di Sandro Moiso
[Il testo che segue è stato precedentemente pubblicato, in forma lievemente diversa e con altro titolo, sul numero 37 della rivista quadrimestrale «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale» (maggio-agosto 2015)*]
“La precisione non è la verità” (Henri Matisse)
Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente.
La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace.
Lezioni delle controrivoluzioni aveva scritto anni prima della nostra presa di coscienza l’unico comunista italiano moderno, prima di cadere nel delirio della senescenza.
Lezioni dal disastro avremmo potuto scrivere noi, se ne fossimo stati capaci.
O ne avessimo avuto voglia. Ma fummo sempre e irrimediabilmente pigri.
O forse soltanto un po’snob. Poco attratti dall’intellighentsia e dai suoi rituali.
Preferivamo l’azione.
Ignoranti? Forse, oppure soltanto portatori di altre culture. All’epoca sovversive, oggi maleodoranti.
La riforma della scuola media unica, quella della legge n. 1859, entrata in vigore il 31 dicembre 1962, ci aveva aperto le porte della cultura superiore.
Uno dei miei più cari amici dice sempre che come figli di un operaio e di un benzinaio abbiamo fatto fin troppo. E forse ha ragione.
In casa non avevamo una ricca biblioteca. Anzi non ne avevamo proprio.
La mia fu la prima, ma mio padre portò a casa, con la prima fonovaligia, un 45 giri di Ray Charles e mia madre ci avrebbe ascoltato di tutto. Dal beat ad Orietta Berti.
Cosa avevamo da condividere con le classi alte? La licenza elementare di mio padre?
La terza elementare di mia madre? L’emigrazione in America dei miei nonni materni?
Cosa cazzo c’entravano quelli come noi con il liceo?
Erano gli anni del boom e delle belle speranze e i nostri genitori ci tenevano a farci fare il salto. Ma ci mancava l’allenamento e qualcuno, soltanto più tardi, riuscì solo a svendersi senza nemmeno troppa discrezione.
Quello sarebbe stato il nostro destino, già scritto nell’anagrafe sociale: rimanere invisibili oppure esagerare.
Comunque, com’è solito ripetere lo stesso amico, non ne azzeccammo mai una.
Almeno da un punto di vista borghese. Anche soltanto piccolo.
Non era nel nostro Dna. Le nostre catene elicoidali si avvolgevano intorno a secoli di timori reverenziali, di sopravvivenza e di rabbia contenuta.
Specie quando si discendeva da una famiglia di ebrei convertiti, come la mia.
Tutto ciò non avrebbe potuto far altro che condurre ad una vita di macerazione interiore.
Oppure esplodere. E così fu.
Gli antenati polacchi in fuga dai pogrom, la fatica dei campi, il fratello del nonno e primo marito di mia nonna disperso sull’altipiano di Asiago, la delusione resistenziale dei padri sarebbero esplosi con noi. Con me. Dentro di me. Chissenefrega…fuoco!
Ognuno di noi ha sicuramente in mente un anno particolare della propria vita, legato a episodi, drammi o gioie che l’hanno in qualche modo cambiata.
Alcuni anni hanno poi assunto un valore simbolico particolarmente forte: il ’68, il ’77, il 1967 e l’estate dell’amore, il’63 e l’uccisione di Kennedy oppure il 1978 e il rapimento Moro e così via. Per me quell’anno è il ’64, ma non a causa del generale De Lorenzo e del suo “Piano Solo”.1
Nella primavera morì il mio nonno paterno e non avrei mai potuto immaginare quale libertà ciò mi avrebbe regalato. Non per la sua presenza o meno, non ci eravamo frequentati moltissimo, ma per la fine della sorveglianza stretta cui mia madre mi aveva sottoposto fin dalla mia prima infanzia.
Così, a undici anni compiuti, ZAC! recisi definitivamente il cordone ombelicale con cui lei avrebbe voluto tenermi legato, forse, per sempre.
Mio padre ereditò la casa di campagna in cui il nonno viveva e, nonostante qualche rogna con la madre e la sorellastra, figlia di un precedente matrimonio della nonna con il fratello disperso del nonno, da quel momento la vecchia casa colonica divenne la meta fissa delle vacanze estive e dei nostri week-end. Così oggi posso celebrare il cinquantenario della Liberazione. La mia.
Ora a ben pensarci, dopo che anche quella casa è stata venduta durante la lunga malattia che poi portò mio padre a ricongiungersi con il genitore, quel paese dell’astigiano e quelle verdi colline non potrebbero più costituire il luogo più eccitante del mondo per un adolescente di oggi.
E nemmeno per un adulto.
Ma…cazzo! Lì mi fu possibile sfuggire alla sorveglianza di mia madre fin dalla prima estate. Grazie anche al fatto che lei doveva sorvegliare i lavori dei muratori, chiamati per ristrutturare la grande cascina. Per esempio fare un bagno in casa, visto che fino alla morte del nonno l’unico gabinetto era stato un bugigattolo sospeso sopra il letamaio.
Tutto molto ecologico, tutto molto vintage.
Già, il ’64. Anno delle mie prime scorrerie e della scoperta del potenziale sovversivismo che tanti anni di cure materne avevano così inconsciamente coltivato. O meglio, esasperato.
Più tardi, dopo il’68, un amico di quelle prime scorrerie che non avrebbe poi potuto continuare gli studi per andare a lavorare in una boita, una piccola officina del quartiere più tradizionalmente operaio di Torino, avrebbe acquistato “La proprietà è un furto” di Proudhon.
Non so se lo avesse poi letto per intero, ma certo quel titolo era affascinante.
Per noi ladruncoli di campagna. Abili a rubare la frutta nel momento esatto della maturazione sugli alberi oppure nell’infilarci in antiche dimore o cascine semi-abbandonate in cui avremmo trovato di tutto. Dalle antiche sale ricoperte di polvere vampiresca alla polvere da sparo e i pallini con cui ci divertivamo a costruire rudimentali bombe da far esplodere su fuochi vicino a cui ci coricavamo per sentire fischiare sulle nostre teste, e in prossimità delle nostre orecchie, pezzi di latta e palle di piombo.
Primi atti di una ritualità maschile di passaggio verso un’età adulta di cui i servizi d’ordine dei gruppi extra-parlamentari sarebbero stati il necessario e, all’epoca, inevitabile corollario.
Testosterone a mille, sesso ancora vietato e solo immaginato e, allora, via in cerca di emozioni a buon mercato. Con due nemici: la proprietà e i carabinieri.
Sì, proprio loro che già ci cercavano.
Non che non avessimo fatto nulla per farci notare.
Ad esempio dirottare di sera il traffico dei camion sulla provinciale verso le stradine strette del paese, utilizzando la segnaletica rubata in un cantiere stradale.
Oppure improvvisare blocchi stradali notturni, ma allora non li chiamavamo così, spargendo la solita provinciale di centinaia di pagine di giornale accartocciate che, da lontano e alla luce dei fari, sembravano centinai di sassi accumulati o dispersi sull’asfalto.
Poi uno dice: Dove le avranno apprese le tecniche della guerriglia?
Nei diari del Che o nel manuale di Carlos Marighella?
Macchè, tutta roba cucinata in casa. Tra le verdi colline del Monferrato.
Insieme alle risse con le bande di ragazzini dei paesi vicini e, poco dopo, alle corse notturne a fari spenti su motorini smarmittati per sfuggire alla stradale e ai soliti, onnipresenti carabinieri.
Che ci tendevano agguati, persino nel centro del paese dove si appostavano a fari spenti sotto la chiesa, che si trovava in alto e da cui potevano vederci di sera senza essere visti.
Per poi piombare a tutta velocità giù per la ripida discesa appena qualcuno di noi accennava a u movimento sospetto. Finirono con l’aspettarmi direttamente sul portone di casa per potermi multare. Per la solita rumorosissima marmitta a tromboncino. Ma lì eravamo già a cavallo tra ’67 e ’68.
Torniamo al ’64. Proprio nell’estate di quell’anno sarebbe uscito il primo numero di Kriminal.
Ideato da Luciano Secchi (in arte Max Bunker) e da Magnus (Roberto Raviola), il re del crimine fece fuori quella noia mortale rappresentata da Diabolik, le sue facce di gomma e la sua casta ed algida compagna Eva Kant. Gli altri fumetti erano già quasi del tutto scomparsi dalle nostre letture, ma Kriminal e Magnus ci avrebbero aperto altri orizzonti.
Oggi di sesso e sangue nella narrativa ne abbiamo fin troppo, ma allora la violenza dell’uomo dal teschio e la sensualità delle donne che lo circondavano, ora in funzione di vittime ora nel ruolo di amanti e collaboratrici, risultarono esplosive.
L’Italia era un paese bigotto dove, appeso all’interno delle porte delle chiese dei paesi di campagna, si poteva ancora trovare l’indice delle letture proibite. Praticamente tutte, tranne quei giornaletti che portavano stampigliata la sigla GM (Garanzia Morale) e i periodici ecclesiastici e vaticani.
Alla faccia del Concilio Vaticano secondo e del presunto ammodernamento promosso dal “papa buono”, Giovanni XXIII o vigesimo terzo come si diceva allora.
Un anno prima anche Tex Willer aveva dovuto indossare, per adattarsi ai tempi e al mutamento dei gusti, i paramenti mortuari da scheletro che lo accompagnarono per alcune avventure. Ossa bianche su sfondo nero, classiche come le storie di Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini.
Kriminal invece no: scheletro nero su una aderentissima tuta gialla. Gialla come i vietcong che da lì a poco sarebbero stati rappresentati in una delle sue storie mentre sparavano sui marines all’urlo di “Morte agli yankee e all’imperialismo americano!”.
Negli stessi anni alcuni giovani proletari della Barriera di Milano, quella in cui vivevo a Torino, sarebbero balzati nei titoli di testa di tutti i quotidiani. Più che con i western dovevano aver nutrito i loro sogni giovanili con i film di Cagney e Bogart. Poi la disillusione politica e la memoria recente della lotta armata partigiana fecero il resto. Sui muri di corso Giulio Cesare, la grande arteria della Barriera in direzione di Milano, c’erano ancora i segni dei colpi sparati dalle colonne tedesche in ritirata.
Anche Piero e Sante dovevano aver visto quei fori.
Avevo dieci anni quando iniziò l’avventura della loro congrega di fuorilegge proletari.
Era il 1963 e quello stesso anno, a Dallas, fu ucciso John Fitzgerald Kennedy.
Piansi per l’uno e mi appassionai agli audaci assalti di quella banda che non aveva ancora un nome ufficiale.Il circo mediatico televisivo iniziava allora a porre le sue basi e a trasmettere la morte in diretta.
Più che le audaci rapine, iniziate con un assalto ad una sede del San Paolo a Torino e finite con quello ad una filiale del banco di Napoli a Milano, fu la cronaca in diretta della fuga e della sparatoria finale a destare l’attenzione del neo-pubblico radio-televisivo.
Ero seduto nel tinello di mia zia quando, otto giorni dopo gli spari e il sangue, fu dato l’annuncio della cattura di Piero e Sante presso il casello ferroviari abbandonato di Villabella.
Ma a colpire ancora di più l’immaginario collettivo di chi già non si rassegnava all’esistente furono le dichiarazioni fatte al processo che li condannò a pesantissime pene.
Il pugno alzato nel momento della condanna all’ergastolo e il canto anarchico all’uscita dall’aula giudiziaria, tra lo scandalo di magistrati e pubblico benpensante. Era il 1968, ma di luglio.
Diciassette rapine e un bottino che procurò ai componenti della banda uno stipendio medio di duecentomila lire al mese.
Poco, maledettamente poco per le conseguenze poi pagate.
Ma all’epoca lo stipendio di un operaio si aggirava sulle cinquantamila lire mensili.
Poche lire sudate nella paura dei capi, della disoccupazione, di non farcela ad arrivare a fine mese.
Loro no, rifiutarono quel tipo di paura.
Nei quattro anni e mezzo vissuti da fuorilegge la paura la lesse negli occhi degli altri. Anche dopo il loro arresto, tra quei piccoli borghesi imbestialiti che avrebbero voluto linciarli davanti alla questura di Milano.
Li chiamarono belve e massacratori, come sempre si fa con gli sconfitti.
Ma ben poca cosa erano state le vittime dell’ultima, sospetta sparatoria rispetto a ciò che stava già avvenendo in Vietnam.
Il napalm non scuoteva le coscienze comuni, ma le rapine e il rifiuto dell’ordine basato sullo sfruttamento sì. Ieri ed ancora oggi. Così all’inizio degli anni settanta, a Torino, i comontisti diffusero un volantino intitolato Lotta criminale. Un altro cerchio era chiuso.
* Come precisa la Redazione della stessa rivista: “In questo numero di «Zapruder» proponiamo una riflessione storica sui processi di formazione della classe lavoratrice. Un tema indubbiamente “classico”, che proviamo tuttavia ad affrontare attraverso chiavi di lettura nuove. Per cominciare, suggeriamo una triplice espansione del campo della nostra ricerca: pensiamo ai lavoratori e alle lavoratrici non necessariamente come a dei salariati; sottolineiamo che il lavoro è anche altro rispetto all’attività manuale della produzione di merci; ribadiamo che i luoghi della produzione capitalista, come la fabbrica, non sono gli unici luoghi in cui cercare e indagare la classe. Parleremo di lavoratori e lavoratrici, e dunque di conflittualità sociale, migrazioni, territori, genere, etnia.
Allo stesso tempo, cercheremo di indagare il modo in cui le definizioni e le auto)percezioni della classe diventano parte integrante del processo di formazione – o non formazione – della classe“.
– Indice:
http://storieinmovimento.org/2015/08/02/trentasettesimo-numero/ ))
(Fine della prima parte – continua)
https://it.wikipedia.org/wiki/Piano_Solo ↩