di Pierfrancesco Pacoda
(Pubblichiamo un estratto di Rischio e desiderio, NFC 2015, pag. 232 € 11.90, antologia di saggi sulla nascita della “Club Culture”, un viaggio tra il popolo nomade della notte, tra sballo, affermazione di sé, musica totale, sfida stilistica esaltante e pericolosa. Il testo qui riprodotto è un passo dell’introduzione del curatore, Pierfrancesco Pacoda, giornalista e ricercatore.)
Negli anni ’90 l’antropologo francese George Lapassade, esponente di spicco della cultura che mescolava ribellione e accademia (buon amico di Pier Paolo Pasolini con il quale in pieno 68 protesta contro la Biennale di Venezia) arriva in Romagna per avviare una serie di osservazioni sul campo all’interno del Cocoricò di Riccione.
Lui che ha studiato gli stati modificati di coscienza e lo sciamanesimo tra il Marocco, Haiti e il Brasile sceglie una discoteca della Romagna per continuare i suoi studi sul cosiddetto fenomeno della ‘trance’ metropolitana.
Era quello, va ricordato, il Cocorico che ospitava le performance del nascente teatro della nuova avanguardia italiana (indimenticabili le azioni della neonata Societas Raffaello Sanzio) e le lezioni, prima delle luci delle luci dell’alba del filosofo Manlio Sgalambro nel piccolo privè Morphine, dove spesso il dj, invece della techno, selezionava musica classica.
Erano gli anni dell’elaborazione della club culture, dell’idea, cioè, che la pista da ballo potesse generare inediti flussi culturali, al di là della sua funzione ‘naturale’ di produttrice di piacere, che il club, la ‘discoteca’ potessero tornare a essere riflesso immediato delle grandi modificazioni sociali, accompagnandole, persino.
Che è poi il motivo per il quale nella New York di metà anni ’70 la disco, insieme all’hip hop e al punk (linguaggi sonori non a caso provenienti dallo stesso luogo nella stessa epoca), parlava un forte linguaggio di ‘liberazione’. La gioia insieme alla rivoluzione.
La conquista del diritto alla visibilità e, in fondo (sembra paradossale parlando di club e di stravaganze) e alla ‘normalità’ per una subcultura che subito fece suo, come elemento fondante, come essenza stessa, come anima, il ‘mito’ della ‘diversità’.
Sia essa una diversità etnica, sociale, sessuale.
Le grandi rivendicazioni, l’orgoglio di essere come si vuole essere, contro tutto e contro tutti, sono state il segno distintivo della club culture. Per questo la definizione di cultura, per raccontare questa scena, è più che opportuna.
Perché ballare sino all’alba era la risposta di strada alla necessità di costruire una identità negata.
Dal ‘leggendario’ Loft di David Mancuso, che con le sue feste in casa mescolava alto e basso, intellettuali e emarginati, al fenomeno dei rave parties, dalla nascita dei superclub che da semplici discoteche si fanno stili di vita ai sound system nomadici che a Capodanno fanno ballare Sarajevo sotto assedio dei cecchini, il club ha sempre cercato di confondere il piacere e il rischio, che sono due caratteristiche delle quali le cosiddette culture giovanili, sin dal loro emergere nel secondo dopoguerra, hanno un infinito bisogno.
E gli eccessi dei jazzisti del bebop, quelli di Elvis e del versante oscuro del rock’n’roll, quelli della psichedelica californiana che, complici gli allucinogeni, credeva davvero che il cielo fosse finalmente caduto sulla terra, sono tasselli di una ‘ribellione senza una causa’ che accompagna la difficoltà di accettare che l’adolescenza sia un rito di passaggio (transe, trance, appunto).
In questo territorio instabile, di difficile lettura si muovono da tempo sociologi, antropologi (pensiamo nuovamente a George Lapassade), medici, ma anche gestori di club, scrittori, dj che cercano di posare il loro sguardo su quello che è diventato il luogo di aggregazione per eccellenza (e quindi di sviluppo) delle culture giovanili.
A loro abbiamo chiesto di accompagnarci in questo viaggio verso il cuore nascosto, ma incredibilmente pulsante, della pista da ballo (…)
Qualche anno fa, dopo la morte di Nusrat Fateh Ali Khan, il più importante esponente della musica kawaali, il sufismo pakistano, la Real World, l’etichetta creata da Peter Gabriel per diffondere le cosiddette ‘musiche del mondo’, pubblica ‘Star Rise’.
Si tratta di un disco che contiene alcune tra le canzoni classiche di Nusrat Fateh Ali Khan (tutti salmi composti molti secoli fa) rilette, remixate dai migliori dj di quella scena inglese che viene definita ‘Azian Underground’, composta da giovanissimi artisti di origine asiatica di seconda generazione.
E’ qui che la cultura incontra la dance music. Tra le canzoni di un album che ha ‘trasmesso’ una parte importante di un patrimonio sonoro ai più giovani, nell’unica maniera possibile per non renderlo oggetto di ricerca accademica. Per le vie patinate dei dj, per i percorsi che portano al cuore della discoteca, uno spazio ch rivela così un aspetto ‘educativo’, persino. Ballare con le note del kawaali, remixate dai dj di drum’n’bass o di house diventa una esperienza di incontro tra padri e figli.
Esaltando quell’aspetto fortemente ‘sociale’ che il club, dalla disco in poi, ha sempre avuto.
E grazie proprio ai dj’s dell’ Azian Underground’ lo ‘scontro’ tra visioni del mondo così lontane è diventato occasione di dialogo, di integrazione, di superamento delle differenze di etnia. Ballare insieme, saltare, vivere il senso della notte, senza curarsi del colore della pelle, ma godendo della bellezza della voce del grande cantante pachistano. Forse senza mai sapere cosa quei salmi glorificano, ma con il corpo immerso in un grande esperimento sociale che rende persino luccicante un suono mistico, pensato come omaggio alla divinità
E’ esagerato dire che il pensare giovanile e quindi le modificazioni sociali avrebbero preso un’altra strada se non ci fosse stata la club culture?.
Naturalmente è difficile dirlo, ma sicuramente la figura del dj ha influenzato profondamente non solo il fare musica, ma la maniera stessa di immaginare che un impegno sociale diverso è possibile.
Ed è difficile disegnare un itinerario lineare in una avventura che rinuncia, come valore fondante, al tratto nitido preferendo i sentieri tortuosi degli incroci che non ti aspetti.
Come quelli percorsi negli anni 90 dai sound system in movimento delle tribù nomadiche, che, sulla strada come gli hippie, portavano le loro discoteche dove, davvero, non te lo aspetti.
Come nella Sarajevo della guerra civile sotto assedio, circondata dai cecchini, dove sembrava che ogni speranza fosse stata uccisa e dove, invece, i giovani eroi dance di Desert Storm arrivarono l’1 gennaio, superando tutti i blocchi, per fare del centro della martoriata città della Bosnia, una seducente discoteca, più bella, più eccitante, più sensuale del più famoso club di Ibiza per restituire ai ragazzi che la abitavano la certezza che un altro mondo era (è) possibile. Giovani dj come tanti che non inseguono il sogno di remixare due brani perché vogliono diventare ‘ricchi e famosi’, ma per incidere su quello che avviene. E esserne, per una volta, attori e non spettatori.
Che è poi il motivo per il quale, per parafrase il titolo di un classico dell’hip hop, ‘Tutti vogliono fare i dj’s’
Perché le quattro pareti della propria cameretta non bastano più. Perché si insegue l’aspirazione a far parte di una entità le cui uniche regole sono quelle della comprensione e della conoscenza. Idee che si diffondono veloci e che velocemente vengono a contatto con gli altri.
[Le foto che illustrano l’articolo sono state realizzate nella discoteca bolognese Bains Douches negli anni ’90 da Mauro Baldrati]