di Marc Tibaldi
Intervista a Marco Philopat a proposito della nuova edizione ampliata de La banda Bellini
Alberto Asor Rosa nel recente Scrittori e massa (contenuto nella nuova edizione di Scrittori e popolo, Einaudi 2015), nel capitolo dedicato ai Wu Ming, sostiene che “la Storia è una risorsa formidabile, come sanno i letterati italiani di tutti i tempi; ma impone rigide regole all’invenzione e al rapporto con il pubblico. C’è in questa scelta […] una decisa – in mille modi motivata – «dislocazione dal presente». Se si parla del passato, significa che è più importante del presente, ovvero che del presente, non si può parlare come si vorrebbe. La New Italian Epic, per andare incontro al futuro, come dichiara di voler fare, dovrebbe chiarire meglio se la Storia è una scelta o un obbligo insuperabile, e in ambedue i casi perché”.
In questo momento storico sembra un’esortazione valida non solo per Wu Ming e gli scrittori in genere, ma anche per i movimenti che si prefiggono una mutazione dell’esistente. L’uscita della nuova edizione di La banda Bellini (200 pag, 14 euro, Agenzia X, 2015) di Marco Philopat, ci consente di ragionare indirettamente su questi temi e intorno a scrittura, masse, popoli e rivoluzioni.
Quali sono le modifiche e le aggiunte di questa nuova edizione di La banda Bellini e perché le hai fatte?
È stato un lavoro lunghissimo quello su La banda Bellini, partito addirittura all’inizio degli anni Novanta. Per la redazione della rivista “Decoder”, mi occupavo di movimenti controculturali, a quei tempi cercavo di capire meglio gli anni settanta, un periodo storico che avevo solo sfiorato da ragazzino. Così mi appassionai alle fabulazioni di Andrea Bellini che erano straordinarie. Ascoltavo quei racconti soprattutto al Bar Rattazzo che stava di fronte alla Calusca, la libreria di Primo Moroni. Qualche anno più tardi presi l’incarico di trascrivere quei suoi racconti per la rubrica “Vent’anni dopo”, sulla rivista bimestrale NN Figli di nessuno, redatta dai reduci della banda del Casoretto. Nel 1997, uscì Costretti a sanguinare, il mio romanzo autobiografico sul punk, che riscosse un inaspettato successo, tanto da spingere il collettivo della Shake a lasciarmi tempo per realizzare un nuovo libro. Ripresi quindi in mano le rubriche uscite su NN, e mi concentrai a intervistare Andrea, continuando il lavoro di scrittura fino al 2001. Uscì nel 2002 per la Shake e fu ristampato da Einaudi nel 2007 con lo stesso testo. In questa edizione ci sono aggiunte sostanziali, nuovi aneddoti sparsi nel corso del testo e un capitolo intero nella parte finale. Durante gli anni, nel corso delle moltissime presentazioni fatte in giro per l’Italia, ho appuntato molti episodi che Andrea recuperava dalla sua memoria.
In particolare hai voluto inserire due momenti significativi e simbolici di quegli anni.
Sì, il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro (giugno 1976) e la manifestazione del 14 marzo 1977, in cui venne ucciso l’appuntato Custra, che non avevo potuto raccontare nelle edizioni precedenti perché erano ancora in corso dei processi. Quel giorno, costituisce un momento importante nella vita di Bellini e nell’economia del racconto, rappresenta la sua più corretta parabola. Anche il capitolo finale è stato riscritto perché ho avuto la fortuna di ritrovare la registrazione originale e mi sono accorto che quell’invettiva rabbiosa di Andrea meritava una trascrizione più fedele.
Come ti spieghi il successo del romanzo, questa tenuta nel corso degli anni?
Prima di tutto ha funzionato l’abilità di Andrea nel raccontare così bene i fatti di un periodo fondamentale per la storia dei movimenti rivoluzionari italiani, dove lui fu indubbiamente uno dei principali protagonisti di origine proletaria. L’ironia e la sua capacità di arrivare all’osso della questione, basandosi sui pilastri della storia della lotta di classe, da Spartaco a Che Guevara alla Resistenza, attraversando mitologie popolari come il film Mucchio Selvaggio, innescano un motore narrativo che non lascia indifferenti. Nell’elaborazione letteraria ho sovrapposto la costruzione del personaggio mitopoietico e nello stesso tempo la sua decostruzione, mostrando le sue più laceranti contraddizioni. Così se da una parte abbiamo un gruppo di ragazzi di periferia e figli di partigiani che combattono contro la polizia, ma anche contro i figli dei ricchi che frequentano i licei e l’università della Milano bene, dall’altra parte c’è il rapporto con le donne, soprattutto con le prime teorie e pratiche del femminismo, che mettono in crisi personale e politica tutti i componenti della banda. Infine c’è la questione spinosa del rapporto tra organizzazioni politiche extraparlamentari legate alla gestione della violenza durante i cortei. Questi credo siano i principali elementi del successo de La banda Bellini.
Negli ultimi anni stiamo assistendo a un recupero della narrazione storica e a una sorta di egemonia del vintage. Il recupero di stili dei decenni passati è forse una paralisi del pensiero che si rifiuta di creare e immaginare nuovi scenari. È un fenomeno che sottolinea la nostra incapacità a leggere e ad analizzare il presente. Rischiano di rimanere impigliati anche gli scrittori che raccontano e mitizzano figure di rivoluzionari e di movimenti del passato. Il tuo romanzo mi è sembrato fuori da questo rischio perché è un libro della memoria e del divenire e non delle radici e della rivendicazione. Un libro che rimane aperto come opera e come trasmissione dei saperi delle lotte. Non c’è traccia di cinismo, pessimismo, rinuncia… Come dice Toni Negri nella recensione del 2002 – che hai voluto come post-fazione – “la partita allora restava aperta e oggi è ancora aperta”.
Questa edizione è stata necessaria per le tantissime richieste che continuavamo a ricevere, l’Einaudi non lo ristampava da più da due anni. Interpreto questa attenzione al libro come un desiderio da parte delle nuove generazioni di conoscere quegli anni e confrontarli con il presente. Sì, è un libro che ci pone più domande che risposte, per questo rimane aperto. Quando ho iniziato il romanzo, alla Shake stavamo lavorando sulla tessitura del filo rosso che univa la storia del movimento operaio alla storia delle controculture, come ci avevano indicato i nostri maestri Cesare Bermani, Primo Moroni e Danilo Montaldi. Era necessario lavorare sulla cultura nostra, sulla cultura dei movimenti, che non ha niente a che vedere con l’indottrinamento universitario e con la storiografia ufficiale. È una storia che non verrà mai raccontata se non lo facciamo noi. In questo senso il romanzo è anche un’opera aperta, è un tassello della storia dei movimenti, tra passato e futuro. Ovviamente il testo è anche un romanzo, non solo storia orale e storia del movimento, e quindi ho tenuto conto dell’insegnamento che Nanni Balestrini ci ha mostrato con Vogliamo tutto, Gli invisibili, I furiosi, etc. C’è quindi un lavoro minuzioso sulla struttura, sul tessuto del linguaggio, sul confronto degli avvenimenti sociali del periodo preso in esame, realizzato consultando giornali, riviste, pubblicazioni.
Nel percorso dal ’68 al ’77, il romanzo attraversa i mutamenti economici e sociali (dall’operaio massa all’operaio sociale al rifiuto del lavoro), culturali ed esistenziali (il personale è politico, il femminismo, le culture alternative). Scrivevano nel 2012 i Wu Ming recensendo il romanzo: “Philopat, e la cosa non mancherà di suscitare polemiche, descrive con brutale onestà lo scontro tra l’immaginario della banda (epica combattente, solidarietà maschile nella battaglia) e quello del movimento femminista”. Questo libro può essere utile al presente?
Per una più corretta narrazione di quegli anni ho intervistato più persone, confrontando e valutando i punti di vista. In particolare le testimonianze delle donne che hanno fatto emergere alcuni dei nodi fondamentali dei piani di liberazione che in quegli anni si intrecciavano o si scontravano. Il disorientamento di Bellini di fronte a queste nuove emergenze è evidente, è un eroe-anti-eroe, che il racconto riesce a rendere simpatico grazie all’ironia e all’autoironia, che sarà una delle caratteristiche del movimento del ’77, proprio per disinnescare la paranoia militante e per lasciarsi attraversare dai piani di liberazione. Credo che l’attualità di questo romanzo sia duplice, considerato che viviamo in un momento di disorientamento totale, tra crisi economica e guerra che avanza. Una situazione di paranoia collettiva alimentata dalle scorie mediatiche di una società al collasso, dove è difficile trovare terreni comuni del confronto. Siamo in una fase in cui l’individuazione del respiro lungo della storia del movimento rivoluzionario è fondamentale.
Uno degli insegnamenti ancora validi degli anni Settanta è la ricerca di collegamenti e relazione tra varie istanze di liberazione in un desiderio di trasformazione generale. Come a dire: le lotte parziali scollegate da un piano di mutazione complessivo diventano reazionarie.
Sì, lo vediamo bene con ciò che sta accadendo oggi nel mondo. Una lettura della contemporaneità slegata dalla storia delle lotte di classe degli ultimi due secoli e nello stesso tempo delle modifiche del capitalismo è fuorviante. Questa interpretazione ce la indicava Primo quando parlava della necessità di prospettiva, di profondità storica e analitica. È quello che – secondo me – sta tentando di fare con determinazione Valerio Evangelisti nella trilogia Il sole dell’avvenire. Anche Andrea Bellini ha seguito questa direzione, decidendo di raccontare gli episodi del padre partigiano e del nonno “senza naso” antifascista e antistalinista.
Come risposta a un questionario sottopostogli nel 1968, Paul Celan scrive: “Io spero ancora e sempre in una trasformazione, in una svolta. Non saranno i sistemi proposti in ricambio a produrla, e la rivoluzione – quella allo stesso tempo sociale e antiautoritaria – è possibile solo partendo da quella trasformazione”. In politica, il concetto di rivoluzione – molto presente nel romanzo – non è più utilizzato da nessuno. Da cosa è stato sostituito il concetto di “rivoluzione”?
Rivoluzione, ribellione, rivolta, tumulto, insurrezione, disobbedienza… C’è un ripensamento necessario intorno a questi concetti, che credo continuerà a lungo. Io e il Duka, nel romanzo Rumble bee, sbagliando, pensavamo che l’onda delle rivoluzioni dei paesi del Maghreb potesse raggiungerci. Non è stato così, anzi quelle rivoluzioni si sono trasformate in altrettante trappole. Primo Moroni, lo cito ancora, sosteneva, già nei primi anni ottanta, che il capitale si era ristrutturato e che sarebbero stati necessari almeno venticinque anni prima che ci fossero risposte intelligenti da parte del movimento. Il respiro lungo, si diceva poc’anzi. Il capitalismo si è ristrutturato in maniera violenta e ha cancellato, azzerato, tutte le conquiste di almeno un secolo di lotte del movimento operaio. Eppure ci sono nel pianeta esperienze interessanti che vengono oscurate dalla disinformazione generale. Pensiamo alla Rojava e alle comuni “curde”, che poi non sono prettamente curde, perché non si fondano sulla dimensione etnica.
Forse un tentativo non riuscito c’è stato con il movimento globale di dei fine anni ’90 inizio 2000, però subito fallito sia a causa di inadeguatezze interne e progettuali, sia per la repressione (Genova 2001 e non solo), sia per un nuovo spostamento/trasformazione del capitalismo.Negli anni Settanta, Felix Guattari parlava già di Capitalismo Mondiale Integrato per definire l’assoluta continuità e contiguità autoritaria tra il capitalismo “occidentale” e il capitalismo di Stato sovietico. È una griglia interpretativa che forse può tornarci utile anche oggi, stritolati come siamo tra fascismo-democratico-capitalista e fascismo-capitalista-religioso.
Alla guerra che si va configurando in queste ultime settimane preferirei una rivoluzione. “Contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale”, era il titolo di un documento dei surrealisti, ancora sostanzialmente valido. Ma in fondo stiamo vivendo questo momento come una sconfitta per l’incapacità di agire efficacemente. Bellini dice, a proposito della sconfitta del movimento: “in questi momenti di inesorabile sconfitta devi essere forte, devi tenerti dentro come un diamante le esperienze belle che hai vissuto e cercare di tramandarle in ogni maniera”. Andrea mi è riconoscente perché gli ho tirato fuori questo diamante che aveva nascosto dentro. Perché quello è il filo rosso che unisce la storia dei movimenti, che permette alle nuove generazioni di continuare a tessere la rete di relazioni e analisi comuni.
Marco Philopat è agitatore culturale e scrittore. Ha pubblicato: Costretti a sanguinare, I viaggi di Mel e Lumi di punk; assieme al Duka: Roma k.o. e Rumble bee; e ha partecipato a numerosi progetti editoriali.