di Gioacchino Toni
Alberto Abruzzese, Gian Piero Jacobelli (a cura di), Bond, James Bond. Come e perché si ripresenta l’agente segreto più famoso del mondo, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 131 pagine, € 12,00
Anche se non si prova particolare interesse per l’agente segreto creato da Ian Fleming e rilanciato dai film che continuano ad uscire nelle sale cinematografiche con una certa regolarità, poi riproposti pressoché ininterrottamente in televisione, risulta difficile dirsi del tutto immuni dalla presenza del noto 007 sul grande e sui piccoli schermi (tv e web). In un modo o nell’altro, prima o poi, ci si trova a dover fare i conti con lui e, soprattutto, col successo dell’immaginario da lui incarnato e supportato. Il saggio curato da Alberto Abruzzese e Gian Piero Jacobelli per Mimesis Edizioni affronta il successo della celebre spia, evidenziando, nell’Introduzione, come, nel bene e nel male, «Bond, non è più “scritto” su una pagina o su uno schermo, ma è “inscritto” in ciascuno di noi, come vero e proprio “soggetto di riferimento”» (p. 8). Risulta talmente pervasiva la presenza nei media dell’agente 007 che, indipendentemente dal fatto che ci si identifichi o meno con i valori da lui messi in scena, non ci si può permettere di far finta che non esista.
Se in ambito anglosassone sono davvero numerosi gli studi relativi al fenomeno James Bond – tra questi vale la pena citare almeno: T. Benennett, J. Woollacott, Bond and Beyond: Political Career of a Popular Hero (1987), E.P. Comentale, S. Watt, S. Willman, Ian Fleming and James Bond. The Cultural Politics of 007 (2005) e J. Black, The Politics of James Bond: From Fleming’s Novels to the Big Screen (2005) -, anche in ambito italiano non mancano pubblicazioni a proposito del famoso agente segreto ed il primo studio sistematico di rilievo si deve ad un saggio pubblicato poco dopo la scomparsa di Ian Flaming: O. Del Buono, U. Eco (a cura di), Il caso Bond. Le origini, la natura, gli effetti del fenomeno 007 (1965).
Nell’ultimo studio sistematico italiano sulla celebre spia, in libreria da poche settimane, qui preso in esame, emerge come Bond non debba essere inteso come simbolo vintage della modernità ma come simbolo di una “modernità contemporanea” «che ci impone di continuare a fuggire da noi stessi (…) perché non riusciamo più a riconoscerci, non sappiamo chi siamo, né dove siamo, né tanto meno dove andiamo» (p. 10).
Dopo l’Introduzione il saggio si apre con un brevissimo intervento di Valerio Magrelli che, facendo riferimento al film Skyfall (di Sam Mendes, 2012), celebra l’intrecciarsi dei versi dell’Ulysses di Alfred Tennyson, recitati nel film da Judy Dench, con le vicende di «uno 007 già in disarmo (che) resiste, stringe i denti, corre in soccorso della patria, sospinto dalla sua inflessibile tenacia» (p. 17), identificando in tale sequenza un felice caso di fusione tra cinema e letteratura.
Alberto Abruzzese ripropone un suo scritto del 1968 – tratto da “Cinema e politica” n.1, La Nuova Italia – che risente fortemente del contesto militante dell’epoca in cui è stato steso, tanto che lo stesso autore si sente in dovere di avvertire il lettore come quelli fossero anni in cui, scrivendo, intendeva «combinare l’immaginario hollywoodiano con Marx, Benjamin e l’operaismo» (p. 21). Detto che rispetto a quelle finalità giovanili e, da quel che si legge tra le righe, forse non solo da quelle, Abruzzese, con una nota introduttiva, ci tiene a prendere le distanze, lo scritto viene, probabilmente, riproposto con l’intenzione di mostrare al lettore come, da un punto di vista militante, veniva letto il fenomeno James Bond quando, nel corso degli anni ’60, il personaggio aveva ormai conquistato uno spazio di tutto rilievo in ambito cinematografico. Nell’intervento di Abruzzese si legge: «L’unico film politico propriamente detto – che raggiunge cioè il suo scopo – è quello tendenzialmente tecnologico-ideologico-fantascientifico. Non a caso viene prodotto nei paesi a capitalismo avanzato. È l’unico – tra l’altro – che rappresenta una vittoria oggettiva sul reale. L’eroe cinematografico attuale non lotta contro una realtà presente, ma contro una prospettiva futura. James Bond sconfigge una macchinazione che si presenta sempre come un danno per la realtà presente, per il sistema dato (…) la sua “licenza” si traduce nella conferma di tutto ciò che lo precede. Il futuro contiene una minaccia “negativa” costante. L’eroe non combatte per un futuro migliore, ma affinché il presente si mantenga nel futuro» (p. 27). Dunque, secondo lo scritto giovanile dello studioso, l’intenzione dell’agente 007 è quella di evitare che il potere tecnologico passi nelle mani di chi, capendone le potenzialità, intende sfruttarle in pieno ed “innanzi tempo”; «La vittoria “oggettiva” di James Bond consiste nel confermare filmicamente la logica “democratica” del sistema capitalistico. Magnifico rappresentante dell’ideologia, ne sfrutta ogni possibilità» (p. 27)
Nello Barile, nel suo intervento, ricostruisce come James Bond si trasformi da icona della società dei consumi ad espressione culturale della “sorveglianza liquida”. Nel passaggio dagli anni ’50 agli anni ’60 lo studioso individua il momento in cui si forma un «nuovo immaginario dominato dai media, ove il valore dell’informazione prima e della conoscenza poi, risulta essere sempre più strategico» (p. 33). Nell’epoca della Guerra fredda la spia rappresenta il mezzo per far circolare informazioni e stili di vita innovativi da un paese all’altro; da un certo punto di vista anticipa la globalizzazione ma, continua Barile, nonostante ciò, «il successo di James Bond come protagonista dell’immaginario spionistico degli anni Cinquanta-Sessanta ha molto più da spartire con il moderno che con il suo superamento» (p. 34). Il personaggio 007, a differenza di molte altre spie comparse in letteratura ed al cinema, sin dagli esordi è decisamente connotato dal punto di vista sociale e culturale. Ad una precisa definizione identitaria, pur non priva di contraddizioni, di Bond, corrisponde invece una maggior opacità nella descrizione dei nemici.
Barile, nel suo scritto, evidenzia anche come la produzione di genere spionistico occidentale in generale, ed in James Bond in particolare (i cui film sono stati vietati oltrecortina fino al 1974), nell’Europa dell’Est ha contribuito a rafforzare un certo spirito nostalgico-identitario. Tali produzioni, secondo lo studioso, «hanno saputo sublimare il fascino di una resistenza radicale al capitalismo, che era già pronta per essere rivenduta all’industria culturale occidentale, alla pubblicità e alla moda. In un certo senso il brand Bond, costruito per esaltare la primazia dell’identità europea e britannica sul resto del mondo, non ha fatto altro che preparare la formazione di una nostalgia dell’Est comunista» (p. 37).
James Bond è un brand a tutti gli effetti, sostiene Barile, in quanto è riuscito a mantenere una certa fissità visiva nonostante il variare dei contenuti e delle interpretazioni dei diversi attori che si sono susseguiti. Ogni epoca storica ha avuto il James Bond che serviva; con Sean Connery si è rappresentato il modernismo anni ’60, con Roger Moore lo stile più edulcorato filo-americano del decennio successivo, con Timothy Dalton è andato in scena l’edonismo degli anni ’80 e con Daniel Craig l’eroe ha finito col celare, sotto alla solita eleganza, un concentrato di rude violenza. In tutti i casi Bond sembra incorporare i valori della società inglese del dopoguerra in una «visione conservatrice che avversa il cambiamento sociale e si esprime negativamente nei confronti delle classi più basse o addirittura nei confronti delle distinzioni di gender» (p. 38)
In molte avventure l’agente riesce a penetrare nel cuore del processo produttivo del nemico con l’intenzione di smantellarlo, a tal proposito Barile riprende le analisi sviluppate da Slavoy Žižek, nel suo Welcome to the Desert of the Real – Reflections on WTC (2001), ove si sostiene che nonostante Bond incarni i valori borghesi, egli si contrappone alla sfera produttiva svelandola al pubblico e distruggendola. Si tratterebbe dunque, secondo Barile, di un borghese che disprezza il «sommo valore protestante della produzione, preferendo a esso quello distruttivo e dissipativo del consumo» (p. 35).
Lo studioso sottolinea come il formarsi dell’icona Bond coincida con l’inizio degli anni ’60, quando, sull’onda del boom economico, si afferma un fenomeno di modernismo volto ad offrire la ribalta al ceto medio. Per certi versi, con l’inizio del decennio prende il via quel processo che sancisce il passaggio dal tradizionale, ed inarrivabile, lusso ostentativo aristocratico ad un lusso più “a portata di mano”. Si sviluppano così i desideri di poter soggiornare nelle nascenti catene di alberghi di prestigio, una maggior propensione alla mobilità turistica internazionale, di avere accesso a consumi tecnologici e di poter seguire la moda. Per certi versi l’icona James Bond è davvero espressione dei mutamenti indotti dal capitalismo degli anni ’60. In un modo o nell’altro l’agente segreto 007 “doveva” essere inventato.
Concludendo il suo intervento, Barile, si sofferma sia sulle riflessioni di Andrew Keen, che sottolineano come la contemporaneità sembri avverare «il sogno più recondito della CIA: conoscere tutto di tutti, anzi attendere che gli “altri” si auto-denuncino» (p. 45), che sulle riflessioni di Zigmunt Bauman, che parla dell’attuale società definendola “confessionale”, votata cioè all’auto-sorveglianza indotta da diversi dispositivi di confessione. Mentre la spia classica «era metafora di potere, comunicazione e consumo di quell’epoca, oggi le nuove forme di protagonismo diffuso, di trasparenza delle informazioni e di tracciamento ubiquo degli utenti del Web riproducono la medesima convergenza al di là di un vetusto regime spettacolare, bensì all’interno di un quotidiano sempre più modificato dalla pervasività dei media digitali» (p. 46).
Nel suo intervento, Massimo Negrotti, si occupa delle “interfacce tecnologiche del vecchio Bond” e sottolinea come l’apparato tecnologico di cui dispone il celebre agente segreto sia «coerente con il modello della tecnologia tradizionale e dei suoi rapporti con l’essere umano che la impiega» (p. 63); i dispositivi utilizzati da Bond risultano fortemente “dedicati”, cioè finalizzati al perseguimento dell’obiettivo specifico: “una macchina, una funzione”. Bond davvero non ha nulla a che fare con l’uomo bionico potenziato, egli, dopo aver fatto uso di un dispositivo, lo abbandona e torna ad essere un normale essere umano.
L’analisi proposta da Gian Franco Lepore Dubois segnala come il personaggio James Bond si sia conquistato, successo dopo successo, una vita autonoma in grado di andare oltre al suo creatore, ai registi che lo hanno messo in scena ed agli attori che lo hanno impersonato. Il personaggio James Bond si è rivelato in grado di vivere la contemporaneità del suo pubblico adeguandosi ai cambiamenti; è un personaggio in sintonia col suo presente che è riuscito ad attraversare la guerra fredda, la società dell’opulenza e dell’edonismo, il crollo dei muri e delle ideologie senza spettinarsi, verrebbe da dire.
Dubois, nell’analizzare gli elementi che circondano il “mondo Bonds”, sottolinea come la spia prediliga gli elementi prestigiosi ma non i più ovvi: nel bere champagne 007 preferisce il Bollinger al Don Perignon ed a proposito di automobili, ha una Bentley del 1935 ma è un modello decapottabile, ha una spider nei primi anni ’60 ma è l’insolita Sunbeam Alpine, poi la serie di Aston Martin a partire dal 1965, la prima supercar Toyota nel 1967 e via dicendo. Le stesse località frequentate dall’agente nelle varie puntate sembrano scelte per far sognare agli spettatori nuove mete turistiche esotiche. Certo, non di rado le scelte sono state concordate con gli sponsor ma è fuori dubbio che è stato creato un personaggio con uno stile di vita ed un carattere decisamente ricercato e ciò, suggerisce Dubois, ha contribuito a far sì che al pubblico piaccia il personaggio più che le storie di cui è protagonista. L’indubbia abilità del fenomeno cinematografico James Bond, secondo lo studioso, consiste nel riuscire a rivolgersi ad un pubblico davvero ampio sia per età che per cultura.
Gianni Scipioni analizza l’estrema disinvoltura con cui 007 attraversa le tante località in cui si trova catapultato nelle varie avventure. Si tratta, secondo lo studioso, di un eroe senza frontiere a cui le nuove tecnologie consentono di viaggiare senza staccarsi mai completamente dai suoi superiori e, soprattutto, dal suo amato mondo occidentale: la spia, al pari di Ulisse, torna sempre a casa a fine avventura. Scipioni, nell’analizzare le località che di volta in volta fanno da scenario alle avventure dell’agente segreto sottolinea come i sogni degli spettatori siano figli del tempo e come la scelta delle località messe in scena non sia certo casuale. James Bond si trova in Giamaica quando questa può essere identificata con Cuba alle prese con la crisi dei missili, certo, sottolinea lo studioso, non è che il pubblico scambi la Giamaica per Cuba ma il paesaggio caraibico, nell’immaginario collettivo che intende strutturare il potere dominante in occidente, deve essere visto, in quel momento storico preciso, come il luogo in cui si nasconde il nemico che dovrà essere sconfitto con ogni mezzo necessario. In un’altra occasione si sceglie di mostrare 007 ad Istambul e di farlo incontrare con una bellissima spia russa, con la quale non mancherà di fare l’amore. Un segnale dell’auspicata distensione tra i due blocchi potrebbe essere suggerito, seppure ad un livello culturalmente ricercato, più che dalle effusioni amorose tra i due, riferibili più facilmente alle ostentate capacità seduttive dell’eroe, dal luogo in cui le due spie si incontrano: Santa Sofia, crocevia di fedi e potentati che si sono alternati sino a diventare una sorta di museo neutro.
A proposito di Missione Goldfinger (di Guy Hamilton, 1965), Scipioni sottolinea come 007 si trovi impegnato in mirabolanti inseguimenti lungo le tortuose strade svizzere ove, nonostante la folle velocità, si sembra sempre fermi al punto di partenza, quasi a voler alludere ad un’epoca incerta e confusa. L’agente segreto pare però poco interessato alle incertezze dell’uomo comune, per lui «tutto è più semplice. Il buono e il bello da una parte, cioè egli stresso, e il cattivo e il brutto dall’altra, anche se ricoperto d’oro» (p. 88).
È con Thunderball. Operazione tuono (di Terence Young, 1965) che, secondo lo studioso, la filosofia dell’agente segreto inizia lentamente a cambiare: «Non più luoghi-segno che soffiano sul nostro inconscio, ma luoghi evidentemente turistici (…) Con questo film si oltrepassa il confine sconosciuto, quello che si nasconde dietro l’evidenza, e si mostra la fotografia dell’esistente. Bond diventa un tour operator» (p. 89). Da questo momento in poi i luoghi sembrano davvero scelti in favore dell’industria del turismo ma, anche in questo caso, il tour operator Bond si preoccupa di accontentare tutti i gusti. In Una cascata di diamanti (di Guy Hamilton, 1971) viene accontentato sia il viaggiatore avventuroso che il turista che ama visitare luoghi lontani senza abbandonare le proprie sicurezze domestiche, il turista da crociera.
A partire dal 1977, quando i panni dell’agente 007 vengono indossati da Roger Moore, si inaugura il “sistema Arlecchino” (marea di località che si susseguono a ritmo sempre più vertiginoso) che resterà in vigore anche nei film con altri attori che interpretano la spia. Nel caso dei film Casino Royale (di Martin Campbell, 2006), Quantum of Solace (di Marc Forster, 2008) e Skyfall (di Sam Mendes, 2012), interpretati da Daniel Craig, il sistema Arlecchino sembra scegliere le località con la finalità di «trovare luoghi esclusivi, fuori catalogo turistico per ambientare sparatorie e inseguimenti che, a differenza dei siti messi a disposizione di Sean Connery, ugualmente belli e appetibili, non hanno doppie letture o segni nascosti. Non raccontano altro che la particolarità dei luoghi proposti» (p. 92). Certo è, però, che in Skyfall il nostro 007 non manca di fare una vista in Oriente, forse da considerarsi come «la nuova frontiera, il luogo dove far sentire il suono delle pallottole» (p. 92).
Andrea Miconi analizza le strutture narrative nei film di Bond giungendo a definirle “anti-narrative”. Sostiene lo studioso che dal punto di vista del genere cinematografico i film di 007 non sono propriamente film di spionaggio in quanto mancanti di molti elementi propri del genere: l’identità dell’eroe non è segreta, l’avversario viene individuato immediatamente senza dover scoprire alcunché su di lui ecc. Riprendendo la distinzione proposta da Seymour Chatman che vede il racconto narrativo organizzato su una precisa gerarchia tra nuclei (momenti narrativi cruciali) e satelliti (eventi secondari che potrebbero essere omessi senza inficiare la logica della trama), Miconi nota come i film di 007 invertano la gerarchia dando priorità ai satelliti sui nuclei. Lo stesso Umberto Eco, nell’analizzare i romanzi di Fleming metteva in luce come questi erano costruiti su estenuanti descrizioni prive di valore al fine della vicenda narrata. Non a caso buona parte dei testi usciti su James Bond riguardano proprio tali satelliti (champagne preferito, automobili utilizzate, abiti indossati ecc.).
Anche dal punto di vista della politica internazionale messa in scena dai film su Bond, sostiene Miconi, le cose lasciano parecchio a desiderare; la stessa guerra fredda più volte evocata dalle pellicole pare più «uno sfondo di cartone su cui proiettare le vicende» (p. 100). Anche come eroe, 007, è di difficile definizione. «Bond è certamente un uomo d’azione, eppure, appena ne ha l’occasione, scappa e si sottrae al combattimento; uccide senza riserve uomini disarmati, picchia le donne (…) Un eroe che diffida di tutto, tranne che di se stesso e della propria efficacia (…) è un eroe che in testa ha una sola cosa, sopravvivere e pensare a se stesso» (p. 102). Concludendo il suo intervento lo studioso, nel definire la serie cinematografica Bond, la descrive come «un prodotto isomorfo al clima culturale dei media, in cui la storia dei personaggi e quella dei brand di consumo si intrecciano come mai prima era accaduto (…) più che film (si tratta di) una lunga serie di spot, infilzati nella sceneggiatura e ricomposti in un racconto perfino un po’ pretestuoso» (p. 103).
L’intervento di Paolo Fabbri si sofferma soprattutto sul film Skyfall (di Sam Mendes, 2012) a partire dalla scena in cui 007 incontra il nuovo Q alla National Gallery londinese di fronte al celebre dipinto di J.M.W Turner, The Fighting Temeraire tugged to her last berth to be broken up (1839). L’opera, conosciutissima dal pubblico inglese, celebra la nave che si è battuta nella battaglia di Trafalgar mentre viene trainata da un rimorchiatore a vapore verso la demolizione. È certamente la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova era quella messa in scena dal grande pittore inglese, segno della crisi dell’impero inglese e delle trasformazioni tecniche, ma nel contesto del film evoca anche la «crisi fisica e morale di Bond. Scompare infatti il gentiluomo inglese, viaggiatore esperto e seduttore raffinato (e) gli succede un killer tenace e violento, ma meno individualista (…) Alla sprezzatura un po’ dandy dei primi 007 succede, in Skyfall, una perdita di capacità operative, una spossatezza e noia di vivere, una depressione e difficoltà di ruolo» (p. 108).
Fabbri sostiene che Skyfall è un film noir in cui 007 sembra voler tornare indietro: «recupera la vecchia Aston Martin e va alla riscossa back to the past (…) Con amara nostalgia, l’agente segreto internazionale ritrova, in un prequel, la dimora scozzese di famiglia e le tombe dei genitori (…) Un cupo ritorno alla Temeraria Gran Bretagna, prima della rottamazione?» (108).
Rispetto ai primi successi di Bond il mondo è davvero cambiato e con esso, continua lo studioso, è cambiata anche al cultura bellica: «Guerre (paradossalmente) umanitarie a zero (propri) morti, combattute con tecniche hard gestite da micidiali tecnologie soft. Guerre ibride e tridimensionali – estraterritoriali ed extra-atmosferiche – e soprattutto asimmetriche (…) la Rivoluzione negli Affari Militari ha preso atto della fine del confronto duale – la grand strategy della lunga guerra fredda –, della sparizione del nemico parallelo e del moltiplicarsi di avversari in condizioni di disparità, impegnati imprevedibilmente in scontri a bassa intensità. Vincere non è più trovare il centro di gravità del nemico, ma scongiurare la sconfitta o convincere di aver vinto: ribaltare narrativamente, con i media o la storiografia, i risultati sul campo. Una condizione post-eroica i cui stili strategici accrescono il valore dell’HUMINT, i servizi di Human Intelligence. Cambiano i connotati della spia, che combatte il cyber-terrorismo con le armi dei segni e del segreto, della sorpresa e dell’inganno. Skyfall realizza con il linguaggio raffinato del noir questa guerra di ombre nell’ombra» (p. 109)
Gian Piero Jacobelli, nel suo intervento, segnala come nel primo dei romanzi di Ian Fleming siano già presenti tutte le caratteristiche del personaggio James Bond, tanto che lo stesso Umberto Eco, nel suo studio del 1965, aveva individuato le unità semplici che, combinate secondo regole precise, permettevano, ed avrebbero permesso, di dare, e mantenere in vita l’agente 007. Jacobelli ritiene che il segreto di Fleming consista nel suo aver inserito un personaggio tutto d’un pezzo in un contesto narrativo composto da molteplici pezzi ricombinati in vari modi. «Perciò, per capire chi sia davvero Bond, sarebbe importante capire chi non sia, togliergli la maschera delle sue imperturbabili certezze, per riconoscere in lui l’uomo qualunque che sa e non sa, che dice e non dice, che vuole e non vuole. “Qualunque” (…) nel senso che sotto molti aspetti ci rassomiglia, che rappresenta un riflesso del nostro quotidiano, faticoso, esasperante e spesso deludente sopravvivere a noi stessi. Anche Bond, infatti, nello svolgere il suo farraginoso e improbabile mestiere di spia, appare sempre impegnato in un dispendioso ed estenuante riscatto di se stesso, che lo costringe ogni volta a risalire la china del proprio paradossale “dover essere” per “non essere” davvero» (p. 116). Per certi versi Bond non può dirsi tanto un personaggio contraddittorio, quanto piuttosto ossimorico, che può essere insieme tutto e il contrario di tutto e se «tutto deve cambiare perché nulla cambi, anche per Bond, nonostante gli incalzanti processi di globalizzazione e di mediatizzazione, proprio perché tutto è cambiato, nulla cambia» (p. 119).
Concludendo, Jacobelli afferma che il personaggio cinematografico, nel susseguirsi di attori che lo hanno interpretato, «si è andato progressivamente trasformando in un feticcio, come avviene per ogni segno che, rimediandosi, assume un valore fuori contesto, diventando credibile proprio per la sua sempre più radicale incredibilità, nel senso correlato di una decrescente referenzialità e di una crescente autoreferenzialità» (pp. 123-124).