di Fabrizio Lorusso
[Una versione estesa di questo articolo è contenuta nel libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, edito da END Ed. di Gignod, Aosta (QUI prologo di M. Vaggi “L’isola dei non famosi”). Segnalo la prossima presentazione del libro venerdì 15 gennaio a Sirtori, Lecco (dettagli a questo link). In versione cartacea il testo è uscito anche sul numero 10 (nov. 2014) di (NRL) Nuova Rivista Letteraria. Semestrale di letteratura sociale, edita da Alegre, Roma, col titolo “Le macerie di Haiti, 5 anni dopo il terremoto”. Il numero attuale di NRL è dedicato a “nazionalismi, populismi di destra e razzismi”. Lo trovi qui e puoi leggerne una recensione su Carmilla qui. Sulle nuove e vecchie schiavitù e la migrazione dei lavoratori haitiani nelle coltivazioni di canna da zucchero della vicina Repubblica Dominicana segnalo l’uscita del bel libro di Raùl Zecca Castel Come schiavi in libertà, Ed. Arcoiris, Salerno, 2015]
Aggiornamento introduttivo (12/01/2015). Gli effetti del devastante terremoto del 12 gennaio 2010 ad Haiti furono e sono tuttora amplificati da una lunga lista di fattori storici, politici, economici e sociali. Sei anni dopo il sisma, che fece circa 250mila morti, il paese più povero delle Americhe vive una profonda crisi politica e non è avventato ricorrere alla definizione di “Stato fallito” per parlare del suo sistema di governo e istituzionale. Il quadro è fosco: le elezioni parlamentari, che erano state rimandate per ben tre anni, si sono svolte (primo turno) il 9 agosto in un clima da guerra civile; pacifico, invece, lo svolgimento del secondo turno delle parlamentari e il primo delle presidenziali, il 25 ottobre, anche se da settimane i partiti sconfitti protestano nelle strade denunciando brogli per cui il Consiglio Elettorale ha dovuto posticipare il ballottaggio per l’elezione del presidente dal 27 dicembre al 17 gennaio; l’epidemia di colera, scoppiata a fine 2010, ha fatto 9.000 vittime fino ad ora e nel 2014 era praticamente sotto controllo, mentre nel 2015 c’è stata una nuova impennata dei contagi; il parlamento è rimasto praticamente inoperante e l’esecutivo ha governato via decreto nell’ultimo anno; continua la crisi diplomatica e umanitaria con la Repubblica Dominicana, che sta espellendo in massa haitiani dal suo territorio in base a risoluzioni giudiziarie dal tenore palesemente razzista; le proteste e le manifestazioni post-elettorali denunciano anche cooptazioni massicce del voto e la strategia governativa in favore del suo “candidato ufficiale” (Jovenel Moïse, delfino del presidente Michel Martelly, del partito PHTK, Parti Haïtien Tet Kale); il rinvio del voto al 17 gennaio è anche conseguenza di questa situazione e si sfideranno il governativo Jovenel Moïse e il rappresentante d’una opposizione moderata, Jude Celéstine; anche il nuovo parlamento s’insedierà dunque in ritardo, in attesa dei risultati elettorali].
Haiti e l’industria della fame. Flashback (inizio 2010)
Claire indossa una camicia bianca elegante, i jeans puliti e le scarpe da tennis nuove, adatte alle lunghe camminate. E’ uscita di fretta, il passo deciso. Brilla in mezzo alle macerie. Trotta in salita evitando immensi cumuli di mattoni, tombini scoperchiati e pali della luce divelti in mezzo al marciapiede. Stanca di questa gincana senza scopo, si siede sullo spigolo di un macigno che invade la carreggiata rallentando il traffico. Lungo la Rue Delmas si boccheggia, il sole sembra rimanere fisso allo zenit per tutta la giornata, portando l’asticella del termometro sopra i 30 gradi. Lo smog tipico di una caotica metropoli caraibica si mischia alla polvere della distruzione, al vagare disperato di moltitudini alla ricerca di un motivo per spiegare la tragedia e di un pezzo di pane per palliare i morsi della fame.
Sono passate tre settimane dal terremoto, una tremenda scossa che in 39 secondi ha fatto 250mila vittime nella capitale di Haiti, Port-au-Prince (colloquialmente, PAP). Il 12 gennaio, giorno della catastrofe, Claire era fuori di casa e s’è salvata. A suo cugino, sua zia, a molti amici del quartiere e a tantissime altre persone non è toccata la stessa fortuna. Lei ha ancora una casa e una madre. Un milione e mezzo di suoi concittadini invece dormono nei giardini pubblici, sui marciapiedi o nei campi di accoglienza allestiti alla buona in oltre mille siti d’emergenza sparsi per la città.
Claire, però, ha fame. Sua madre non si fa vedere da un paio di giorni. Qualsiasi bene di prima necessità è diventato un lusso inaccessibile. Solo chi vive nelle tendopoli può accedere a qualche razione di riso e fagioli. Gli altri devono arrangiarsi, ingegnarsi, cercare lavoretti giornalieri o chiedere la carità. Sì, ma a chi? La ragazza osserva i passanti da dietro lo scoglio su cui s’è accovacciata, che in realtà è ciò che rimane del secondo piano di un piccolo albergo. Claire è in attesa d’incrociare qualche blanc, qualche straniero a cui parlare e chiedere aiuto. Siamo in due, in esplorazione nel mezzo delle macerie e della confusione, a pochi giorni dall’arrivo sull’isola. Due sconosciuti di nome Diego e Fabrizio che Claire avvista e segue. Trenta, quaranta, cinquanta passi accelerati dietro di noi, e poi effettua il sorpasso. Gentile, domanda se abbiamo da mangiare. Semplicemente, con lo sguardo abbassato e il tono risoluto. Le offriamo dell’acqua e la invitiamo ad accompagnarci.
La chimera della ricostruzione
Subito dopo il terremoto partì un’ipocrita e sfrenata gara per la solidarietà. Chi offre di più? ONU, governi, impresari, cittadini, siti web, associazioni e ONG riversarono una massa di promesse e buone intenzioni monetizzabili in circa 11 miliardi di dollari. Di questi, a oltre un anno dal sisma, solo il 5% era stato stanziato e “messo a budget”, cioè destinato a opere di ricostruzione. La vera gara, allora, diventò quella per gli appalti, la cui gestione fu affidata all’ex presidente USA Bill Clinton, a capo della CIRH (Commissione Interina per la Ricostruzione di Haiti) insieme al Primo Ministro haitiano. Questa carica, tra l’altro, rimase per più di un anno scoperta per via dell’impasse politica in cui si trovò il presidente-cantante Michel Martelly dopo il suo insediamento nel 2011. E’ allora facile immaginare chi fosse a prendere realmente le decisioni sul destino delle donazioni.
Nei primi due anni di “ricostruzione” la situazione è rimasta stabile, stagnante, identica a quella che imperava nel febbraio 2010, il mese in cui sono stato a PAP. In quel periodo il presidente René Préval dovette consegnare il paese “chiavi in mano” a un consorzio di banche e governi che avrebbero deciso come (e se) ricostruirlo. Oggi l’80% delle macerie è stato rimosso, ma gli sforzi per la ricostruzione sembrano essersi orientati più all’edificazione di hotel di lusso, impianti d’assemblaggio e fabbriche di indumenti, in beneficio di compagnie e investitori in prevalenza stranieri, che ai bisogni della gente. Tra il 2010 e fine 2012 i fondi stanziati dalla comunità internazionale per Haiti hanno raggiunto la cifra di 6,43 miliardi di dollari, ma solo il 9% di questi è passato in qualche modo dal governo locale. L’ammontare dei contratti concessi dall’agenzia americana UsAid è stato di 485,5 milioni di dollari di cui solo l’1,2% è andato a imprese haitiane.
Nel 2012, quando ancora mezzo milione di persone abitava nelle tendopoli, il “fondo umanitario” per Haiti degli ex presidenti USA Bill Clinton e George Bush (figlio) investì 2 milioni di dollari nell’hotel a cinque stelle Royal Oasis, un’enclave nel mezzo di un’area urbana devastata. Un anno dopo, con 300mila sfollati ancora nelle tende, l’International Financial Corporation (IFC), parte del gruppo della Banca Mondiale, decise di finanziare la costruzione di un nuovo hotel Marriott che avrebbe generato “ben” 200 posti di lavoro dal 2015 e 300 durante la costruzione. L’albergo farà compagnia ad altre strutture dell’americana Best Western e della spagnola Occidental Hotels & Resorts, anch’esse risorte per il benessere turistico dell’isola, anche grazie ai fondi della solidarietà internazionale e a benefici fiscali inusitati di cui godono durante i primi quindici anni di attività. I meccanismi della cooperazione e una bella fetta delle donazioni fungono da ingranaggi e lubrificanti per l’apertura di nuovi mercati, attraenti per le multinazionali americane, giapponesi, latinoamericane ed europee, e per un manipolo di compagnie nazionali in mano alla ristretta élite locale.
“Haiti ha le condizioni fondamentali per una crescita economica sostenuta, incluse una forza lavoro competitiva, la prossimità a grandi mercati e attrazioni turistiche e culturali uniche”, sosteneva Ary Naim, rappresentante di IFC ad Haiti. Probabilmente si riferiva alla schiavizzazione dei lavoratori nelle mine e nelle “fabbriche miserabili”, note in inglese come sweatshops, impiantate dagli investitori statunitensi e poco rispettose del già infimo salario minimo nazionale, fissato a 4 dollari e mezzo. Si tratta, dunque, di una forza lavoro altamente “competitiva”, cioè sfruttata e a basso costo, ma comunque produttiva nonostante la fame, il colera e la precarietà salariale e abitativa imperante nel paese.
Nel 2014, con circa 140mila persone sparse in 243 tendopoli, non s’investe più solo nei progetti alberghieri, ma si punta sull’espropriazione e privatizzazione delle coste e delle isole haitiane, come nel caso della Île à Vache, un piccolo paradiso che è diventato territorio di conquista per investitori americani, dominicani e di altri paesi. Il Collettivo dei Contadini di Île-à-Vache (KOPI), costituito nel dicembre 2013, lotta per difendere gli abitanti dell’isola dalla migrazione forzata, dall’espulsione dalle proprie terre e dalla crisi alimentare e ambientale che i nuovi megaprogetti turistici stanno provocando: disboscamento, riduzione delle coltivazioni e 20mila persone cacciate via dalle brigate motorizzate della polizia, a cambio di 2000 posti di lavoro promessi dal settore alberghiero e 1500 residence che occuperanno la costa. Il Collettivo non osteggia il turismo in quanto tale, combatte gli effetti nefasti di progetti calati dall’alto e dall’estero, in spregio delle comunità locali, costrette a migrare ingrossando le file dei disoccupati o dei lavoratori sfruttati nelle fabbriche che popolano i quartieri slum delle grandi città.
Flashback (continua)
Claire si guarda intorno curiosa. Avrà diciott’anni. Ci troviamo a soli tre isolati dalla sede dell’AUMOHD, l’associazione di avvocati per la difesa dei diritti umani che ci ospita. Il suo presidente, Evel Fanfan, usa la casona dell’organizzazione come ufficio, magazzino di viveri e medicine, dormitorio improvvisato, “centro servizi” per gli abitanti del quartiere, e infine come mensa e rifugio d’emergenza per alcuni terremotati e per i cooperanti o i giornalisti in visita. E’ il nostro caso. Claire ha accettato con piacere il nostro invito a pranzo. A sprazzi, in un francese didattico e ben scandito, necessario a farci capire, ci racconta un po’ della sua vita e del giorno del terremoto, le douce janvier, che ha cambiato l’esistenza di tutti e il corso della storia haitiana. Di fronte a noi, adesso, ci sono un muro di cinta bianco e una porta con un cartello in creolo. L’AUMOHD s’è trasformato in un piccolo centro d’accoglienza. Gli operai di un sindacato indipendente usano la sede dell’associazione per fare le loro riunioni e ricostruire vincoli, contare i danni e rimboccarsi le maniche. Le donne e gli uomini incaricati delle pulizie lavorano di mattina e aspettano l’ora di pranzo prima di andarsene.
Instancabile, Evel è sempre indaffarato. Il suo cellulare squilla ogni 5 minuti. Risponde in inglese, in creolo o in francese. Cerca fondi, ascolta racconti, appunta piani d’azione su una lavagnetta, visita tendopoli e ambasciate, cliniche e prigioni. A volte sembra agire d’istinto, in preda a una strana frenesia. Sta provando a rintracciare gli altri avvocati del gruppo per riprendere le attività, ma la situazione è troppo grave, i palazzi ministeriali e i tribunali sono crollati, tutti i lavori sono fermi. Per un po’ non ci sarà tempo per seguire processi, urge sopravvivere, procurare il cibo, comprare la benzina per il generatore, l’acqua e le medicine.
Dopo il sisma, l’acqua è diventata un bene di lusso. Per acquistare una bottiglia o una bustina di plastica, da bucare con gli incisivi e succhiare fino all’ultima goccia, ci vogliono 2-3 dollari. Haiti ha sete e trova l’acqua potabile solo nei campi d’accoglienza, allestiti in ogni quartiere cittadino e per la strada, o in vendita sulle bancarelle degli ambulanti. Il supermercato, sebbene abbia riaperto poco dopo il terremoto, è privo della metà dei prodotti e carissimo, inaccessibile agli haitiani. Se prima del 12 gennaio i tre quarti della popolazione vivevano sotto la soglia della povertà, la situazione s’è drasticamente aggravata dopo la scossa tellurica che ha raso al suolo quasi tutta la capitale e il suo hinterland.
La cacciata del presidente, i caschi blu e il colera
Nel 2004, quando Haiti stava per festeggiare 200 anni d’indipendenza, l’ex prete Jean-Bertrand Aristide, primo presidente eletto in democrazia nel 1990 e costretto all’esilio da un golpe tra il 1991 e il 1994, fu deposto nuovamente da un colpo di stato e inviato fuori dal paese, anzi, fuori dall’emisfero occidentale. I militari USA lo deportarono nella Repubblica Centroafricana, dove rimase per più di sette anni, prima di tornare in patria nel marzo 2011. Oggi Aristide deve difendersi da vari capi d’accusa: traffico di droga, sottrazione di beni pubblici, espropriazioni illegali, concussione e riciclaggio. Due mesi prima era rientrato anche l’ex dittatore (1971-1986) Jean-Claude “Baby Doc” Duvalier, figlio di un altro tiranno, François “Papa Doc” Duvalier (al potere dal 1957 al 1971). Pasciuto e ora disposto a “aiutare il suo popolo”, dopo un quarto di secolo di esilio dorato in Francia grazie ai soldi di famiglia, cioè del popolo haitiano, Baby Doc è stato messo sotto processo per crimini contro l’umanità e corruzione, ma ad Haiti i processi andavano al rallentatore e i gruppi organizzati di vittime della dittatura hanno presentato il caso alla Corte Interamericana dei Diritti Umani. Ma purtroppo nemmeno in quella sede otterranno giustizia. Infatti, il 3 ottobre 2014 Duvalier è morto d’infarto. Ha potuto passare serenamente gli ultimi momenti della sua vita nel suo paese, nel lussuoso quartiere della capitale in cui risiedeva, e rimanere impune.
Aristide, da presidente, aveva osato troppo: tentativi d’aumento del salario minimo, soppressione dell’esercito, protezione sociale per i più deboli, rivendicazione del debito storico pagato da Haiti alla Francia e un piano per recuperare il controllo di alcune risorse strategiche suscitarono i timori americani e internazionali di dover fronteggiare un “Hugo Chávez caraibico”. Gli USA, tramite la CIA e l’IRI (International Republican Institute), fomentarono gruppi ribelli e paramilitari per destabilizzare il suo esecutivo e tra il 2004 e il 2006 sostennero il governo autoritario di Alexandre Boniface e del Primo Ministro Gérard Latortue. Fu un periodo d’eccezionale violenza politica, con scontri tra i “ribelli” e la polizia, da una parte, e le bande armate pro-Aristide, le note chimères, ma anche gruppi di comuni cittadini, dall’altra. In pochi mesi si contarono quattromila omicidi politici e l’incarceramento di decine di leader sociali e oppositori.
Nel frattempo la Missione ONU ad Haiti, la MINUSTAH, si stava occupando di “ripulire” con la violenza i quartieri marginali della capitale, in particolare Citè Soleil, dove con la scusa di combattere la criminalità, nel luglio 2005, le “forze di pace” fecero decine di vittime sparando sulle case della povera gente, proprio in uno dei bastioni elettorali del partito del presidente in esilio (il Fanmi Lavalas). Da un decennio l’avvocato Evel Fanfan difende alcune vittime delle stragi di Citè Soleil e di altri brutali episodi del terrorismo di stato. Perciò è stato minacciato di morte, vive con la scorta, formata solo da un poliziotto che fa atto di presenza, e qualche mese fa, dopo nuove minacce e un attentato cui è riuscito a sfuggire per puro caso, ha deciso di mettere al sicuro sua moglie e i suoi due figli negli Stati Uniti.
WikiLeaks ha rivelato che nel 2008, durante il mandato dell’ex delfino di Aristide, Préval, l’ambasciatrice americana a Porto Principe, Janet Sanderson, parlò addirittura di una minaccia emisferica costituita dal risorgere di “forze politiche populiste e anti-mercato”, e poi chiarì che “l’impegno latinoamericano coordinato regionalmente ad Haiti non era possibile senza l’ombrello delle Nazioni Unite che aiuta gli altri principali donatori, con in testa il Canada, gli USA, la Francia, la Spagna, il Giappone e altri, a giustificare internamente la loro azione d’assistenza bilaterale”. In soldoni l’ONU e la MINUSTAH, che è comandata dal Brasile e svolge funzioni di polizia e militari, aiutavano e aiutano i paesi coinvolti a spiegare alle loro rispettive opinioni pubbliche perché investono in imprese e missioni neocoloniali sotto l’egida statunitense. Proprio i caschi blu, in particolare il contingente nepalese, sono responsabili di aver portato sull’isola il virus del colera che ha fatto 9mila vittime e quasi 750mila contagi dall’ottobre 2010. Ci sono voluti 813 giorni dallo scoppio dell’epidemia perché l’ONU presentasse delle scuse.
Flashback (fine)
Il pranzo all’AUMOHD è un rituale. A turno uno degli ospiti o qualcuno dello staff, formato da conoscenti di Evel che lui prova ad aiutare con piccoli lavori, un tetto e un paio di pasti al giorno, s’occupa di preparare un pentolone di riso coi piselli o coi fagioli, oppure una copiosa razione di pasta, condita con improvvisate salse di pomodoro e pesce maciullato. Noi, oltre a svariati pacchi di spaghetti, abbiamo portato tre chili di cuscus che rende tantissimo. Spugnoso e assorbente, si gonfia d’acqua, imbiondisce e cresce a dismisura per sfamare tutti e tutte. Arricchiamo il piatto con zucchine, cipolle e carote soffritte per offrire un pasto completo. Qui lo chiamano “Piti Mi”, il “piccolo me”, anche se abbiamo scoperto che quel termine significa miglio o sorgo e non cuscus. Essendo un alimento mediterraneo, risulta quasi sconosciuto a queste latitudini e viene assimilato al locale Piti Mi. E’ una parola molto musicale che i commensali non si stancano mai di ripetere, ridendo fragorosamente e chiudendo il verso con la rima “Piti-Mi-Haitì”, “il-cus-cus-Haitì”, un vero rap culinario. Claire ne mangia due porzioni, ride di gusto, ringrazia e ci saluta: “Au revoir”, ma non l’abbiamo più rivista.
Ogni mattina e dopo pranzo, io e Diego siamo gli incaricati ufficiali della preparazione del caffè espresso. Abbiamo con noi un’impeccabile moka da quattro, quindi dobbiamo fare almeno quattro caffettiere una dopo l’altra per poter accontentare tutti. Per gustare meglio la bevanda, abbiamo riciclato una decina di vasetti di vetro degli omogeneizzati come tazzine. Li abbiamo comprati al supermercato per avere a disposizione delle “merendine extra” o dei rinforzini per la cena, ma poi, una volta consumate le saporite pappette per bebè, abbiamo preso a riutilizzare i contenitori per berci il caffè. Abbiamo scoperto, però, che i nostri compagni haitiani non li lavavano insieme alle altre stoviglie, ma li buttavano e preferivano usare al loro posto dei grossi bicchieri di plastica che, a loro volta, finivano nella spazzatura. Ci abbiamo comunque riprovato. Abbiamo acquistato un nuovo set di tazzine-vasetti e, dopo aver rimosso l’etichetta degli omogeneizzati, siamo riusciti a fargli ottenere un posto d’onore nell’apposito scaffale insieme agli altri veri bicchieri di vetro.
Haiti, le ONG e l’emergenza permanente
Nell’aprile 2014 il World Food Program ha lanciato un allarme sull’insicurezza alimentare nel Nordovest di Haiti, ma, anziché fungere da denuncia delle cause reali del problema o da invito per il governo e la comunità internazionale a stimolare la produzione locale, il monito è servito da scusa per chiamare a maggiori sforzi nelle donazioni e nell’invasione di prodotti alimentari dall’estero. Negli ultimi due anni il prezzo di fagioli, riso e altri alimenti è cresciuto del 40% e si sono moltiplicate le proteste popolari, soprattutto nel Nord, nel distretto di Cap-Haïtien. For Haiti With Love, organizzazione cristiana “non profit”, ne ha approfittato per chiedere ai suoi sostenitori maggiori sforzi: “Dobbiamo pregare veramente affinché più gente s’interessi ad Haiti e più gente aiuti a condividere il fardello degli aiuti laggiù, ma l’aiuto finanziario diretto è quello di cui abbiamo realmente bisogno proprio ora”. E così, tappando qualche buco con cibi importati e orazioni, la protesta sociale viene ammansita e il business può continuare.
L’80% dei dieci milioni di haitiani vive in povertà, con un reddito inferiore al già di per sé miserabile salario minimo di 4,54 $ al giorno. Un milione e mezzo di loro soffre la fame, 6 milioni e 700mila non riescono a coprire regolarmente i loro bisogni alimentari e un quinto dei bambini è in stato di denutrizione, nonostante gli innumerevoli programmi assistenziali internazionali. Anzi, è più realistico, anche se paradossale, pensare che alla radice del problema ci siano proprio questi. La stampa tende a presentare i problemi di Haiti, estrapolandoli dal contesto neocoloniale in cui si sono generati, come causati dal clima o dalle catastrofi naturali, dalla presunta violenza dei suoi abitanti o dalla corruzione dei suoi politici. Le responsabilità e gli abusi dei governi e delle agenzie straniere, che si spartiscono gli aiuti e limitano lo sviluppo democratico, sono spesso taciuti o normalizzati. E così succede anche con le operazioni delle ONG, oltre 10mila in territorio haitiano, i cui sprechi e costi logistici arrivano a mangiarsi fino al 60% del loro budget. Inoltre Haiti non è un paese violento, il suo tasso di omicidi è di 7 ogni 100mila abitanti, mentre la media dei Caraibi è 17, in Messico è 24, in Honduras 91 e nella “pacifica” Costa Rica 10.
Perché Haiti ha fame?
Gli appelli sulla “emergenza fame” ad Haiti finiscono spesso per soccorre le economie dei produttori americani e degli intermediari, agenzie governative e non, che amministrano la distribuzione o rivendita degli alimenti. Haiti Grassroots Watch (HGW) è uno dei pochi media alternativi su Haiti. “Perché Haiti ha fame? Perché la fame morde più adesso che negli ultimi 50 anni?”, recita il titolo di un articolo sul loro sito. I portavoce della Rete Nazionale per la Sovranità e la Sicurezza Alimentare (RENAHSSA) imputano al governo l’aggravamento della situazione, ma è da molto più tempo che economisti, agronomi agenzie umanitarie ed “esperti” internazionali disegnano progetti e vincono commesse, contratti e generose borse per affrontarla.
I donanti controllano miliardi di dollari per “aiuti alimentari”, “allo sviluppo”, “assistenza umanitaria” e programmi agricoli che non toccano le cause strutturali della fame. HRW ne cita sei: (1) la povertà, la precarietà salariale e la privatizzazione di tutti i servizi pubblici, indisponibili alla maggior parte della popolazione; (2) il sistema di proprietà della terra e la mancanza di una gestione razionale, l’inesistenza di un catasto, l’uso politico della terra data in ricompensa dai governanti ai propri alleati; (3) le politiche commerciali neoliberali, impulsate da USA, BM e FMI, che hanno ridotto le protezioni tariffarie sui prodotti nazionali e causato esodi dalle campagne alle città (anche per questo la sovrappopolazione e la precarietà abitativa a PAP fecero incrementare i danni e le vittime del terremoto del 2010); (4) l’aumento demografico in un contesto di produzione agricola stagnante, basata su tecniche e strumenti obsoleti, abbandonata dallo stato e soffocata da donazioni e importazioni straniere e dall’uso del carbone vegetale come combustibile, con la conseguente deforestazione quasi totale del territorio; (5) l’impatto negativo di vari meccanismi di “assistenza” che portano soldi a progetti e organizzazioni estere ma non al governo haitiano o alle associazioni locali, per cui non ci si concentra sulle cause strutturali della fame ma solo su emergenze e contingenze; (6) le inefficienze del mercato interno, le pratiche oligopolistiche degli importatori di cibo che mantengono i prezzi alti.
L’industria della fame
Gli aiuti internazionali e le politiche commerciali legate alla fame di Haiti, al settore alimentare e a quello agricolo, sono state disastrose e contradditorie. Secondo HGW la quota maggiore (più del 50%) degli aiuti alimentari mondiali diretti a Haiti proviene da programmi governativi statunitensi e arriva in parte al governo haitiano, in parte ad alcune agenzie come il World Food Program e in parte a contrattisti come World Vision, CARE, ACDI-VOCA e Catholic Relief Service. Tra il 5% e il 10% del cibo consumato ad Haiti entra con queste “importazioni” a basso costo che sfiancano i produttori locali facendo dumping e favorendo la cosiddetta “monetizzazione” degli aiuti alimentari. In pratica il governo USA compra riso, grano, farina, oli vegetali, carne di pollo e fagioli ai propri produttori, dato che per legge la stragrande maggioranza del cibo donato deve essere made in USA. Poi lo spedisce a enti governativi stranieri o alle organizzazioni umanitarie che a loro volta possono venderlo, “monetizzandolo”, per ottenere contanti freschi per i loro progetti.
La “industria della fame” è un grosso affare per cui si devono creare mercati coatti e negli USA il governo deve periodicamente segnalare le emergenze alimentari internazionali per attribuire contratti e riattivare consumi nei paesi in via di sviluppo. Negli anni ottanta e novanta Haiti è stata forzata da FMI, USA e World Bank a fissare le più basse tariffe all’importazione di prodotti agricoli tra i paesi dei Caraibi, mentre prima la protezione arrivava fino al 50%. Così nel 2011 l’esportazione agricola americana verso Haiti ammontava a 326 milioni di dollari e la dieta degli haitiani era cambiata: il riso e il pollo avevano sostituito il mais, il sorgo (il Piti-Mi!) e i tuberi. I coltivatori locali sono stati progressivamente estromessi dai più produttivi e sovvenzionati competitors statunitensi e gli aiuti hanno contribuito ad aprire mercati che in precedenza erano marginali o serviti dagli agricoltori nazionali. Anche per questo le campagne haitiane languiscono e la fame è una piaga endemica. La fame e le macerie di Haiti non hanno bisogno di carità e promesse ma dell’autonomia e della libertà che le possano rimuovere, trasformandole in nuove lotte e speranze.