di Raùl Zecca Castel
1 – Mito
È parte costitutiva di un thesaurus mitografico pressoché universale l’idea che alle origini del creato, in un tempo coevo o immediatamente successivo all’atto cosmogonico, la natura umana fosse sessualmente indifferenziata, o, almeno, che oltre al maschile e al femminile, esistesse un essere qualitativamente androgino, che partecipasse dunque sia del carattere maschile che di quello femminile. A titolo esemplificativo, nel quadro di uno tra i vari miti d’origine fondativi dell’immaginario occidentale, si pensi al racconto che Platone affida ad Aristofane nel Simposio, dove il celebre commediografo greco narra di primordiali tipi umani dotati di quattro braccia, quattro gambe, due volti, due organi sessuali, e così via lungo la descrizione di un essere morfologicamente bisessuale, successivamente diviso in due metà complementari a colpi di saetta da Zeus, preoccupato da quella che considerava una potenziale minaccia alla superiorità sua e degli dèi tutti.
Altrettanto diffusa nel mito, inoltre, sembra essere quella che Gabriella D’Agostino ha definito “una situazione di diseguaglianza a favore del femminile ribaltatasi successivamente a causa di un comportamento scorretto o incapace da parte delle donne”[1]. Si ha qui l’irrompere sulla scena mitografica del tema della colpa [2] – e del conseguente castigo – quale espediente ideologico per legittimare la Storia: allo stesso tempo giustificazione ancestrale di una gerarchia sociale fondata sulla subordinazione del femminile al maschile e sorta di esorcismo nei confronti della paura che accompagna il pensiero di un originario assetto ginecocratico della società.
Relativamente a quest’ultimo aspetto, un altro mito classico, poi declinato in diversi ambiti geografici e storici, accorre in nostro aiuto. Si tratta del mito delle Amazzoni, donne guerriere che sia Omero che Erodoto collocano ai margini delle terre civilizzate, oltre i confini del mondo greco, “figure – afferma D. Bigalli – che abitano le zone liminari, si insediano nei confini, denunciano la ambiguità della frontiera, insieme baluardo, gesto di esclusione, e il luogo dell’attraversamento, del passaggio”[3]; attraversamento e passaggio che non si realizzano esclusivamente lungo i confini di mondi territoriali diversi e contrapposti, ma che interessano soprattutto i confini rassicuranti delle identità di genere. Ecco che l’amazzone esita su questa soglia pericolosa a metà strada tra il maschile ed il femminile: priva di un seno (a-mazós), ella si dedica al virile mestiere bellico, stretta in un’armatura da guerra che ne cela, annullandola, l’identificazione sessuale. L’amazzone rappresenta il simbolo di una sfida che costantemente rievoca e rinnova “la consapevolezza della presenza di un arcaico femminile, terribile soprattutto perché si esprime nell’assunzione, da parte delle donne, di una funzione squisitamente maschile, quella guerriera; questa presenza, che muove dagli abissi del tempo, è venuta delineando il quadro dell’Ecumene classica, nella quale l’espansione ellenica assume insieme i contorni di un processo di civilizzazione e di un processo di sostituzione del regime maschile, patriarcale, a quello matriarcale, dove l’amazzonismo, giusta la interpretazione bachofeniana, si vuole la forma estrema della ginecocrazia”[4].
Allo stesso modo, la trasposizione del mito amazzonico in terra d’America associa la figura autorevole e minacciosa della donna combattente ad un luogo ostile e in-definito come quello della foresta pluviale – foresta amazzonica, per l’appunto -, densa di pericoli e misteri insondabili che assumono da un lato le sembianze orrorifiche di una fauna mostruosa dedita a pratiche antropofaghe, ma che dall’altro alimentano la leggenda di El Dorado, l’ambita città d’oro e diamanti. Ancora una volta, dunque, la figura sfuggente e ambigua della donna-uomo che sovverte le presunte identità di ruolo stimola l’immaginario umano – maschile – evocando allo stesso tempo le paure e i desideri più reconditi. Per quanto la maggior parte delle volte il femminile venga associato esclusivamente al polo negativo di ogni formulazione dicotomica, tale ambivalenza trova ad ogni modo una sua spiegazione nel fatto significativo per cui “nell’immaginario classico la figura del popolo amazzonico si venisse a inserire in una costellazione di coppie oppositive, a partire da quella fondamentale maschile/femminile, per coniugarsi ad altre, quali giorno/notte, barbarie/civiltà, stabilità dell’insediamento umano/nomadismo”[5]. A tal proposito risulterà proficuo il riferimento al saggio del 1974 di Sharry Ortner dall’eloquente titolo Is Female to Male as Nature is to Culture?[6]. In questo scritto, difatti, l’autrice osserva come sia comune a tutte le culture l’idea per cui la donna è ritenuta più vicina alla natura di quanto lo sia l’uomo. Ciò a causa delle funzioni riproduttive proprie della fisiologia femminile che avrebbero imposto alla donna ruoli sociali di ambito esclusivamente domestico, lasciando agli uomini la possibilità di occuparsi della politica, qui intesa nella sua accezione più ampia di res publica. Ecco allora che la varietà delle coppie oppositive più sopra menzionate può ricondursi alla dicotomia fondamentale tra natura e cultura. Sempre lungo tale prospettiva si colloca dunque anche il discorso di M. Rosaldo[7] che si esprime nella divisione tra privato e pubblico, dove il primo definirebbe evidentemente il raggio d’azione delle donne ed il secondo quello degli uomini. È a partire dalla constatazione di tale universale associazione della donna alla natura e dell’uomo alla cultura, infine, che secondo entrambe le autrici avrebbe origine la gerarchizzazione dei sessi.
Un altro aspetto significativo per il discorso che si viene qui delineando rispetto all’amazzone, ma più in generale rispetto all’immagine simbolica di un corpo monosessuato, androgino o sessualmente ambiguo, riguarda il tema del travestimento. Per un verso, la pratica di abbigliarsi secondo i canoni di riferimento del sesso opposto, in particolar modo per le donne, ha storicamente assunto un valore che si potrebbe definire di tipo politico in quanto costituiva ed organizzava un’occasione eversiva nei confronti del nomos. Le donne andavano così ad occupare “uno spazio altro, quello della liberazione e della fuga. La foresta, il mare, il deserto, il monastero, la città, la corte, i luoghi della separazione conclamata o del contratto, della solitudine o del consorzio civile, assecondano questo processo di metamorfosi mutando anch’essi insieme all’identità in movimento delle foemine masculiate”[8]. Si rende di nuovo evidente, così, il forte nesso che unisce l’ambiguità sessuale, ora espressa attraverso il sovvertimento delle regole d’abbigliamento relative all’identità di genere, all’immagine del transito, del passaggio, anche geografico. Introducendo una distinzione tra il fenomeno del travestitismo temporaneo e quello permanente, G. D’Agostino ha rilevato come nel primo, caratteristico di particolari situazioni rituali, si attui una “sospensione circoscritta al tempo del rito, dell’ordine biologico, sociale e culturale su cui una comunità fonda il proprio equilibrio, che finisce con il ribadire l’identità tra fatto biologico e fatto sociale”[9]. Così, l’assumere provvisoriamente le sembianze del sesso opposto indossandone gli abiti ed accettandone il significato, costituirebbe in questo caso un espediente sociale teso a confermare e rafforzare la propria vera identità sessuale, oltre che a ribadire l’ordine complessivo dell’esistente. Di contro, nel travestitismo permanente, tale dimensione sospensoria dell’ordine biologico e cosmico si traduce in una condizione definitiva che trova il suo scopo nell’affermazione di una nuova identità personale e che, parallelamente, attua una sovversione dell’ordine politico prestabilito.
Per altro verso, il travestitismo rimanda a quella concezione mitico-religiosa del corpo ermafrodito tipica delle speculazioni cosmogoniche cui si faceva più sopra riferimento e che evoca la dimensione del divino quale perfezione assoluta, intesa etimologicamente nei termini di ciò-che-è-compiuto, completato, o meglio, che ha raggiunto il suo scopo: in questo caso la presunta unione primordiale del maschile e del femminile, quell’unione così idealmente pericolosa agli occhi di Zeus. Rispetto alle diverse forme di travestimento rituale, dunque temporaneo, lo storico delle religioni Mircea Eliade ha scritto che la loro funzione consiste infatti nel “ripristinare una situazione originaria, trans-umana e trans-storica perché anteriore alla costituzione della società umana […] onde restaurare, anche per un solo istante, la totalità iniziale, la sorgente intatta della sacralità e della potenza”[10]. Non a caso, simbolo per eccellenza del travestimento, è la maschera. Questa, lungi dal ridursi semplicemente all’accezione negativa del termine quale sinonimo di nascondere ed occultare, esprime invece, come ha avuto modo di osservare Károly Kerényi, il segno arcaico della soglia tra natura e cultura: evocando il pre-umano evoca il divino[11].
All’interno del quadro concettuale del travestitismo e più in generale dell’ambiguità androgina quale indizio della perduta unità divina può essere significativo anticipare ora come nella tradizione indigena nordamericana la figura del travestito omosessuale (berdache) goda di uno status sociale particolarmente beneficiato in quanto la sua condizione ambivalente – maschile e femminile – è ritenuta espressione di un’umanità superiore, più vicina all’essenza degli dèi[12].
Ciò che preme qui mostrare, infine, è che l’idea di una sessualità umana ambigua, difficilmente riconducibile al paradigma binario del maschile e del femminile, ha attraversato i tempi e le culture, incarnandosi non solo nei più diversi miti d’origine e nelle varie leggende storiografiche, ma anche nel pensiero scientifico, specialmente in campo medico, e, ben più concretamente, in alcuni resoconti etnografici divenuti ormai celebri per aver dato luogo ad accesi dibattiti tra e biologi ed antropologi.
1.1 – Scienza
In un noto saggio di Thomas Laqueur dato alle stampe nel 1990 e intitolato Making Sex: Body and Gender from Greeks to Freud[13], il sessuologo americano ha inteso ripercorre la storia relativa al mutamento della rappresentazione del corpo e della sessualità in Occidente a partire dalla Grecia antica sino al diciottesimo secolo, quando, a tal proposito, si sarebbe verificato un radicale cambiamento di paradigma: se fino a questo momento vigeva difatti una concezione del corpo che Laqueur ha definito come one-sex model, vale a dire come di un corpo anatomicamente monosessuato, che trovava le sue radici teoriche da un lato nella filosofia aristotelica e dall’altro nella medicina galenica, ora si imponeva invece la nuova visione di un corpo bisessuale – two-sex model -, che si appropriava della teoria dimorfistica come di un’arma ideologico-clinica contro le deviazioni della presunta natura umana. Si veda qui l’indagine circa la figura dell’ermafrodita condotta da Foucault rispetto proprio all’avvento di una scienza del corpo quale dispositivo politico-giuridico: “gli ermafroditi furono dei criminali, o dei figli del crimine, poiché la loro disposizione anatomica, il loro stesso essere confondeva la legge che distingueva i sessi e prescriveva la loro unione”[14]. Come dimostrano le strane confessioni di Herculine Barbin, le conseguenze di tale prospettiva sono inevitabilmente traumatiche e talvolta anche drammatiche, tanto da trovare, in questo caso, i loro ultimi effetti in un tragico suicidio. Sempre Foucault ha notato come solo una lettura mitica del proprio destino abbia in qualche modo consolato la tormentata adolescenza di Herculine per oscillare continuamente “tra uno stato di immedicabile scoramento e l’orgogliosa affermazione della preminenza connessa a una duplice e perciò più ricca e privilegiata natura. […] diversità che è al tempo stesso destino e elezione […], oscura reminiscenza della sferica perfezione dell’essere primordiale che, riunendo in sé i caratteri e le facoltà dell’uomo e della donna, aveva nel cosmo una posizione di semindivina autorità e potenza”[15].
Nel merito del discorso circa il valore ideologico che sottende qualsivoglia espressione concettuale (sapere-potere), è significativo notare come già con Galeno (129 – 216), nonostante l’idea di un corpo sostanzialmente monosessuato, fosse comunque in atto una forte discriminazione gerarchica tra il maschile ed il femminile. Si fa riferimento qui alla tesi per cui la donna fosse un uomo mancato, vale a dire un corpo imperfetto. Sulla scorta della teoria tetraumorale formulata da Ippocrate, Galeno postulò che fosse una minore presenza di calore vitale la causa della non fuoriuscita del pene nelle donne. Questo perché l’anatomia umana era intesa in termini di unicità sessuale, dunque la differenza tra il corpo femminile e quello maschile consisteva unicamente nel fatto che il primo era il rovescio, l’inversione, del secondo. Di qui la logica possibilità per le donne che per via di qualche movimento eccessivamente energico o calorico si verificasse l’insorgenza dei genitali maschili. Possibilità avvalorata peraltro da due testimoni d’eccellenza come il chirurgo Ambroise Paré e il filosofo Michel de Montaigne, i quali riportano – quest’ultimo nel suo Journal de voyage – il caso di tale Marie improvvisamente divenuta Manuel. Ancora in epoca tardo-rinascimentale, dunque, vigeva una rappresentazione sessuale del corpo di tipo unitaria, ma soprattutto, come dimostra l’esempio appena accennato, si riteneva che il genere potesse agire un forte influsso sul sesso, tanto che agli uomini e alle donne era richiesto di prestare molta attenzione alle proprie attitudini e al proprio stile di vita, al fine che si conformassero il più possibile con quelli che erano ritenuti i rispettivi codici di comportamento ideale previsti dalla società del tempo. A ragione Massimo Rizzardini scrive che “di fronte al rischio di un’identità in perenne movimento, almeno fino al 1600 era fondamentale esercitare un controllo sul genere a garanzia del mantenimento di un ordine sociale prestabilito. La politica dei ruoli investiva di conseguenza la sfera della sessualità”[16].
È perciò ancora una volta evidente come non solo il mito, ma anche il pensiero filosofico-scientifico, facciano parte di un più vasto sistema ideologico funzionale alla Storia, teso a legittimarne, più o meno implicitamente, l’ordine arbitrariamente gerarchico e discriminatorio che, fino ad oggi, ne ha scandito il ritmo e il destino.
1.2 – Etnografia
Che la rappresentazione del corpo e della sessualità risulti variabile e mutevole a seconda dei diversi contesti culturali è un concetto antropologico ormai acquisito, anche se comunemente ancora troppo spesso trascurato, almeno per quanto riguarda le implicazioni filosofiche che ne procura l’emergenza e che inviterebbero a riflessioni molto più profonde e problematiche sia rispetto al tema generale dell’adeguatezza e della validità dei vari metodi relativi all’indagine gnoseologica, dunque riguardo alla questione circa la condizione di possibilità della stessa, che rispetto alla tema particolare, nonché qui di nostro interesse, dell’assenza di un universale umano, di una natura umana data. Come hanno documentato i casi etnografici che ci apprestiamo a menzionare, il significato che il corpo e la sessualità rivestono, o hanno rivestito, al di fuori della cultura occidentale sono estremamente rivelativi a proposito della riflessione qui in corso.
È così che tra gli Inuit dell’Artico vige la credenza per cui ogni nuovo nato è la reincarnazione dell’anima di un progenitore. Spetta allo sciamano il compito di annunciarne pubblicamente l’identità affinché l’individuo sia allevato in conformità a tale rivelazione. Non è cosa insolita dunque che un bambino anatomicamente maschio venga vestito con abiti femminili ed educato a comportarsi secondo i principi ed i valori che sono ritenuti propri delle donne. Viceversa per una bambina la cui anima si crede appartenga ad un antenato maschio. È dunque evidente come in tale sistema culturale non sia la biologia a determinare l’identità di genere dell’individuo quanto piuttosto una concezione della metempsicosi significativamente profonda ed incisiva. Il fatto che una volta raggiunta l’età puberale gli individui debbano provvedere ad assecondare il loro sesso biologico riadattando il proprio ruolo di genere alla ritrovata identità anatomica, non toglie che la questione del rapporto sesso-genere, così come vissuta tra gli Inuit, stimoli una più ampia riflessione sui temi della natura e della cultura. A maggior ragione se si tiene conto, come dimostrato dalle ricerche condotte da Bernard Saladin d’Anglure presso le popolazioni Inuit, che taluni individui, detti sipinik, non accetteranno di riadeguare il proprio stile di vita al sesso biologico che è loro peculiare e continueranno così la loro esistenza nei panni del progenitore reincarnato.
A parte il caso dei sipinik, tuttavia, l’omosessualità non è pratica comune tra gli Inuit. Al contrario: “il sesso biologico è associato alla riproduzione e al matrimonio, e pertanto all’eterosessualità”[17]. Non è così invece per molte popolazioni indigene che abitano le diverse isole della Melanesia. Qui, infatti, è diffusa la credenza che la responsabilità del sesso, del genere e del carattere degli individui sia da ascrivere a una serie di sostanze corporee quali soprattutto il sangue e lo sperma. Così, tra i Bimin-Kuskusmin della Nuova Guinea, “lo sperma maschile, i fluidi fertili femminili e il sangue mestruale formano gli elementi basilari con cui si costruisce l’essenziale natura psicobiologica della persona. Il genere è una parte invariabile di questa costruzione. La natura dei maschi e delle femmine si differenzia non soltanto in relazione alle caratteristiche morfologiche, ma anche in relazione alle capacità di ricevere, trasformare e trasmettere le sostanze stesse che li formano, così come di raggiungere equilibri distinti tra queste sostanze”[18]. Lo sperma in particolare è ritenuto veicolo privilegiato al fine di trasmettere la virilità alle generazioni più giovani da parte di quelle più anziane. Il ricorso alla fellatio omosessuale e la successiva inseminazione orale, dunque, è una consuetudine tesa a sancire la formazione della mascolinità. Per tale motivo, l’età più propizia è considerata quella che va dalla tarda infanzia sino alla pubertà. Tra i Sambia, popolazione papuense studiata da G. Herdt, la pratica dell’inseminazione orale ha inizio intorno ai sette anni e si protrae fino ai quattordici-quindici, età che segna il passaggio alla vita adulta. Da questo momento, i maggiori di quindici anni, ormai uomini, potranno a loro volta dedicarsi ad iniziare alla mascolinità i più giovani; almeno finché non prenderanno moglie ed avranno dei figli. Dopodiché le relazioni omosessuali saranno loro interdette. Alla stregua dei sipinik inuit, tuttavia, alcuni individui continueranno a prediligere i giovani maschi alle donne[19].
Per concludere, innumerevoli comunità indigene del Nord America hanno contato – e in alcuni casi continuano a contare ancora oggi – sulla presenza di una figura dall’ambigua identità di genere che è stata sommariamente definita con il termine di berdache, dal francese bardache (omosessuale passivo). Nota anche come due-spiriti o uomini-donna, si tratta, nella maggior parte dei casi[20], di individui che dal punto di vista anatomico dovrebbero appartenere alla categoria maschile, ma che, assecondando una diversa inclinazione psicologica, indossano abiti femminili e, con sufficiente approssimazione, svolgono mansioni che ad essi si confanno. Con sufficiente approssimazione, si diceva, poiché molto spesso, in realtà, la figura del berdache è interpretata quale espressione di uno status privilegiato: se per un verso non è né uomo né donna, per un altro è qualcosa di più sia dell’uno che dell’altra. Viene a configurarsi così per il berdache la peculiarità di riunire in sé qualità e virtù che gli consentono di accedere a ruoli straordinari e di grande prestigio[21] preclusi al resto degli individui della comunità.
I tre casi qui passati in rassegna, per quanto rappresentino validi esempi etnografici circa il carattere di costruzione socio-culturale dell’identità di genere, screditando così l’assunto principe del determinismo biologico per il quale il genere non sarebbe altro che una diretta conseguenza del sesso anatomico, lasciano tuttavia integra la teoria del dimorfismo sessuale. Resiste ancora, in qualche modo, l’idea che effettivamente viga una natura binaria del sesso anatomico. Paradossalmente, le specificità culturali appena sopra menzionate, ne costituirebbero in ultima analisi un’ulteriore prova, confermandone la verità. La nozione di “terzo sesso”, utilizzata di frequente per riferirsi ai trasgressori di genere[22], ed impiegata anche in riferimento al caso degli Inuit così come a quello del berdache indigeno nordamericano, non risulta perciò del tutto corretta. Ciò proprio per il fatto che il discorso è relativo al genere e non al presunto dato biologico, il sesso anatomico, che invece non viene messo in discussione. A titolo esemplificativo valgano qui le parole con cui H. Whitehead si è espressa rispetto a tale questione in merito al berdache nordamericano: “Nella maggior parte del continente, non si riteneva che il ‘parte-uomo, parte-donna’ fosse donna nelle ‘parti’ fisiologiche né che fosse costretto a fingerlo. Era sufficiente che facesse ciò che facevano le donne riguardo a occupazione, abbigliamento e contegno. Ciò determinava la componente femminile della sua identità proprio come l’anatomia determinava quella maschile e la mescolanza delle due dimensioni dava origine al suo status speciale”[23].
CONTINUA….(sabato 6 febbraio)
Note
[1] D’AGOSTINO, G., Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, Sesso e genere. L’identità maschile e femminile, Sellerio, Palermo, 2000, p. 13.
[2] Sul tema generale dell’individuazione nei termini di colpa cfr. CARBONE, M. et al., Divenire innocente, Mimesis, Milano, 2006.
[3] BIGALLI, D. et al., Amazzoni, sante, ninfe. Variazioni di storia delle idee dall’antichità al Rinascimento, Cortina, Milano, 2006, p. 4.
[4] Ivi, p. 6
[5] Ivi, p. 7
[6] ORTNER, S., “Is female to male as nature is to culture?”, in ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972, pp. 67-87.
[7] ROSALDO, M. Z., “Woman, Culture and Society: a Theoretical Overview”. In ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972.
[8] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in BIGALLI, D. et al., op. cit., p. 121.
[9] D’AGOSTINO. G, Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 16.
[10] ELIADE, M., Mefistofele e l’androgine, Mediterranee, Roma, 1989, p. 103.
[11] Cfr. KERÉNYI, K., Miti e maschere, Einaudi, Torino, 1950.
[12] Vedi paragrafo 1.3.
[13] LAQUEUR, T., L’identità sessuale dai Greci a Freud, Laterza, Bari, 1992.
[14] FOUCAULT, M., Storia della sessualità. Vol. 1: La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 38.
[15] FOUCAULT, M., Nota introduttiva, HERCULINE, B., Una strane confessione. Memorie di un ermafrodito presentate da Michel Foucault, Einaudi, Torino, 2007, pp. XI-XII.
[16] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in op. cit., p. 125.
[17] BUSONI, M., Genere, sesso, cultura. Uno sguardo antropologico, Carocci, Roma, 2000, p. 23.
[18] POOLE, F. J. P., “La trasformazione della donna ‘naturale’. I capi rituali femminili e l’ideologia di genere presso i Bimin-Kuskusmin”, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 251.
[19] Cfr. HERDT, G. & STOLLER. R. J., Intimate communications: erotics and the study of culture, New York, Columbia University Press, 1990.
[20] In realtà non è una questione di statistica, quanto di status: “In gran parte del Nord America, non vi era una controparte femminile riconosciuta del berdache maschio. Eppure non sembra che le donne disposte e capaci di attraversare i confini sessuali siano state di numero limitato”, WHITEHEAD, H., “L’arco e la cinghia del fardello. Uno sguardo sulla omosessualità istituzionalizzata nel Nord America indigeno”, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 187.
[21] “[…] come mediatore matrimoniale, mago in affari d’amore o guaritore di malattie veneree […] capo della sua casa natale, dal momento che la famiglia nutriva l’idea che la sua presenza garantisse loro ricchezza […] Si riferisce anche di funzioni rituali specializzate, come il taglio di un particolare palo di tenda rituale (Crow), o officiare alle danze degli scalpi (Papago e Cheyenne)”, ivi, p.185.
[22] Nell’accezione etimologica di “passare” e “attraversare” il genere cui fa riferimento H. Whitehead, dunque priva di connotazione morale. Cfr. ivi, p. 178.
[23] Ivi, p. 187.