di Jago Malteni
[A questo link tutte le puntate de L’Arca della Fattanza – Disegno di copertina di l’éparvier]
I giorni s’accorciano.
Ottobre volge al termine, novembre è alle porte.
Alle sei è già buio, e piove a dirotto. Il frangersi delle gocce sull’esterno dei vetri produce un picchiettio leggero, che per la breve durata di qualche istante regala a Giobi un mesto e vacillante senso di casa.
È lì, del resto, che adesso si trova, precipitato tra le macerie lasciate in giro dai muratori. Da domani, dicono, avrà inizio la ricostruzione.
Raccatta le poche rimanenze di frigo e se le fa bastare per cena. Poi, senza neppiù la forza di alzarsi da tavola, si gira una canna con l’erbetta di Luca e l’accende con movenze da invertebrato.
Negli ultimi giorni – nemmeno s’è accorto come – s’è trovato coinvolto in una spirale di eventi ipnotica e rocambolesca, senza apparenti vie d’uscita. Impossibile, una volta dentro, tirarsene fuori.
E ora che il ciclone s’è chetato, Giobi vorrebbe tanticchia pigliare pace, fermarsi a rifiatare, riflettere, rassemblare le cose e provare a metterle in fila, tirarne le somme. Ma niente, nisba, non ce la fa. Ha il cervello in loop e i pensieri ancora troppo in subbuglio: al loro posto un vorticare ininterrotto d’immagini in caduta libera, ritagli e scampoli di maschere e voci come tasselli d’un mosaico incompiuto, pezzi sparpagliati di uno stesso puzzle che a occhio sembrano combaciare ma che poi, all’atto di congiungerli, non danno mai l’incastro giusto. Cerchi, che invece di chiudersi s’inanellano in spire sempre più grandi, finendo per diffrangersi in geometrie non-euclidee, sdrucciolevoli e scomposte, come cocci scaleni di uno specchio infranto.
Giobi giochicchia con l’accendino. L’insperatamente ritrovato, suo fedele e inarraffabile accendino. Avvicina il posacenere per ciccarci dentro. Poi, tirata una boccata profonda, la trattiene a lungo nei polmoni. Nel silenzio della cucina può udire il crepitio della cartina che brucia, dell’erba e del tabacco che ardono e si fanno cenere…
E “lentissimamente ruotano le adiacenze immediate”, e iniziano a confondersi il visibile e l’invisibile, la veglia e il sonno, realtà e surrealtà e allucinazione. E senza continuità di soluzione s’accavallano le due dimensioni dei graffiti con le tre del mondo fuori, l’orizzontale e il verticale col sotto e col sopra, all’incrocio preciso tra l’inferno e il paradiso, tra la terra e il cielo, tra i bassifondi e lo spazio aperto. Perché davvero a un certo punto è stato come se il ventre della città lo avesse risputato fuori con un rigurgito, sbalzato dalle viscere del sottosuolo fino alla vertigine dei tetti, dalla condanna alla salvezza in poco meno di un minuto.
Un altro tiro, poi un altro ancora. Principi attivi s’immettono nei vasi sanguigni e dai polmoni vanno a spandersi lungo i milioni di capillari, a invadere le periferie del corpo che, stanco morto, s’affloscia.
E si accalcano, senza tregua, tutte le nutrie e gli scoiattoli e i neri-conigli di questo mondo, ombre di altrettanti bianconigli che non esistono se non in quell’altro, di mondo, in quel paese delle meraviglie a cui non s’approda che lasciandosi trasbordare da una delle tante versioni cripto-dantesche del Caron-dimonio-con-occhi-di-bragia, con tanto di stige da oltrepassare una volta varcata la soglia degli inferi.
E si frappongono, in un limbo sospeso a mezz’altezza, tutte le scritte e i graffiti del centro, a formare un graffito unico che li comprende tutti ma che un senso proprio non ce l’ha, o se ce l’ha non sa trattenerlo e lascia che si disparga in mille rivoli, lungo più d’altrettante strade possibili, al punto che una vale l’altra visto che alla fine, quale che sia il percorso che scegli, ti ritrovi sempre al punto di partenza, a pensare che il tuo, di percorso, non sarà mai quello giusto, datosi che in fondo lo sono tutti quanti. E tu non potrai far altro che girare e girare ancora in tondo, nella giungla metropolitana che t’avvolge e ti trangugia, centrifugato di qua e di là dall’occhio cieco di un ciclopico ciclone, nel labirinto in saliscendi contro i cui spigoli sbatacchierai la testa fino a farti male e non sentire più dolore.
È un bordello, è tutto un cazzo di bordello.
Come ha potuto mai sognarsi di cercare un ordine, o anche solo di vedercelo, dentro una caos di ‘sta maniera?
“Era un eunuco che si faceva seghe immaginarie agitando il braccio nel vuoto”, direbbe il Pompeo di Andrea Pazienza.
Eppure, prima che tutto avesse inizio, era proprio la ricerca di un senso che ne dava uno al suo girovagare per i cigli delle vie del centro.
Lo spino è a metà, spento o quasi. Giobi lo ravviva con un paio di boccate decise.
Dov’è il bandolo della matassa? E cosa resta di tanto sgrovigliare se non un ringarbugliarsi ancora più confuso?
Soprattutto, c’è una risposta che dia senso – un fine, una fine – a queste fottute domande?
Giobi riavvolge il nastro e torna al principio: ripensa all’abbiocco nei giardini di San Leo, alle bottigliate della Signora Anna e al coniglio nero che lo ha condotto da lì fino al Guasto; ripensa all’arca della fattanza e a tutte le allucinazioni di quella notte funesta; all’ingresso segreto per chiavette USB e a quelli per la bolognanderground, tra la Vita e la Morte prima e in via dell’Inferno poi; ripensa agli scontri di Piazza Verdi e ai fricchettoni dello studentato occupato, alla truffa architettata male e riuscita ancora peggio; ripensa al suo accendino e alla sbarba cleptomane che era riuscita a sgraffignarselo; ripensa alla gang, allo gnomo bolognese e all’Incredibile Hulk dei Balcani, a Mimmo e Rachid.
Ripensa a lei.
C’è da uscirne pazzi, e forse è tutta fatica sprecata.
(Eppure qualcosa…)
Esausto, le sinapsi allo stremo, Giobi dà gli ultimi tiri alla canna, la bocca invasa da un retrogusto acerbo, come di cartoncino da filtro.
(Eppure qualcosa resta…)
Poi, alzandosi, affoga il mozzico nel posacenere, manda il resto del mondo affanculo e va dritto a franarsi sul letto.
(Ma cosa, cos’è che resta? Sarà poi vero che scoiattoli e conigli neri conducono da qualche parte?)
È da un po’ che non legge. Allunga una manaccia e afferra il libro che trova aperto, dorso in su, sulla scrivania…
“I tuoi passi rincorrono ciò che non si trova fuori degli occhi ma dentro, sepolto e cancellato: se tra due portici uno continua a sembrarti più gaio è perché è quello in cui passava tempo fa una ragazza dalle larghe maniche ricamate, oppure è solo perché riceve la luce a una cert’ora come quel portico, che non ricordi più dov’era…”
S’addormenta col libro sul petto.
Al risveglio, l’indomattina, per un attimo gli sembrerà d’aver sognato tutto.
Ma solo per un attimo.