del sesso, per rivelarne invece il carattere di costruzione culturale. Sulla scorta delle intuizioni di Derrida e riferendosi al genere, sempre J. Scott ha reso manifesto il principio per il quale tutto ciò che è stato costruito può essere decostruito[2], introducendo così nel discorso un elemento fortemente destabilizzante come quello del mutamento. Di contro, infatti, sostenere che la differenza tra uomini e donne risiede nella differenza fisiologica del sesso, dunque in una differenza generalmente assunta come fissa e stabile non può che condurre ad un’epistemologia immutabile. Tale lavoro decostruzionista, dunque, non va limitato al solo genere, ma deve estendersi al sesso, proprio perché quest’ultimo non rappresenta una soluzione di continuità con il genere. Solo in questo modo se ne potrà svelare la natura artificiale. Si tratta, qui, dello stesso impegno archeologico o genealogico che dir si voglia iniziato da Nietzsche e ripreso da Foucault, mediato, certamente, da gnoseologie fenomenologiche ed ermeneutiche.
L’importanza di non limitare la critica al solo determinismo biologico estendendola invece anche al cosiddetto fondamentalismo biologico sta nel fatto che, diversamente, si correrebbe il rischio di cadere nel paradosso del differenzialismo: una teoria difficilmente riconducibile ad altro che non sia una forma di razzismo debiologicizzato, o, per dirla con Étienne Balibar, di razzismo culturale. In questo caso razzismo di genere; irrimediabilmente sessismo. Secondo i differenzialisti, infatti, sono le differenze sessuali, non esclusivamente anatomiche, ma anche genetiche, tra uomo e donna, a determinare differenze attitudinali e comportamentali. Di qui a postulare l’inferiorità femminile rispetto a quella maschile il passo è molto breve. Nondimeno, la teoria differenzialista è stata rivisitata anche in chiave femminista. Luce Irigaray, esponente di spicco del femminismo della differenza, in polemica con Simone De Beauvoir, ha inteso forzare l’assunto differenzialista dell’incommensurabilità sessuale che separa la presunta natura femminile da quella maschile per rivendicarne un’identità autonoma e allo stesso tempo contrapposta a quella maschile. Una lettura positiva del differenzialismo dunque.
Tuttavia, come ha avuto modo di far notare Linda Nicholson, tale femminismo della differenza, parallelamente, non può configurarsi altrimenti che nei termini di un femminismo dell’uniformità, dal momento che sostenere la radicale diversità tra uomini e donne implica in via preliminare l’assunzione di una precisa identità femminile nella quale identificarsi. Di qui le critiche a tale corrente da parte di donne di colore, lesbiche o appartenenti a classi sociali subalterne, diverse dunque da coloro che sostenevano le posizioni differenzialiste: donne bianche, eterosessuali e borghesi[3]. Anche approcci come quelli di Robin Morgan, che si esprimono in favore del costruzionismo sociale, in opposizione dunque alla tesi del determinismo biologico, in realtà gli si avvicinano molto nel momento in cui affermano che le caratteristiche del corpo femminile suscitano risposte simili in diversi contesti culturali[4]. Parimenti, anche la posizione di Janice Raymond è in pericoloso bilico verso una concezione deterministica della biologia quando afferma che sono i genitali a costituire l’ultima soglia ineludibile per quanto riguarda le risposte sociali[5]. Ancora Gayle Rubin, malgrado riconosca che “the idea that man and women are more different from one another than either is from anything else must come from somewhere other than nature”[6], nella sua celebre definizione di sex/gender system, è riscontrabile l’assunto principe del fondamentalismo biologico, ovvero quello per cui è pur sempre a partire dalle differenze anatomiche che si elaborano i diversi concetti di genere. Scrive difatti Rubin che tale sistema consiste in “a set of arrangements by which the biological raw material of human sex and procreation is shaped by human, social intervention and satisfied in a conventional manner”[7], dando così origine al genere. Ma questa non è che la concezione che Nicholson ha efficacemente definito come attaccapanni: “il corpo viene cioè considerato come un tipo di attaccapanni sul quale vengono gettati o sovrapposti i diversi manufatti culturali, in particolare quelli della personalità e del comportamento”[8].
Il contributo teorico di Rubin, nondimeno, ponendo come questione capitale per il discorso circa il suddetto sistema sesso/genere l’interrogazione relativa alla natura e alla genesi dello stato di subalternità della donna, assume una valenza politica di grande importanza. Per quanto la sua speculazione resti legata agli assunti del fondamentalismo biologico (il dato anatomico non viene messo in discussione), ella individua uno stretto nesso di carattere squisitamente ideologico tra quella che è l’identità di genere e l’identità sessuale, riconoscendo come la prima trovi la sua giustificazione etica nell’essere funzionale alla seconda. Un nesso ideologico che dunque nulla ha a che vedere con la natura, ma che, al contrario, risulta frutto di convenzioni deliberatamente istituite al fine di regolamentare convenienti processi normativi come quelli del matrimonio eterosessuale e della procreazione, tesi a garantire un ordine sociale facilmente governabile poiché gerarchicamente strutturato.
Circa l’origine di tale gerarchia, che vede la donna in una condizione di inferiorità rispetto all’uomo, Rubin nota come sia Marx che Engels avessero ravvisato nella donna uno strumento tanto invisibile quanto utile per il sistema di produzione capitalistico, ma nessuno dei due si fosse poi preoccupato di approfondire l’indagine al fine di spiegare perché proprio la donna avesse finito con l’essere relegata all’ambito domestico e non invece l’uomo. Di qui, secondo Rubin, la proposta di interpretare la divisione del lavoro in base al sesso quale tabù: “a taboo against the sameness of men and women, a taboo dividing the sexes into two mutually exclusive categories, a taboo which exacerbates the biological differences between the sexes and thereby creates gender […] enjoing heterosexual marriage”[9]. È così che maschi e femmine verrebbero trasformati in uomini e donne, consumando il pregiudizio di una realtà fisica dicotomica. A tal proposito, Rubin prosegue la sua riflessione avanzando l’idea che la psicoanalisi, benché scienza strumentale all’ideologia di genere dominante, sia da considerarsi come una teoria femminista mancata[10]. Questo perché riconosce nei primi anni di vita dell’essere umano, fino al sorgere del complesso di Edipo nel maschio e del complesso di Elettra nella femmina, una tendenza naturale alla bisessualità. A tal proposito si ricordi la celebre definizione freudiana del bambino come perverso polimorfo. Tuttavia, successivamente alla fase edipica avverrebbe da parte del bambino la definitiva presa di posizione rispetto all’identità di genere; presa di posizione dettata certamente dalle risposte culturali che i genitori e la società forniscono ai continui quesiti del bambino, ma che, secondo Freud, fa riferimento ad una differenza anatomica ineludibile tra i due sessi. Di qui l’accusa di essere un sostenitore del determinismo biologico.
Per ovviare a tale impasse, Rubin ricorre alla rilettura lacaniana del complesso edipico, ponendo così l’accento sul carattere simbolico-linguistico dei concetti che lo riguardano. Lungo tale linea interpretativa, le ossessioni infantili circa l’invidia e la castrazione del pene si rivelano problemi simbolici che hanno a che fare con i significati culturali che quest’ultimo riveste per la società e non con desideri ed angosce puramente sessuali. Per questo motivo Lacan preferisce parlare di fallo piuttosto che di pene: per evitare un termine dal forte connotato anatomico. Sulla scorta della declinazione simbolica attuata da Lacan rispetto al complesso edipico così come era stato formulato da Freud, Rubin è così ora in grado di mostrare il carattere di costruzione sociale del genere. Ma tale espediente linguistico del passaggio dal pene al fallo, in fondo, realizza uno slittamento simbolico che per quanto non sia da considerarsi esclusivamente linguistico, resta ad ogni modo lontano dal mutare la concezione psicoanalitica della famiglia tesa a consolidare l’idea di un nucleo elementare di potere costituito da una coppia eterosessuale. Ciò perché il concetto di desiderio, sia in Freud che in Lacan, resta legato al pregiudizio classico che lo associa alla mancanza. Si desidera ciò che non si ha; poco importa poi se si tratta del pene o del fallo.
In opposizione a tale visione negativa del desiderio come mancanza di origine platonica, Deleuze e Guattari ne hanno proposto una concezione costruttivista, intesa nei termini di un delirio positivo[11]: “poiché desiderare significa in un certo modo delirare. Se si prende un qualsiasi delirio, lo si guarda e lo si ascolta da vicino, ci si accorge che non ha niente a che vedere con ciò che ne pensa la psicanalisi, non si delira sul padre o la madre, ma su tutt’altro […] Il delirio è geografico-politico, mentre la psicoanalisi lo riconduce alle determinazioni familiari […] Si delira sul mondo, non sulla propria famiglia”[12]. La cosiddetta schizoanalisi si assume così il compito di introdurre finalmente nel discorso la dimensione della Storia, quell’elemento sociale e politico – o, meglio ancora, cosmico – che la psicoanalisi ha sempre trascurato a favore dei fantasmi psichici individuali[13]. Un’omissione che, secondo gli autori de L’Anti-Edipo, pesa sul pensiero psicoanalitico come un fortissimo atto d’accusa che ne denuncia la natura strumentale all’ideologia oppressiva borghese. Edipo è la colonizzazione proseguita con altri mezzi, scrivono Deleuze e Guattari. Colonizzazione dell’inconscio, s’intende – ma non solo -, da parte di quello che Foucault, negli stessi anni, formula nei termini di bio-potere; un potere non più da intendersi quale esercizio di una forza politica egemone localizzata in precisati e riconoscibili centri istituzionali di irradiamento, quanto piuttosto come relazione, come insieme di rapporti di forza che si esprimono, soprattutto, nelle diverse pratiche discorsive, nel forme del sapere; ad esempio nel sapere medico e scientifico in generale, così come in quello psicanalitico.
In questo senso, proprio rispetto al discorso sul corpo e sul sesso, Foucault riscontra come già a partire dal XVIII secolo, in Occidente, si sia verificato un cambiamento di approccio culturale-politico al tema generale della sessualità. Da una situazione di estremo puritanesimo per la quale tutto ciò che aveva anche lontanamente a che fare con il sesso era bandito dal dibattito pubblico si passò ad una incitazione al discorso, a una volontà di sapere. Attraverso un minuzioso lavoro persuasivo si pretese e si ordinò che del sesso si parlasse di più e con sempre maggior precisione. Pretese ed ordini, secondo Foucault, che trovavano un’efficace precedente nella pratica religiosa della confessione. Ma la rilevanza di tale mutamento discorsivo non fu semplicemente quantitativa bensì qualitativa. Si iniziò a trattare di sesso da un punto di vista tecnico-scientifico e non più volgare; “non tanto sotto la forma di una teoria generale della sessualità, ma sotto quella di analisi, di contabilità, di classificazione e di specificazione”[14]. Il sesso divenne così una questione di polizia; “polizia del sesso: il che non vuol dire rigore di una proibizione, ma necessità di regolare il sesso attraverso discorsi utili e pubblici”[15].
Discorsi la cui utilità e pubblicità devono però essere indagate, al fine di svelarne il movente ideologico. Di qui il valore, per dirla con Nietzsche, inattuale, poiché sempre attuale, dell’invito metodologico di Foucault che esorta a non smettere mai di interrogarsi archeologicamente sul perché dei presunti fatti o dati storici, ed in particolare, in questo caso a “prendere in considerazione il fatto stesso che se ne parla, chi ne parla, i luoghi ed i punti di vista da cui se ne parla, le istituzioni che incitano a parlarne, che accumulano e diffondono quel che se ne dice […] L’importante sarà ancora sapere sotto quali forme, attraverso quali canali, insinuandosi in quali discorsi il potere arriva fino ai comportamenti più minuti e più individuali”[16]. Questo perché un’ipotesi inquietante giace sullo sfondo di tali produzioni discorsive. A ragione, dunque, si domanda Foucault se “questa trasposizione in discorso del sesso non potrebbe essere finalizzata al compito di scacciare dalla realtà le forme di sessualità che non sono subordinate alla rigida economia della riproduzione […] Non sono questi [controlli pedagogici, cure mediche, saperi in generale] altrettanti mezzi messi in opera per riassorbire, a profitto di una sessualità centrata sulla genitalità, tanti piaceri senza frutto? […]; insomma organizzare una sessualità economicamente utile e politicamente conservatrice?”[17].
Il discorso sul corpo e sul sesso viene così a configurarsi quale dispositivo regolamentatore: non si tratta esplicitamente di proibire o reprimere, quanto piuttosto di analizzare, razionalizzare, medicalizzare, normalizzare; una tecnologia del sesso quale più generale disciplina dei corpi molto più complessa e positiva del semplice effetto di un divieto. Se da un lato agisce come dispositivo di controllo e di disciplinamento, dall’altro costituisce infatti la forza generatrice della sessualità stessa: una sessualità, finalmente, che “non deve essere considerata come una specie di dato naturale”[18], ma come frutto di una produzione discorsiva, vera e propria rappresentazione culturale; meglio ancora, costruzione culturale.
Alla luce delle sottili trame che i saperi e i poteri intessono rispetto alla concezione del corpo e del sesso, il lavoro di decostruzione della loro presunta datità risulta complicato e apparentemente innaturale, poiché in ogni nostro tentativo di volgerci al passato, alle origini delle cose, è sempre in opera la retroflessione delle pratiche di vita[19] che ci costituiscono e nelle quali siamo irrimediabilmente compromessi. Pratiche di vita che inevitabilmente condizionano e formano il nostro pensare. È così che ogni sforzo gnoseologico compiuto in direzione del passato è per sua natura destinato al fallimento. Tuttavia, un fallimento per certi versi vantaggioso, poiché, lungi dall’informarci circa ciò di cui si era alla ricerca, ci informa proprio sul nostro essere nel mondo, sulla nostra cultura; semplicemente, ci in-forma. È il paradosso della catastrofe auto-bio-grafica, per dirla con Carlo Sini.
Ma per riprendere le fila del discorso qui d’interesse e giungere a una quanto mai provvisoria conclusione è necessario allora ribadire che per quanto sia certo che in tutte le società è riscontrabile come le differenze anatomiche apportino un’influenza e un condizionamento alle concezioni relative al genere, è altrettanto vero il contrario, vale a dire che tali identità di genere, a loro volta, influenzano e condizionano le differenze sessuali, plasmandone retroattivamente la presunta natura e oggettività. Lungo questa prospettiva, come sostiene Nicholson, “è necessario capire le variazioni sociali della distinzione maschio-femmina in relazione a variazioni che vanno ‘fino in fondo’: connesse non solo ai fenomeni limitati che molti di noi associano al genere (cioè agli stereotipi culturali della personalità e del comportamento) ma anche alla concezione che ogni cultura ha del corpo e a ciò che significa essere una donna o un uomo”[20]. La conferma dell’esistenza di diverse concezioni del sé[21] e del corpo in distinte culture dimostrerebbe in effetti l’arbitrarietà del corpo in quanto oggetto, smascherandone la presunta datità. Donne non si nasce si diventa, scrisse Simone de Beauvoir in un testo dal titolo già di per sé provocatorio, Il secondo sesso[22]. Ma possiamo sostenere, più semplicemente, che non si nasce affatto, se per nascere si intende il venire al mondo come qualcosa di già definito in sé, qualcosa, per dirla con Aristotele, che è in potenza, che fa tutt’uno con una promessa naturale del destino. Al contrario, si diventa sempre e continuamente, perennemente in transito lungo un eterno divenire. Come recita l’aforisma eraclitiano: panta rei.
Note
[1] NICHOLSON, L., “Per una interpretazione di «genere», in PICCONE, S. S. & SARACENO, C., Genere. La costruzione sociale el femminile e del maschile, Mulino, Bologna, 1996, p.41 (fotocopie).
[2] Cfr. SCOTT, J., “Gender: a useful category of historical analysis”, in American American Historical Review 91, N. 5 (December 1986), pp. 1053-75.
[3] Cfr. NICHOLSON, L., op. cit., p. 56.
[4] Cfr. ivi, p. 51.
[5] Cfr. ivi, p. 53.
[6] RUBIN, G., “The traffic in women: Notes on the ‘political economy’ of sex”, in REITER, R. R., Toward an anthropology of women, Monthly Review Press, New York, 1975, pp. 157-210, p. 94 (fotocopie).
[7] Ivi, p. 90.
[8] NICHOLSON, L., op. cit., p. 43.
[9] RUBIN, G., op. cit., p. 94 (fotocopie).
[10] Cfr. ivi, p. 96. (fotocopie)
[11] Cfr. DELEUZE, G. & GUATTARI. F., L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 2002.
[12] Trascrizione della conversazione sulla voce “D-Desiderio”, in DELEUZE, G., Abecedario. Intervista con Claire Pamet per la regia di Pierre-André Boutang, Deriveapprodi, Roma, 2005.
[13] Analoga tendenza la si può riscontrare in Eros e Civiltà di H. Marcuse. Qui l’autore muove la sua critica all’astoricismo freudiano partendo dal rifiuto del principio di realtà, sostenendo come questo sia inevitabilmente da considerarsi quale espressione contingente – e dunque relativa – di un particolare momento storico-culturale. In tal senso, Marcuse auspica il ritorno in auge di quello che lo stesso Freud ha definito come principio del piacere, intendendo con esso, tuttavia, una sessualità liberata dalla tirannia degli organi genitali; una sessualità, dunque, in grado di scoprire, sorprendere e soddisfare il piacere erotico in ambiti diversi da quelli del rapporto fisico. Prendendo a prestito un efficace neologismo di Sandor Ferenczi, Marcuse definisce tale sessualità come “genitofugale”. Cfr., MARCUSE, H., Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 2001.
[14] FOUCAULT, M., op. cit., p. 25.
[15] Ivi, p. 26.
[16] Ivi, p. 16.
[17] Ivi, p. 36.
[18] Ivi, p. 94.
[19] Sul concetto di pratica di vita si rimanda a SINI, C., Gli abiti, le pratiche, i saperi, Jaca Book, Milano, 1996.
[20] NICHOLSON, L. op. cit., p 46.
[21] Cfr. GEERTZ, C., “Dal punto di vista dei nativi: sulla natura della comprensione antropologica”, in GEERTZ, C., Antropologia interpretativa, Mulino, Bologna, 1988, pp. 71-90.
[22] BEAUVOIR, S., Il secondo sesso, Saggiatore, Milano, 2008.
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