di Mauro Baldrati
C’è da dire che Steven Spielberg è un marchio di fabbrica che garantisce un determinato prodotto. E’ come il Consorzio di Tutela del Parmigiano Reggiano, un timbro a fuoco che indica una “forma” realizzata secondo certe regole di “eccellenza”. Spielberg è così. I suoi film sono pressoché perfetti dal punto di vista tecnico, hanno una fotografia sontuosa, attori di classe, un ritmo che, se rallenta, lo fa per un motivo, e raramente annoia, una sceneggiatura avvincente, e una storia che tiene. Questo Ponte delle spie ha il timbro di qualità di cui sopra. Tra l’altro è stato scritto dai fratelli Coen, e qua e là si vedono i loro inserimenti, quando certe scene partono d’un tratto per il grottesco, il folle. Ma non si pensi a un film disaggregato. I blitz dei Coen sono bene inseriti nell’insieme, riguardano perlopiù personaggi improbabili, soprattutto dei tipi “da spiaggia” dell’Est, dove c’è il Regno Del Male, la DDR, che contiene tutto l’immaginario infernale: la violenza, la paura, l’arbitrio, e tipi che sembrano usciti da una puntata di Supernatural, certi demonietti un po’ sfigati e assurdi che si mettono a ragliare come asini o a piangere come bambini isterici.
Però Spielberg, forse per questioni di età, quando a un certo punto della vita certe sovrastrutture che ci portiamo dietro tendono a “fissarsi” come l’immagine nell’emulsione d’argento delle vecchie pellicole; oppure, come molti suoi concittadini, sull’onda anomala scatenata dall’11 settembre, sembra avere sviluppato una forma di patriottismo vecchio stile che risulta non solo imbarazzante, ma pedante. L’abbiamo già visto in Lincoln, un film per certi versi messianico, dove il Presidente sembra spinto da una forza ultraterrena verso l’abolizione della schiavitù, a qualunque costo, sfidando chiunque, perché s’ha da fare, perché “questa è l’America”. E’ l’ennesima versione del “sogno” americano. Quel sogno che pervade tutto il nuovo film di Spielberg, attraverso la forza incrollabile, lincolniana, del suo protagonista, Tom Hanks.
Sia chiaro, non è affatto disdicevole credere in un’etica che vola alto, al di sopra degli schieramenti, rivolta unicamente ai diritti delle persone in quanto tali. Qui, però, i toni certe volte assumono sfumature abbastanza patetiche. Solo la mano ferma ed esperta del grande regista riesce a renderci, per così dire, magnanimi, e a seguirlo in certe parti della sceneggiatura che, se non fossero maledettamente serie, sarebbero favolistiche, addirittura fantasy con una velatura leggermente demenziale.
Brevemente, una scheda del film. Ne hanno già parlato tutti i giornali, la trama è arcinota. Fine anni ’50, a New York viene arrestata una spia russa (vicenda ispirata a fatti realmente accaduti, con personaggi reali). Poiché l’America deve dimostrare di essere l’America, coi suoi diritti uguali per tutti, col suo rispetto calvinista della Legge, viene incaricato un avvocato di difenderlo, perché anche se il suo reato meriterebbe la pena di morte, ognuno ha diritto a un regolare processo. Poi un pilota americano, che guida un avveniristico aereo spia incaricato di scattare foto sul territorio nemico, viene abbattuto (grande scena, molto spettacolare) e catturato dai sovietici. L’avvocato lincolniano, che si è scontrato contro tutti per garantire alla spia i suoi diritti, viene incaricato di organizzare uno scambio: il pilota per la spia.
E qui il film prende davvero l’avvio, superando finalmente le filippiche dell’avvocato lincolniano sui diritti dei cittadini non solo americani, perché questa è la grandezza dell’America, questa è la sua forza. E ogni volta che pronuncia un’arringa parte la musica di sottofondo, come in certe soap americane, dove i personaggi parlano, si muovono, sempre aureolati da una musica epica, o romantica. Lo spettatore tende a preoccuparsi, perché stenta a credere che una vecchia volpe come Spielberg cada in una trappola del genere. Invece ci cade, ogni invocazione dell’Etica Suprema Americana è avvolta dalla colonna sonora, che per alcuni forse potrà generare una crisi sentimentale di iper-ventilazione, ma per altri è motivo di afasia, di mancanza di ossigeno. Niente a che vedere con la scrittura asmatica di Proust, per dire, ma solo asma, oppressione.
Ma insomma, la classe registica di Spielberg, incontestabile, ci fa essere pazienti, e le scene della costruzione del Regno del Male in gran parte ci risarciscono. Nel frattempo infatti a Berlino Est un povero studente americano rimane imbottigliato nella parte diabolica del Muro, e viene arrestato dai demoni della Stasi. Così l’avvocato Hanks (Donovan il nome del personaggio) avvia una seconda battaglia per scambiarlo con la spia, ovvero 2 americani per il russo. Va a Berlino, magnificamente riprodotta, col muro in costruzione, i carri armati per le strade, soldati che sembrano ancora nazisti, gli arredi, i costumi, le auto, tutto perfetto, curato fin nei minimi particolari, e avvia la trattativa con un demone sovietico, all’interno dell’ambasciata.
Dovrà combattere duramente su vari fronti: i sovietici, i tedeschi della DDR, ansiosi di dimostrare la loro autonomia dall’URSS, e i suoi stessi connazionali, che sono disinteressati allo studente, mentre fanno quadrato sul pilota, perché è in possesso di informazioni militari che non devono cadere in mano al nemico. E qui Spielberg non si fa mancare un po’ di stereotipi sui demoni comunisti che torturano il pilota con la privazione del sonno (le torture psicologiche dei russi che andavano di moda nell’immaginario della Guerra Fredda), mentre da noi, in America, il russo viene rispettato (gli permettono addirittura di dipingere) ecc.
Non è proprio a senso unico, non cade del tutto nella banalità, non fa un proto-western degli anni ’50 con gli indiani cattivi che attaccano i bravi coloni americani, non si (ci) nasconde che anche quelli della CIA sono cinici, amorali, che cercano con tutti i mezzi di strumentalizzare l’avvocato lincolniano incorruttibile. Col mestiere riesce a restare sulla linea di confine, con qualche caduta nell’estremo, ma controllata. E alla fine, come non ricordare quella battuta, che oggi fa ridere, de I tre giorni del condor, quando Redford dice: “C’è del marcio nella CIA”.
Un po’ di marcio.
Va a finire, pensa lo spettatore paziente e ben disposto, che Steven Spielberg, all’età di 69 anni, ha fatto la sua personale, fiabesca, (per lui?) scoperta… dell’America.