di Carlo Trombino
[Ricordiamo che il 16 gennaio 2016 è convocata a Roma e a Milano, da alcune forze, una manifestazione contro la guerra. Vedi qui.] V.E.
Quest’anno Claudio Cerasa ha sostituito Giuliano Ferrara alla direzione del Foglio, ma la linea politica del quotidiano è rimasta la stessa dei primi del secolo. Dopo gli attentati a Parigi, Cerasa ha scritto un articolo particolarmente irritante, che riporta alla mente tutti i punti salienti della propaganda favorevole alla guerra in Iraq del 2003. Scrive Cerasa:
“Se c’è una lezione chiara che si può trarre dall’improvvisa e per nulla amara scomparsa dell’internazionale dei Gino Strada è che, di fronte a un mondo che paga con il sangue le conseguenze della ritirata scellerata dell’occidente dai teatri di guerra, la tesi che il non interventismo militare e la non violenza gandhiana siano i migliori strumenti per regalare ai nostri figli dei fiori un futuro più sicuro è una tesi che non funziona più all’interno di un nuovo contesto storico in cui giorno dopo giorno le opzioni dell’occidente mostrano di essere comprese all’interno di una scelta chiara che suona più o meno così: uccidere o essere uccisi. […] Oggi purtroppo le cose sono molto più chiare. Oggi è chiaro che è il non intervento nei teatri di guerra che ha generato instabilità creando spesso le condizioni per la proliferazione del terrore.”
Il direttore del Foglio si rallegra esplicitamente della fine del movimento pacifista in Italia: usa l’espressione “la per nulla amara scomparsa dell’internazionale dei Gino Strada”; addirittura un suo recente editoriale ha per titolo ‘Renzi e l’errore di non pronunciare la parola “guerra”’. Secondo Cerasa non c’è alternativa alle armi.
Nel 2002-2003 un movimento pacifista di massa si oppose alla guerra americana. Decine di milioni di persone in tutto il mondo, inascoltate, scesero in piazza contemporaneamente il 15 febbraio del 2003 per impedire a Bush di cominciare la guerra in Iraq. Una delle principali ragioni dei pacifisti era che un intervento in un paese come l’Iraq avrebbe creato ulteriore instabilità in Medio Oriente, una instabilità che avrebbe finito per aumentare la potenza del terrorismo islamista.
Al contrario, Bush e i suoi sostenitori italiani volevano esportare la democrazia in Iraq, ed erano certi che sostituendo Saddam con un governo democratico sarebbe aumentata la stabilità politica nella regione, dando così sollievo al sofferente popolo iracheno. Questa era la vision di George W. Bush e dei suoi consiglieri neoconservatori.
Oggi, nel 2015, è fin troppo facile vedere chi aveva ragione e chi aveva torto: la dottrina Bush è fallita miseramente. In appena 12 anni, dopo una guerra che ha causato circa un milione di morti, la situazione è peggiorata in maniera addirittura più drammatica di quanto si immaginava all’epoca. I pacifisti avevano ragione ma non furono ascoltati.
Per questo motivo è inaccettabile leggere Cerasa, secondo cui “l’opzione dell’Occidente è uccidere o essere uccisi”.
Il giornale di cui è direttore nel 2003 guidava il fronte interventista, sostenendo allora come oggi che il conflitto era inevitabile. I pacifisti dicevano al contrario che sì, c’era una alternativa alle armi, che l’intervento americano era sbagliato e avrebbe solo moltiplicato la violenza e le sofferenze per gli abitanti del Medio Oriente.
La scelta c’era, il momento era per così dire “decisivo”. E se volessimo porgere l’orecchio per ascoltare gli echi del primo conflitto mondiale, potremmo dire che si trattava della Schicksalsstunde, l’ora del destino.
Ancora oggi è possibile compiere delle scelte durante le lunghe ore del destino che ci attendono. Si può scegliere se rifornire o meno l’Arabia Saudita di armi sofisticate, come sta facendo l’Italia di Renzi. Si può scegliere se chiudere o meno le frontiere, se aumentare le spese militari e di sicurezza, come sta facendo l’Unione Europea. Non è vero che non ci sono scelte, oggi come allora. Ma su una cosa Cerasa ha ragione: i pacifisti oggi non sono tanti e politicamente forti come allora.
Cerasa nel 2003 aveva 21 anni. Siamo abbastanza sicuri che già all’epoca lui stesso fosse favorevole alla guerra. Ma non stupirebbe il contrario. Quel movimento pacifista era veramente un movimento di massa. I balconi di tutta Italia si colorarono di arcobaleno. La forza di quel movimento stava proprio nel non essere settario, nell’essere composto da anime diversissime fra loro. Non era limitato, come accade ora, alla cosiddetta ‘area antagonista’, ai collettivi e ai centri sociali.
Pure il Papa sembrò impegnarsi attivamente per la pace, e assieme a lui un gran numero di cattolici di base, comboniani e suore in prima fila; perfino gente di destra come Formigoni o Franco Cardini si espressero contro le armi e come loro vip e qualunquisti.
Ma il motore del pacifismo italiano fu certamente costituito dalla temperie noglobal/altermondista, i Social Forum, le marce della pace, l’esperienza tragica collettiva di Genova 200.
Non esistevano i social network, o meglio, l’unico social network era Indymedia e serviva proprio a organizzare manifestazioni e proteste.
Ma, come ho già osservato, il movimento non si basava solo sui cosiddetti noglobal: era talmente vasto che alle marce di protesta trovavi davvero di tutto. Fassino e d’Alema presenziavano agli stessi cortei degli anarchici greci vestiti di nero, delle tute bianche, dei disobbedienti.
A rileggere i giornali dell’epoca ci si rende conto che la gente aveva capito l’importanza e la drammaticità della scelta bellica. Ma, per citare Condoleeza Rice all’indomani delle proteste in tutto il mondo, “i pacifisti non ci impediranno di andare avanti e di aiutare il popolo iracheno”. Bell’aiuto, non c’è che dire.
Cerasa oggi sostiene la guerra e dimentica le vere ragioni dei pacifisti di ieri e di oggi; proviamo però a rispondere al quesito che emerge dal suo articolo: perché il movimento pacifista, che fu di massa nel 2001-2003, oggi è pressoché senza voce?
Le risposte sono molteplici, e sarebbe miope non dare importanza al cambiamento di paradigma politico, sociale e generazionale, come pure al mutamento delle abitudini nell’era digitale e alla vera e propria ipnosi di massa praticata dai social media. Ma sono soprattutto tre le ragioni che, a mio avviso, possono spiegare il ridimensionamento dell’area pacifista.
Innanzitutto va detto che il teatro di guerra attuale e quello del 2003 sono totalmente diversi: Bush parlava di valori e di democrazia da esportare con le armi e decise di invadere quello che, seppur retto da un tiranno, era comunque uno stato sovrano. Il piano di Bush è tragicamente fallito e ha portato all’attuale situazione di tutti contro tutti in uno scenario frammentario e mutevolissimo, praticamente incomprensibile, in cui è già difficile capire cosa succede, figuriamoci schierarsi da una parte o dall’altra.
Un’altra ragione va trovata nel ruolo dei media. L’articolo di Cerasa si avvicina nel tono alla propaganda antipacifista di inizio millennio, ma la potenza di fuoco scatenata quotidianamente per anni dalla stampa italiana contro i pacifisti (argomento di cui mi occuperò prossimamente su Carmilla) ha sicuramente inciso nel lungo periodo. È sintomatico che Cerasa citi proprio Gino Strada: il fondatore di Emergency è da un quindicennio il bersaglio simbolico preferito di ogni giornalista guerrafondaio.
Infine va tristemente constatato il fatto che, per quanto forti, le ragioni dei pacifisti furono completamente ignorate dai governanti. Scrive Cerasa:
“Non ci saranno manifestazioni, non ci saranno girotondi, non ci saranno veglie, non ci saranno fiaccolate, non ci saranno marce, e nei prossimi mesi, quando in medio oriente si andrà inevitabilmente a intensificare una guerra vedremo quanto tosta contro l’islamismo radicale, non ci sarà nulla di tutto quello che sarebbe lecito aspettarsi dal Pacifista Collettivo.”
Anni di proteste, mobilitazioni, appelli, denunce, boicottaggi, occupazioni, forum sociali, repressione, mediattivismo, discussioni, impegno e solidarietà hanno portato solo allo sconforto delle bombe su Baghdad e al sorriso di George Bush che già nel maggio del 2003 si congratulava con le truppe sotto uno striscione che recava la scritta: “Missione Compiuta”.
Sì, la missione era compiuta. Oggi, dopo 12 anni, possiamo ammirare come la democrazia e l’armonia regnino sovrane sul territorio iracheno, o su ciò che ne rimane.