di Raùl Zecca Castel**

migranti scusate1. Il migrante

Ogni migrante, in quanto tale, costituisce sempre un doppio di se stesso: egli è allo stesso tempo immigrato ed emigrato. E per quanto la nostra prospettiva etnocentrica, subordinata e funzionale al discorso politico, si impegni a focalizzare l’attenzione sulla prima delle due declinazioni – quella che fa riferimento all’immigrato -, resta il fatto che un migrante è anzitutto, cronologicamente, un emigrato. Di fatto, il migrante non esiste che nel transito del viaggio, lungo la soglia di un tempo che, per quanto labile, ha pur sempre un inizio e una fine. Tuttavia, poiché – purtroppo – l’uso fa la lingua, si è giunti a utilizzare impropriamente il termine sommario di migrante per riferirsi a una serie di soggetti specifici e distinti quali sono i richiedenti asilo, i rifugiati politici o i profughi in generale. Ma soprattutto, nell’immaginario comune, migrante è sinonimo di clandestino, dunque di pericolo, insidia, minaccia. Perché se è pur vero che l’uso fa la lingua, è altrettanto vero che tale uso non è mai accidentale e imparziale ma, per così dire, efficace, ovvero strumentale. Il medium è il messaggio, ci ha insegnato McLuhan e dunque, a ragione, Abdelmalek Sayad, sociologo di origine algerina, poteva ritenere che il vocabolario utilizzato in riferimento ai migranti, lungi dall’essere appunto neutrale, non fa altro che denunciare in modo più o meno esplicito la nostra eredità coloniale. Integrazione, adattamento, inserimento, inclusione sono solo alcuni dei termini con cui si è soliti definire l’obiettivo che il migrante deve perseguire nella società di accoglienza, per la quale, appunto, “le condotte degli emigrati possono apparire solo come manchevolezze[1]. Ecco nuovamente tornare sulla scena il pregiudizio etnocentrico che si manifesta qui nell’assunzione implicita di un paradigma umano ideale, modello sociale perfetto ed universale – rigorosamente occidentale – cui l’Altro ha l’obbligo di adeguarsi, pena il rischio d’esclusione dalla categoria dell’umano e l’ingresso in quella delle non-persone[2] o, per dirla con il linguaggio colto della Lega Nord, dei bingo bongo[3]. Nessun razzismo, sia chiaro. Ma una vera una questione di specie: “Per me gli islamici (leggi immigrati) rimangono dei luridi maiali, senza offesa per questi ultimi…”[4]. L’invito a restare umani, d’altra parte, oltre che frainteso, è da considerarsi purtroppo un appello troppo elitario. Per buona parte di noi si tratterebbe al massimo di tornare ad esserlo, mentre per molti altri, ancora, di cominciare a diventarlo.

  1. La doppia assenza

“non appartengo a nessuna nazionalità prevista dalle cancellerie.

Sfido il craniometro. Homo sum eccetera…”

Aime Cesaire

Più che una doppia presenza, però, quella del migrante, qui inteso dunque come emigrato e immigrato allo stesso tempo, è soprattutto una doppia assenza. Questo concetto, elaborato dallo stesso Abdelmalek Sayad, esprime alla perfezione lo scandalo esistenziale del migrante, eternamente condannato a una sorta di fragilità ontologica e apolidia identitaria, sospeso – o meglio escluso – in una dimensione culturale che è anche geograficamente evanescente, utopica, nel vero senso del termine. Egli è infatti senza luogo, fuori luogo, e qualsiasi appartenenza gli è negata. “Esiste solo per difetto nella comunità di origine e per eccesso nella società ricevente, generando periodicamente in entrambe recriminazione e risentimento”[5]. È questione di matematica, numeri, quantità. Il migrante è insieme di meno e di troppo. Ma il corpo è uno. Da un lato c’è il senso di colpa per aver lasciato casa, terra, famiglia, la colpa dell’assenza appunto, di aver portato via se stessi, e dall’altro c’è il senso di colpa per una presenza indesiderata, ingombrante, inopportuna, quasi una vergogna, per essere arrivati qui con un corpo, il proprio corpo – la vita come bagaglio -; una presenza, dunque, che se per un verso ha bisogno di essere riconosciuta, dall’altro cerca in tutti i modi e a tutti i costi di farsi assenza. Il corpo è uno, sì, ma l’anima si squarcia: scusate se non siamo affogati, hanno scritto alcuni migranti su cartelli improvvisati. No, scusateci voi se non siete affogati, dovremmo replicare noi dopo aver messo fine all’operazione Mare Nostrum.

3. Migranti irregolari e profughi

Il pericolo discriminatorio che grava sull’immigrato, sempre in bilico tra la dignità d’esser uomo e la condanna al ghetto più o meno simbolico dell’apartheid sociale, si rende ancora più evidente nel momento in cui nel discorso pubblico si produce la distinzione linguistico-normativa tra il migrante irregolare – o peggio, clandestino – e l’immigrato profugo, richiedente asilo o rifugiato che sia. Lungi dal ridursi a una semplice questione di nomenclatura migratoria, tale distinzione – spesso arbitraria – chiama nuovamente in causa la capacità e la funzione performativa della lingua sulla realtà. Il migrante definito irregolare e il migrante definito richiedente asilo proiettano le rispettive esistenze in due categorie semantiche e interpretative non solo differenti, ma a tutti gli effetti contrapposte. La prima, nell’immaginario collettivo e non solo, rimanda a tutto ciò che si muove nell’ambiguità, che è privo di confini precisi, sfugge a un’identificazione certa e non è dunque riconoscibile. Di conseguenza evoca, come già anticipato, un presunto pericolo per l’ordine socio-culturale costituito, mina la nostra già precaria presenza[6] e genera, per reazione alla paura dell’ignoto, controllo, repressione, negazione. Il migrante irregolare è clandestino, la clandestinità è reato, ergo il migrante irregolare è criminale. La logica del sillogismo non accetta riserve.

La seconda categoria – opposta – rimanda invece all’immagine stereotipata del bisognoso, colui che per definizione ha necessità di essere aiutato, vittima passiva e indifesa di eventi tanto terribili e traumatici da risultare inenarrabili. Ecco il rifugiato. Impossibile non riconoscerlo. È proprio quella cosa lì, ciò che risveglia istintivamente ogni spirito compassionevole e caritatevole. Lui sì, che ha diritto ad essere protetto, lui è vero. Gli immigrati per bene sono miei fratelli, ripete Matteo Salvini. Ma chi sono quelli per bene? Molto semplice: i veri profughi, i veri rifugiati. Molto semplice. Troppo semplice.

Per ri-conoscere occorre aver prima già conosciuto. Ma deserto e mare li si attraversa una volta sola e ogni singolo migrante è una vita carica di esistenze, un bagaglio, appunto, incorporato. Ciò che si riconosce, dunque, è solo un nome, una categoria: il richiedente asilo, prima, e il rifugiato – forse –, poi. Ma allora dove sono Samba e Amadou e Moussa? Dove sono Amina e Keita? A quale categoria appartengono? Come scoprirlo? Chi è il richiedente asilo? Cosa è? Come è fatto e che qualità deve avere?

Potrebbe essere Hassani, il vero profugo, il richiedente asilo che diventerà rifugiato, colui che otterrà l’ambito marchio della protezione internazionale, lo status di persona.

Ma perché non parli allora, Hassani? Perché non racconti l’orrore che hai vissuto? Tu l’hai vissuto, vero? Vogliamo sapere, noi. Racconta, dicci dei morti, del sangue, dei ribelli, delle armi, della violenza, delle torture, delle lacrime e delle grida e dei bambini e delle donne e del cielo in fiamme, forza, racconta. Dicci tutto. E mostraci il tuo corpo. Spogliati, facci vedere le ferite e i segni delle percosse, la tua pelle martoriata, le cicatrici, esibisci l’orrore. Dobbiamo controllare, noi, dobbiamo accertare, verificare, attestare. Noi dobbiamo decidere chi – cosa – sei.

  1. Violenza strutturale, continuum della violenza ed economia della sofferenza

Esiste, evidentemente, una dimensione della violenza nei paesi di origine dei richiedenti asilo e, in generale, dei protagonisti di migrazioni forzate – incluse quelle superficialmente definite come economiche -, che rimanda a complessi processi storici, politici, sociali e persino culturali dei paesi stessi. Ma riguarda anche – se non soprattutto – la natura e la qualità dei rapporti trasversali che questi paesi hanno intrattenuto e/o continuano ad intrattenere con governi, istituzioni e organismi di paesi altri. Si tratta, insomma, di quella particolare dimensione della violenza che il medico antropologo Paul Farmer, riprendendo un concetto coniato da Johann Galtung, ha definito come violenza strutturale, proprio al fine di sottolinearne il carattere estensivo contro una lettura ingenuamente e interessatamente particolaristica, troppo attenta a ridurre ogni sorta di male entro confini ben identificabili, così da evitare il peso di responsabilità tanto ampie quanto imbarazzanti. È da questa violenza che fuggono a migliaia da decine di paesi del mondo ed è alla luce di ciò che la distinzione tra un profugo e un migrante economico perde il suo senso.

Ma esiste inoltre, meno evidente, eppure non per questo meno efficace, un continuum della violenza, per dirla con Nancy Scheper-Hugues, che si esercita quotidianamente e incessantemente anche nei luoghi di approdo delle migrazioni e che si esprime nella forma della biopolitica, attraverso il controllo e il disciplinamento dei corpi. È il volto anonimo e sotterraneo, ma per nulla astratto, della violenza, il suo lato più nascosto eppure più mondano e diffuso, la banalità del male, come ebbe a definirla Hannah Arendt: il potere della burocrazia[7]. Come repliche infinite di K., l’inerme protagonista del Processo di Franz Kafka, i migranti, una volta messo piede nei paesi di accoglienza, vengono risucchiati dal vortice inarrestabile degli innumerevoli dispositivi di sapere che le più diverse istituzioni elaborano ed intrecciano attorno alla loro inedita – scomoda – presenza. Una moltitudine di attori, più o meno consapevole, più o meno animata da buone intenzioni, si mobilita prontamente al fine di attivare nei confronti dei nuovi arrivati – stranieri/estranei all’ordine stabilito – un processo di soggettivazione e, dunque, di assoggettamento che risponde a un utile progetto di governamentalità. Per un richiedente asilo, il percorso di riconoscimento ed inclusione transita obbligatoriamente per una serie di pratiche sociali e burocratiche che ne scandisce le diverse fasi: procedure identificative, screening sanitari, trasferimenti da un centro di accoglienza all’altro, programmi di alfabetizzazione, colloqui con i servizi sociali, orientamento legale, attività educative e così via, lungo un itinerario ben collaudato che per sua stessa natura conduce a una riduzione drastica del livello di agency individuale dei singoli migranti, resi in qualche modo dipendenti e – di nuovo – vittime passive, questa volta nei confronti di un sistema di accoglienza che, sia pure inconsapevolmente, nega, assorbe e depotenzia la capacità di agire degli individui. Di qui il tradursi di tali forme e pratiche quotidiane di violenza in vera e propria sofferenza cronica, lamento inestinguibile di dolore, più o meno somatizzato. Ma anche la sofferenza deve essere qualificata, misurata, dimostrata, verificata. Non siamo razionalmente in grado di ammettere ed accettare il dolore tout court, così come viene riferito, dolore e basta, dolore di vita e di morte, dolore di niente e di tutto. Ancora una volta abbiamo bisogno di sapere, per decidere cosa è bene farne di questa sofferenza, e dobbiamo dunque distinguere il dolore buono, il dolore reale, dal dolore che invece è meglio lasciar perdere, quello che, in fondo, magari, non è proprio così vero. Dobbiamo, insomma, fare economia della sofferenza.

Per ogni richiedente asilo, infatti, prima o poi – sicuramente poi -, arriva il momento tanto atteso dell’audizione presso la Commissione Territoriale di competenza alla quale dovrà affidare il racconto della sua nuda vita, il fatidico perché della sua fuga, la motivazione definitiva della sua assenza e della sua presenza qui. E così dovrà assistere alla vivisezione chirurgica della sua intera esistenza, analizzata e riordinata come prova di un delitto incompiuto, quasi che davvero, in fondo, la vita non si riducesse ad altro che a una sorta di bagaglio pieno di cenci sporchi e stracciati, un bagaglio perso, anonimo, dimenticato tra altre migliaia di vite smarrite, molte naufragate in fondo a un mare senza colpe. E la memoria è già dolore: brandelli di stoffa, brandelli di vita, brandelli di carne cruda gettati in pasto a uditori spesso troppo avidi e frettolosi, intenti a un gioco troppo pericoloso per essere ridotto a un noioso gioco di ruolo, un gioco da tavolo, come incastrare tessere di un puzzle impossibile. Troppi i pezzi che avanzano, troppi i tasselli che non combaciano e che non funzionano. La sofferenza, d’accordo, ma non tutta per favore: raccontaci solo ciò che serve, ciò che è utile, tutto il resto tienilo per te, perché per noi è solo materiale di scarto, grazie. Economia della sofferenza e burocratizzazione del dolore: questo sì, questo no. La schiuma della terra torna sempre.

E ora che ti è tutto chiaro Hassani, comincia a raccontare.

  1. Memoria e oblio

Quanto sangue nella mia memoria! La mia memoria è popolata di lagune. Sono cosparse di teste di morti. Non sono cosparse di ninfee. La mia memoria è popolata di lagune. Sulle rive le donne non hanno steso i panni.

La mia memoria è circondata di sangue. La mia memoria è cinta di cadaveri!

(A. Cesaire, Diario del ritorno al paese natale, Jaca Book, 1956, Milano, pp.77-79)

Dice Jackye Assayag che “il boia uccide due volte, la seconda volta con il silenzio”. E infierisce con la memoria, si potrebbe aggiungere. Perché l’oblio, per le vittime di tortura, per chi ha vissuto traumi gravi e in generale per tutti coloro che hanno un conto in sospeso con il passato, resta un traguardo ambito ma spesso irraggiungibile. I ricordi che si vorrebbe rimuovere affiorano di continuo, insistentemente, anche dopo mesi e anni, spesso nei momenti meno opportuni, quando il buio della notte, a tradimento, anziché invitare al sonno favorisce il farsi presente del passato con incubi e visioni che irrompono come zombie famelici in un silenzio quasi assordante, insopportabile. E sono di nuovo bombe assassine che squartano in brandelli decine di corpi umani innocenti, fuoco che divampa nelle case arrostendo cadaveri di donne e bambini, raffiche di mitra sparate verso ogni dove senza criterio alcuno, sequestri, botte e prigioni, cimiteri di sabbia e acqua, famiglie strappate per sempre e tanto, troppo sangue, dappertutto. E così, a testa bassa, quasi vergognandosene, molti confessano di come i loro cuori siano diventati duri come l’asfalto che calpestano lungo interminabili camminate senza meta, e di come i loro occhi non riescano più a piangere nemmeno una lacrima, mentre si tormentano pensando ad altri occhi, quelli delle madri, che hanno visto i figli partire e si consumano giorno dopo giorno con lo sguardo rivolto all’orizzonte, in attesa di poter scorgere ancora una volta la sagoma di quei bambini diventati uomini anzitempo.

Ricordare significa ripercorrere una ad una tutte le violenze subite sulla propria pelle, rivivere nuovamente le stesse sofferenze, scalfire ancora una volta le cicatrici della memoria e restare così in balia di un dolore assoluto, incomprensibile, che genera ciclicamente panico e angoscia, paura di vivere, senso di colpa per essere sopravvissuti. Non è un caso allora se i racconti di vita dei richiedenti asilo, così come emergono dai verbali rilasciati dalle Commissioni Territoriali che ne devono valutare l’attendibilità al fine di riconoscere o meno lo status di rifugiato, appaiono spesso ben poco lineari e coerenti, persino contraddittori, frammentari e lacunosi, come offuscati da una nebbia densa, talvolta impenetrabile, che confonde e amalgama luoghi, date e persone. Spesso sorge spontanea la domanda circa la veridicità di quanto testimoniato, la reale conformità delle parole ai fatti narrati, dimenticando o non riuscendo a comprendere del tutto quanto affermato da Theodor Adorno in riferimento allo scandalo dell’olocausto ed espresso magistralmente con la celebre formula per cui dopo Auschwitz non è più possibile la poesia, come a voler dire che da quel momento – dal momento di ogni vero trauma, individuale o collettivo – il linguaggio è spezzato una volta per tutte. Più recentemente, Elaine Scarry, tramite i suoi studi sulla relazione tra sofferenza e linguaggio, ha inteso mostrare come l’esperienza del dolore costituisca una sorta di messa alla prova del senso ultimo della vita e del mondo stesso e che, in ragione di ciò, non solo resiste ai più diversi tentativi di narrazione sottraendosi al dominio del linguaggio, ma che addirittura ne aggredisce il presupposto che risiede nella possibilità stessa della comunicazione. Il dolore e la sofferenza sono fatti individuali che emarginano chi li subisce isolandolo dal resto delle persone impossibilitate a condividerne il significato. Insieme al linguaggio crolla e viene distrutto il mondo, qui inteso come rifugio comune, luogo dove il senso è condiviso, uguale per tutti. Ecco perché la sofferenza non potendo esprimersi con le parole si traduce in amnesia.

  1. Memoria collettiva e verità storica

Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue.

(T. Sankara, discorso al’OUA, 1987)

Se il ricordo si configura quale presenza scomoda, tuttavia, non è solo perché trascina con sé un dolore privato, intimo, legato all’esperienza prettamente individuale di chi lo ha subito ma, al contrario, proprio perché chiama in causa responsabilità e colpe che rinviano a una dimensione collettiva della memoria; una memoria, però, molto spesso tradita da revisionismi storici, dove la verità ufficiale non sempre si accorda con la giustizia. Come sottolinea Roberto Beneduce, “oltre al segreto patogenico, esiste un segreto di stato[8]. Significa che per le vittime di passati traumatici, l’oblio rappresenta in molti casi l’ultimo rifugio e l’unica strategia possibile per difendere ciò che resta del proprio equilibrio psico-sociale dalle manipolazioni storiche che sistematicamente corredano l’agire politico e che, in ultima analisi, mettono in discussione il valore testimoniale delle memorie dei “reduci”. Il ricordo, unico strumento che resta ai migranti per non perdere del tutto il legame con il passato e conferire così un senso al presente, si rivela dunque un’arma a doppio taglio, dispositivo ricattatorio capace di trasformare le vittime in carnefici e viceversa.

Occorre allora ritrovare un approccio intellettualmente onesto alla questione migratoria, il più possibile trasparente e svincolato da ogni sorta di strumentalizzazione ideologica, al fine di ripristinare – se non di inaugurare – una reale stagione di verità e giustizia. Per far ciò, sulla scorta delle indicazioni fornite da Paul Farmer, è necessario che l’analisi sia geograficamente ampia e storicamente profonda, il che significa, inevitabilmente, riconoscere quel debito del sangue di cui già parlava Thomas Sankara nel lontano 1987, due mesi prima di essere assassinato grazie al sostegno, tra gli altri, di Francia e Stati Uniti. Riconoscere quel debito, oggi, significa prendere finalmente atto delle responsabilità che noi, in quanto Civiltà occidentale, abbiamo nei confronti delle condizioni di vita in cui versano i cosiddetti paesi del terzo mondo. Significa guardare allo specchio la nostra società capitalistica ed essere in grado di vedervi riflessa la falsa coscienza che la anima per infrangerla definitivamente; smascherarne l’ideologia del dominio e dello sfruttamento, incarnata, a seconda dei tempi, dallo schiavismo, dal colonialismo, dall’imperialismo e dal neoliberismo. Ha ragione, allora, ancora Roberto Beneduce quando si chiede ben poco retoricamente “di che cosa parlano i tanti immigrati clandestini se non di un passato coloniale recente e irrisolto […]? Di che cosa raccontano le vittime di tortura se non di oscure complicità fra le nostre ‘democrazie’ e le dittature che scambiano il silenzio su atrocità e violenze con profitti di questa o quella lobby?”[9].

franz fanonMa già oltre cinquant’anni fa, nell’introduzione all’intramontabile capolavoro di Frantz Fanon, I dannati della terra, Jean-Paul Sartre sconfessava tale falsa coscienza europea e, rivolgendosi direttamente ai buoni e civili borghesi delle metropoli, scriveva: “Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori. Sapete bene che abbiam preso l’oro e i metalli, poi il petrolio dei ‘continenti nuovi’ e li abbiam riportati nelle nostre vecchie metropoli. Non senza risultati eccellenti: palazzi, cattedrali, città industriali; e poi, quando la crisi minacciava, […] l’Europa, satura di ricchezze, accordò de jure l’umanità a tutti i suoi abitanti: un uomo, da noi, vuol dire un complice, giacché abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento coloniale”[10].

Ora che la crisi ha smesso di minacciare per divenire una realtà tangibile, l’Europa crede di poter ingenuamente revocare lo status di umano a tutti coloro che ritiene percorrano illegittimamente e pericolosamente le sue strade: gli immigrati. Si parla di invasione, di occupazione, addirittura di conquista straniera. E le ricette proposte si moltiplicano: blocchi navali, muri, rimpatri forzati, abbattimento di imbarcazioni, e chi più ne ha più ne metta. Allo stesso modo, quante più sono le voci che esigono sempre maggiori controlli e repressione, tante più sembrano le voci che per reazione esigono tolleranza, senza rendersi conto dello sporco gioco che riproducono adottando il lessico del potere, imperniato sul duplice stereotipo che ingabbia lo straniero; quello vittimista da un lato e quello razzista dall’altro. Il concetto di tolleranza, infatti, implica per definizione[11] un impegno, uno sforzo, quasi una fatica, per resistere alla tentazione di discriminare, denigrare, insultare. Perciò la tolleranza è già tutto questo insieme, poiché ne è la sua condizione di possibilità. Si tollera ciò che non si vorrebbe, ce ne si fa una ragione. Perciò la tolleranza è già una forma di apartheid culturale.

No, nessuna tolleranza, nessun pietismo e soprattutto nessun tipo di beneficenza. Ciò che occorre esigere è l’introduzione e l’applicazione di leggi in materia di diritto d’asilo che siano finalmente in grado di rispettare il mandato della Convenzione di Ginevra del 1951. Ma soprattutto, ancora una volta, verità e giustizia, per restituire Storia e memoria a tutti coloro cui viene negata.

**Raùl Zecca Castel è collaboratore di Carmilla e autore del libro Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana (Arcoiris Ed., 2015, pp. 272). La prima presentazione del libro, collegato anche all’omonimo documentario e una mostra fotografica, sarà il 12 dicembre a Cinisello Balsamo (Mi) presso la Sala Incontri Il Pertini di Piazza Confalonieri 3 alle ore 18. Dettagli qui link.

 


[1]     A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002, p. 44.

[2]     A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 2004.

[3]    U. Bossi, intervista a Radio Padania, 2003.

[4]     G. Devescovi, candidata sindaca per la Lega Nord Toscana, dichiarazione del 7.05.2015.

[5]     P. Bourdieu, nota a A. Sayad, op. cit., p. XI.

[6]     Cfr. E. De Martino.

[7]     Cfr. D. Graeber, Oltre il potere e la burocrazia, Eleuthera, Milano, 2013.

[8]     R. Beneduce. Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, Laterza, Bari, 2010, p.109.

[9]     Ivi, p 110.

[10]   J-P. Sartre, introduzione a F. Fanon, I dannati della Terra, Torino, Einaudi, p.XXI-XXII.

[11]   Tolleranza, s. f. [dal lat. tolerantia, der. di tolerare «sopportare, tollerare»]. – 1. La capacità, la disposizione a tollerare, e il fatto stesso di tollerare, senza ricevere danno, qualche cosa che in sé sia o potrebbe essere spiacevole, dannosa, mal sopportata, Vocabolario Treccani, Treccani.it.