di Fabio Ciabatti

Bloch_Ciabatti_EreditàErnst Bloch, Eredità di questo tempo, traduzione e cura di Laura Boella, Mimesis, 2015, pp. 482, € 32,00.

In un’epoca dominata rassegnazione e passioni tristi può essere di grande utilità recuperare il pensiero di Ernest Bloch, un autore che rivendica al marxismo la forza dell’utopia concreta, della speranza e della fantasia, anche nelle loro dimensioni apparentemente anacronistiche, oscure e irrazionali. Tra il serio e il faceto potremmo dire che Bloch, preso atto della potenza del lato oscuro della forza, ci esorta a sottrarre il suo potere al nemico, convinto che si possano diradare le tenebre solo percorrendo fino in fondo il sentiero oscuro senza rimanerne dominati e consumati, checché ne pensino il maestro Joda e tutti gli altri cavalieri Jedi.
Non può che fare piacere, dunque, la ripubblicazione di Eredità di questo tempo, libro dato alle stampe a Zurigo nel 1935, ora disponibile per il pubblico italiano con una nuova introduzione e una nuova traduzione a cura di Laura Boella, traduttrice e curatrice anche della prima edizione italiana del 1992 (uscita con il titolo Eredità del nostro tempo).

In questa recensione ci concentreremo soprattutto sul concetto di non contemporaneità che Bloch utilizza per analizzare il nazismo, ma che può essere utilmente impiegato per comprendere alcuni fenomeni contemporanei come il fondamentalismo e i movimenti sociali sudamericani. Non sorprenda il riferimento a due fenomeni dalle valenze politiche opposte: secondo Bloch, infatti, la capacità o meno di occupare il territorio della non contemporaneità può dare luogo a esiti politici completamente differenti.
Prima di venire all’oggi, torniamo al testo di Bloch per il quale non è sufficiente rilevare che “Il solo contenuto contemporaneo dell’hitlerismo è il dominio del grande capitale” se non si risponde a una domanda fondamentale: com’è possibile che abbia avuto tanta efficacia “una demagogia ‘anticapitalista’ di una falsità e irrealtà totali”?1
È per rispondere a questa domanda che entra in gioco il concetto di non contemporaneità. “La storia – ci dice Bloch – non è un’entità che avanza rettilinea in cui il capitalismo sarebbe l’ultimo stadio, quello che avrebbe superato tutti gli stadi anteriori. Essa è piuttosto un’entità pluriritmica e plurispaziale”.2 In altre parole l’espansione del dominio capitalistico non significa la completa scomparsa di forme di produzione, di vita e di pensiero precapitalistiche: la sussunzione formale di forme produttive precapitalistiche da parte del capitale non è destinata sempre e comunque a essere superata dalla sussunzione reale, potendo le due in certe circostanze convivere.
A partire da questa constatazione si può affermare che “L’esperienza dell’attualità non è la stessa per tutti. Alcuni vivono il presente solo esteriormente … [portando] con sé qualcosa di anteriore che viene a mescolarsi con il presente” e sognando di tornare ai vecchi tempi, i quali, così, “entrano in contraddizione con il presente in forma molto curiosa, trasversale”.3
La gioventù che ha nostalgia della disciplina e del capo, i contadini che si radicano più fortemente nella terra natale, il ceto medio urbano immiserito che, per risparmiarsi la lotta di classe, finisce per venerare una nazione germanica arcaica ed illusoria: ecco i gruppi in cui si trovano gli esemplari di quell’uomo “pieno di amarezza [che] resta indietro, sanguinante e oscuro”4 in cui sono all’opera “impulsi e riserve provenienti da epoche e sovrastrutture precapitalistiche, non contemporaneità autentiche che una classe in declino riattualizza nella propria coscienza o lascia che vengano riattualizzate”.5 I nazisti hanno sfruttato con grande maestria questi impulsi utilizzando “l’oscurità senza aurora, l’arcaico senza utopia, il grido confuso o fraudolento senza contenuto umano”.6
C’è un elemento del sostrato non contemporaneo che si presta oggettivamente a un utilizzo regressivo. Ma c’è anche molto di più: Bloch ci parla infatti della letteratura popolare con la sua immaginazione desiderante, della fiaba quale cronaca infantile della guerra condotta dall’astuzia del povero contro le potenze mitiche, del millenarismo cristiano con la sua volontà di portare il paradiso in terra, dello spirito dionisiaco quale segno tra i più potenti che l’uomo è ancora fuori di sé. C’è dunque una responsabilità soggettiva dei marxisti volgari che hanno sottoalimentato la fantasia delle masse, hanno trascurato il mondo dell’immaginazione, non hanno montato “la guardia nelle regioni del primitivo e dell’utopia, proprio laddove i nazisti attingono il loro potere di seduzione”.7
Per questo motivo c’è una differenza tra la propaganda nazista e quella comunista a tutto vantaggio della prima. “I nazisti parlano una lingua ingannatrice, ma a degli uomini, i comunisti parlano una lingua totalmente vera, ma che riguarda soltanto le cose”,8 utilizzando una propaganda “fredda, pedante, esclusivamente imperniata sul momento economico”9 incapace di “contrapporre al mito… [una] contropartita che sappia trasformare gli inizi mitici in inizi reali, i sogni dionisiaci in sogni rivoluzionari”.10
Bloch vuole quindi un ampliamento della prospettiva da parte del marxismo. Altrove parlerà di una “corrente calda” che caratterizza il marxismo tanto quanto la sua “corrente fredda”. Occorre allargare l’orizzonte per comprendere il non contemporaneo, le peculiari contraddizioni che esso pone, il suo rapporto con la contraddizione contemporanea. Ecco come Bloch sintetizza il tutto: “La contraddizione soggettivamente non contemporanea è la collera repressa, la contraddizione oggettivamente non contemporanea è il passato non ancora esaurito; la contraddizione soggettivamente contemporanea è l’atto rivoluzionario libero del proletariato, la contraddizione oggettivamente contemporanea è il futuro impedito contenuto nel presente, i benefici della tecnica bloccati, la società nuova bloccata di cui quella vecchia è gravida nelle sue forze produttive”.11
Da ciò deriva il compito di “separare gli elementi della contraddizione non contemporanea suscettibili di avversione e metamorfosi, ossia quelli che sono ostili al capitalismo e in esso non trovano accoglienza, e… rimontarli dando loro un’altra funzione in un contesto diverso”.12 Non si tratta per Bloch di negare il primato della contraddizione contemporanea, ma di acquisire una “forza rivoluzionaria supplementare”.13
In passato i contenuti di classe dell’utopia si sono quasi sempre celati sotto una forma teologica presentandosi così come utopia astratta, avvolta nella nebbia. Anche se queste forme oggi ci appaiono estranee e infantili, il socialismo, pur demolendo la loro apparenza, deve adempiere alle loro promesse, mettendo in evidenza “la sete di libertà e di felicità, le immagini di libertà che uomini privati dei loro diritti hanno consegnato a questi sogni”.14
Perché si possa adempiere a questo compito occorre una nuova forma di pensiero che abbandoni il “razionalismo astratto” e si rivolga alla totalità storico-sociale in modo critico e non contemplativo con un’attitudine “più esistenziale e più concreta”. “Per padroneggiare la non contemporaneità, sorge quindi il problema di una dialettica rivoluzionaria a molteplici livelli” che sappia farsi carico “degli elementi utopici e sovversivi, della materia rimossa di un passato che non è ancora tale”.15
Tutto ciò ha un senso se non consideriamo il materialismo comunista “una nuova forma di totalizzazione dell’economia”, come potrebbe indurci a pensare un marxismo che si limita alla sua corrente fredda, “bensì la leva che deve portare alla periferia l’economia una volta che la si sia padroneggiata, e che deve porre per la prima volta l’uomo al centro”,16 come ci aiuta a capire la corrente calda contenuta nel marxismo stesso.

Fin qui quanto ci dice Bloch rispetto ai suoi tempi. E per quanto riguarda i nostri? La cosiddetta globalizzazione sembra proprio riportare in auge il concetto di non contemporaneità. L’estendersi del dominio del grande capitale ha posto termine in molti paesi non capitalisticamente sviluppati a quel processo di modernizzazione che si basava sulla sostituzione delle esportazioni e sullo sviluppo autonomo di una moderna base produttiva. Con ciò ha subito uno stop il processo di secolarizzazione di tipo occidentale che si basava sulla sottrazione di ampie masse alle forme tradizionali di vita e di riproduzione materiale e al loro inserimento nell’ambito della produzione capitalistica e del circuito della merce. Forme precapitalistiche sono state rifunzionalizzate all’interno delle catene del valore internazionalizzate attraverso una sussunzione formale che ha significato la riproposizione di un’accumulazione primitiva sotto inedite e selvagge tipologie. Nuove modalità di esclusione e marginalizzazione sono state riservate a coloro i quali, sottratti alle loro tradizionali forme di sostentamento (soprattutto rurale), vengono inseriti nel circuito del lavoro informale, termine edulcorato per definire l’attività lavorativa di un sottoproletariato sempre più numeroso e ammassato negli slum delle megalopoli del terzo mondo o nelle città occidentali, meta di masse di immigrati. Un vuoto nichilistico, dove il vecchio agonizza senza che germogli il nuovo, ha spesso portato a una “collera repressa” che ha trovato rifugio nella pienezza immaginaria di un passato illusorio. In questa schematica descrizione è facile vedere il “grido confuso o fraudolento senza contenuto umano” dei vari fondamentalismi, compresi quelli di matrice nord-occidentale.
Ma l’“oscurità senza aurora” non è stato l’unico esito della non contemporaneità dei nostri giorni. Nel continente sudamericano abbiamo assistito ad alcuni esempi virtuosi d’intreccio tra l’arcaico e il moderno. Le antiche forme di comunità, che ancora assicurano la riproduzione di masse considerevoli di persone, sono state capaci di costituire la base per i nuovi movimenti sociali, con le loro pratiche solidali di democrazia diretta e consensuale; forme arcaiche di pensiero hanno contribuito alla rinascita di un immaginario diffuso in grado di concepire rapporti sociali e forme di ricambio organico tra uomo e natura diversi da quelli dominati dallo sfruttamento capitalistico.
Anche partendo da questi esempi positivi bisogna però stare attenti a distinguere un’utopia astratta, che vuole soltanto riproporre l’antico o affiancarlo semplicemente al moderno, da un’utopia concreta, che può nascere dalla capacità dell’antico di vivificare il nuovo, affrontando la “contraddizione contemporanea oggettiva”.
Alvaro Garcìa Linera, prima di diventare vicepresidente della Bolivia, ha sostenuto che le comunità indigene sono portatrici di una razionalità contraddittoria in quanto differente da quella del mercato capitalistico, ma da secoli formalmente subordinata ad esso. Le stimmate della subalternità sono internalizzate nelle loro stesse strutture riproduttive e nel loro immaginario. I movimenti indigeni non possono perciò nascere dalla semplice riproposizione del passato, ma dalla riattivazione delle forme di ribellione del passato stesso. Solo un sostanziale rinnovamento delle comunità realmente esistenti (in termini blochiani, un nuovo montaggio degli elementi in esse contenuti), consente di esprimere un conflitto in grado di entrare in un rapporto di coalizione negoziata con le masse urbane.17 Successivamente lo stesso Garcìa Linera ha sostenuto che l’identità di classe delle masse urbane è stata sussunta sotto quella entnico-culturale del nazionalismo indigeno diventando l’identità mobilitante principale.18
È probabilmente la presupposizione di questo primato, opinabile o meno che sia, a nutrire la convinzione di Garcìa Linera che in Bolivia non sia possibile andar oltre il consolidamento di un capitalismo andino-amazzonico, caratterizzato dalla compresenza di una produzione capitalista moderna e da forme produttive comunitarie, con lo stato incaricato di rafforzare queste ultime.19 Una cosa risulta comunque certa: la convivenza tra queste due forme è tutt’altro che pacifica. Lo testimonia con evidenza l’Ecuador che, insieme alla Bolivia, ha inserito nella costituzione il buen vivir, visone del mondo che nasce proprio da antiche forme di vita e di pensiero indigene. Suona quasi beffardo il fatto che proprio in questo paese si sia è presentata nella forma forse più acuta la contraddizione tra le esigenze della moderna industria estrattiva e la gestione tradizionale delle risorse naturali da parte delle popolazioni autoctone.
Quelli accennati sono solo alcuni esempi dei problemi che affliggono il continente ribelle. Soprattutto ora che, dopo le sconfitte elettorali delle sinistre in Argentina e Venezuela, il ciclo dei governi progressisti del Sud America appare terminato o, comunque, in gravissimo affanno. A tale difficoltà ha contribuito in maniera decisiva il fatto che i governi di sinistra non sono riusciti a modificare significativamente il modello finanziario-estrattivista delle loro economie. Passato il ciclo degli alti prezzi delle materie prime, che ha consentito una significativa redistribuzione di ricchezze senza modificare sostanzialmente il sistema produttivo, i nodi sono venuti al pettine. E qui torna in gioco la corrente fredda del marxismo che risulta indispensabile per individuare e affrontare lucidamente le contraddizioni oggettive da sciogliere per non essere costretti ad assistere al ritorno dell’oscurità, laddove si era annunciata l’aurora.


  1. Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, Mimesis, 2015, p. 204. 

  2. Ivi, p. 205. 

  3. Ivi, p. 145. 

  4. Ivi, p. 79. 

  5. Ivi, p. 155. 

  6. Ivi, p. 319. 

  7. Ivi, p. 319 

  8. Ivi, p. 198. 

  9. Ivi, p. 171. 

  10. Ivi, p. 102. 

  11. Ivi, p. 165. 

  12. Ibidem. 

  13. Ivi, p. 168. 

  14. Ivi, p. 179. 

  15. Ivi, p. 166. 

  16. Ivi, p. 199. 

  17. Cfr. Alvaro Garcìa Linera, Plebeian Power. Collective Action and Indigenous, Working-Class and Popular Identities in Bolivia, Haymarket Books, 2014, pp. 155-157. 

  18. Cfr. ivi, p. 279. 

  19. Cfr. Pablo Stefanoni, “Alvaro Garcìa Linera: Reflections on Two Centuries of Bolivia”, in Alvaro Garcìa Linera, Plebeian Power, cit., p.11.