di Gioacchino Toni
Ivelise Perniola, L’era postdocumentaria, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 183 pagine, € 16,00
“Il cinema del reale di oggi riflette soltanto l’immagine di se stesso, non c’è verità, c’è solo infinita rappresentazione, di codici, di norme, di modelli culturali, di stratificazioni mediatiche e storico-sociali. Il cinema del reale è scomparso” (p. 9).
Così Ivelise Perniola, impietosamente, vede lo stato del documentario contemporaneo ed il suo tramonto, secondo la studiosa, non può che determinare l’autoreferenzialità delle teorie ad esso riferite.
La rassegna dei maggiori contributi teorici relativi al documentario, effettuata nel corso della prima parte del saggio, viene proposta con l’intento di recuperare “gli aspetti utili per una comprensione della contemporaneità, valorizzando soprattutto le forme della contaminazione estetica e linguistica, gli aspetti di sconfinamento e di apertura testuale, dal momento che la nuova teoria del documentario, come evidenzia Stella Bruzzi, sarà una teoria del cinema espanso, performativo sotto ogni possibile aspetto, o non sarà” (p.67).
Nell’ambito della lunga tradizione di studi sul cinema del reale, la prima parte del testo passa in rassegna alcuni contributi che, pur datati e per molti versi superati, continuano ad offrire spunti validi al fine di affrontare il documentario contemporaneo. Perniola principia la sua rassegna con l’analisi dell’idea di cinema di Dziga Vertov giungendo ad indicarla ontologicamente iconoclasta tanto da affermare che l’intero corpus vertoviano può essere letto come “l’atto di fondazione della teoria iconoclasta applicata al cinema” (p. 17). Secondo la studiosa, Vertov non intende procedere ad una ripresa meccanica al fine di conseguire una sorta di immagine acefala, dunque non si può leggere l’immagine vertoviana come osservazione passiva ed oggettiva. L’autrice insiste sulla radice nichilista del pensiero del russo che conduce ad un’idea di cinema ontologicamente iconoclasta in quanto, nel suo produrre movimento, finisce col negare, rendendolo impercettibile, il singolo fotogramma.
Il cinema vertoviano si propone come musica per gli occhi e non certo come arte votata alla mimesi del reale. In Vertov, secondo la studiosa, abbiamo sia un’iconoclastia tecnica, che si palesa nel sacrificio della singola immagine in funzione del movimento, che un’iconoclastia teorica, ove all’immagine simbolica, organica, borghese si sostituisce l’immagine inorganica della modernità figlia della rivoluzione socialista. In sostanza, Perniola individua nel russo colui che per primo comprende che la sfida intrapresa dal cinema nei confronti della modernità si gioca sul piano dell’assenza e non su quello della rappresentazione.
All’interno della rassegna dei padri nobili delle riflessioni sul cinema del reale, non può mancare l’analisi degli studi prodotti da André Bazin. Secondo il francese il cinema è ontologicamente realistico ed è inevitabilmente documentario, anche quando mette in scena mondi finzionali. Il documentario rappresenta ontologicamente la vocazione primaria del mezzo cinematografico, dunque non è possibile operare una distinzione netta tra cinema di finzione e documentario, al limite si possono individuare “gradualità di realismo”. Secondo lo studioso francese esiste un realismo dell’immagine che esula dal suo valore documentario e che si manifesta attraverso l’interrelazione che l’autore riesce ad instaurare tra il reale e la sua rappresentazione, l’immagine non può essere separata dal rapporto di filiazione che ha con ciò che la origina. Secondo tale concezione, il cinema, sia esso documentario o di finzione, produce sempre e comunque conoscenza, la realtà risulta consustanziale all’immagine, non si può scindere da essa. Secondo Perniola, “i due teorici che più hanno intuito le potenzialità del cinema in due direzioni apparentemente opposte (la valorizzazione vertoviana del montaggio e la conseguente svalutazione baziniana)” (p. 40) hanno finito per ricollegarsi “sotto il nome di una inevitabile iconoclastia, che il cinema contemporaneo, con le sue derive tecnologiche e la sua bulimia iconica, non fa altro che (tristemente) ratificare” (p. 40).
Il pensiero di Christian Metz, derivante da una rielaborazione della linguistica saussurriana e della psicoanalisi lacaniana, risulta di una certa attualità, soprattutto per quanto riguarda la recezione spettatoriale. L’autrice si chiede se esitano delle differenze tra i processi psicologici che si attivano alla visione di un film in base al fatto che si tratti di un’opera di finzione o di carattere documentario. La tradizione metziana, in questo caso nell’interpretazione sviluppata da William Guynn, individua una sostanziale analogia dal punto di vista dello statuto delle immagini, mentre i due formati darebbero risultati diversi a proposito di desideri attivati: il documentario viene considerato “inappropriato al desiderio”, al limite può avere a che fare con il desiderio di conoscenza razionale. Pertanto, secondo Perniola “Il documentario mal si accorda con il feticismo che l’immagine cinematografica emana, il desiderio (…) è semmai spostato sul versante della conoscenza, poco pulsionale, molto ben incanalata” (p. 42). La questione che forse più di ogni altra può beneficiare degli studi di matrice metziana è quella riguardante la “lettura documentarizzante”, cioè l’individuazione degli elementi che determinano un predisporsi del soggetto di fronte al cinema documentario in maniera da fruirlo come tale.
Dopo aver passato in rassegna il contributo francese Guy Gauthieri e François Niney, relativamente ai raggruppamenti tassonomici, l’attenzione del testo si concentra sull’americano Bill Nichols, una delle figure più importanti nell’ambito degli studi sul documentario. A partire dagli anni ’90, lo studioso elabora una serie di modalità di rappresentazione del cinema documentario su cui torna più volte con modifiche ed aggiunte in base alle evoluzioni del linguaggio cinematografico sino ad identificarne sei: espositiva, osservativa, interattiva (successivamente rinominata partecipativa), riflessiva, performativa, poetica. Nichols giunge ad associare ad ogni periodo della storia del cinema una modalità specifica prevalente.
Sempre nell’ambito degli studi anglosassoni, viene tratteggiata anche l’impostazione di Stella Bruzzi a partire dal suo superamento di due impostazioni cardine della teoria documentaria: “la differenza con il cinema di finzione e il volersi definire attraverso una continua negazione di quest’ultimo e il principio della realtà come qualcosa di filmabile senza interventi, in maniera oggettiva, decade, forse (…) il principio della stessa ‘rappresentabilità’ del reale, messo in crisi dalle punte moderne del cinema contemporaneo” (p. 64). Bruzzi affronta il documentario come punto di intersezione tra società, autore e pubblico e giunge ad individuare una nuova modalità documentaria che fa della performatività insita nel mezzo cinematografico la propria finalità. La studiosa propone di vedere nel documentario uno strumento per cogliere “la verità di una performance che si snoda, sempre e comunque, davanti alla macchina da presa e che da essa è esplicitamente guidata” (p. 65). La tesi di fondo di Stella Bruzzi è che “i documentari sono una negoziazione tra il regista e la realtà e, quindi, in profondità, una performance” (p. 65).
Passati in rassegna i contributi teorici relativi al documentario in grado di offrire spunti al fine di analizzare la produzione audiovisiva più recente, nella seconda parte del volume, vengono analizzate alcune produzioni proprie di quella che Perniola definisce l’era postdocumentaria. Il primo esempio indagato riguarda Michael Moore, scelto come modello emblematico di quella tendenza, individuata da Stella Bruzzi, del cinema documentario sviluppatasi nel corso degli anni ’90, in concomitanza con l’avvento di nuovi programmi televisivi, che mette al centro della sua narrazione la performance dell’autore stesso. “La star director è l’artefice, il grande manipolatore in grado di costruire un perfetto spettacolo di arte varia a base realistica, non diversamente da tanti esempi di reality tv che scorrono quotidianamente sui nostri schermi” (p. 84), inoltre, continua Perniola, risulta interessante “notare come l’ascesa della star director in campo documentario sia stata parallela al fenomeno delle archistar in campo architettonico, come se la tendenza al culto della personalità in campo artistico avesse alla fine contaminato i settori storicamente neutri del cinema del reale e dell’opera architettonica” (p. 84). Evidentemente non si è data la “morte dell’autore” preconizzata da Roland Barthes, l’autore è vivo più che mai ma, secondo l’autrice, “è vivo per necessità mediatiche, e non per ragioni artistiche” (p. 85), ad interessare non sono eventuali innovazioni linguistiche ma personaggi “in grado di incarnare lo spirito massificante dei tempi” (p. 85).
Stella Bruzzi invita a vedere nei reality show televisivi un’evoluzione, seppur in chiave spettacolare, del cinema osservativo di Frederick Wiseman che si è spesso concentrato su di un gruppo di “attori-sociali” che condividono uno spazio comune. Non a caso, nei palinsesti televisivi americani, tanto i documentari, quanto i reality show, rientrano sotto l’etichetta di Factual Entertainment. La “neotelevisione” sembra ispirarsi al documentario osservativo mentre quest’ultimo pare prendere ispirazione dalle nuove proposte televisive. Il documentario, che sino ad allora, aveva camminato su percorsi espressivi autonomi, incontra sulla propria strada il format del reality show o del giornalismo televisivo d’assalto”. Soprattutto dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, si diffonde sempre più il documentario a tesi complottistica basato sullo slogan “ciò che vi viene nascosto è vero”.
Particolarmente interessanti sono le riflessioni che il saggio dedica a due particolari espressioni del documentario in cui ci si distacca dalla realtà storico-sociale per ripiegare verso forme espressive tendenzialmente nostalgiche e/o autoreferenziali: l’autobiografismo (od il biografismo in senso più allagato) ed il documentario metacinematografico. Il filone dell’home movie, ove viene meno il principio di verificabilità spettatoriale della realtà descritta, secondo l’autrice, sembra inserire nell’ambito del cinema del reale, la “mutabilità dell’universo privato e psicologico”; se il documentario tradizionale ha solitamente indagato la realtà esterna all’individuo, lasciando l’interiorità e l’introspezione alla narrativa ed al cinema di finzione, ora le cose sembrano cambiare. “Di fronte ad uno scollamento dell’individuo con la società, di fronte ad una militanza politica sempre più flebile da parte delle nuove generazioni, la rappresentazione della famiglia diventa un obbligato approdo per un’intera generazione” (pp. 110.-111). Altra riflessione importante che scaturisce dalla proliferazione di tale tipologia di opere riguarda il ricorso sempre più insistito, da parte delle nuove generazioni di film-maker, a materiali filmici preesistenti, a testimonianza di come, soprattutto per i più giovani, le immagini ed i filmati sono ormai fruiti non semplicemente come testimonianze di realtà ma direttamente come elementi significativi di realtà.
Per certi versi un meccanismo analogo a quello del ricorso ai filmati di famiglia si ritrova nelle opere meta-audiovisive, tanto che Perniola sottolinea come l’immaginario cinematografico e televisivo entri a far parte della memoria collettiva. “L’immagine è realtà e la realtà è immagine e nulla impedisce al cinema di essere vissuto come emanazione dell’esperienza soggettiva ed ecco che la memoria del sé, efficacemente espressa dal recupero del film di famiglia, si mescola spesso alla memoria del set, memoria dell’immagine cinematografica vissuta come proiezione di un passato in cui tra immagine pubblica e immagine privata decade ormai ogni barriera”. Pertanto anche il ricorso, in ambito documentaristico, al recupero dell’immagine cinematografica può essere letto nell’ambito di quel “ripiegamento verso l’intimo e verso il personale” di cui si è parlato a proposito dell’home movie: “La realtà si mescola alla fantasia e il personaggio fittizio assume la statura di un personaggio reale, conosciuto, entrato a far parte dell’esperienza individuale di ognuno (…) Di fronte allo sgretolamento della società, di fronte alla spettacolarizzazione della politica, di fronte alla fine della spettatorialità tradizionale, il documentario ritorna al cinema come al luogo della nostalgia, tendenza certamente affascinante ed evocativa, ma sotto molti aspetti poco produttiva” (p. 112).
Il saggio dedica anche uno spazio alle caratteristiche della recente produzione documentaristica italiana che negli ultimi tempi ha ottenuto un buon successo di pubblico. Per comprendere il successo di alcune produzioni occorre tener presente che, a differenza di ciò che accade per la fiction, le opere documentarie tendono ad essere trattate dai media più per la tematica trattata che non per le qualità estetico-formali. L’autrice, analizzando le opere italiane che sono riuscite ad avere una distribuzione commerciale cinematografica e/o televisiva, individua in esse caratteristiche che la potano ad indicarle con il termine di “neoverismo”. Secondo Perniola agli “autori neoveristi non interessa la relazione con il mondo circostante, ma soltanto la ratifica della propria posizione, che avviene quasi sempre lasciando il mondo circostante sulla soglia della loro ricerca (…) Il neoverismo rifiuta ogni confronto diretto, ogni contenzioso, ogni apertura del senso, crede ingenuamente nell’esistenza di un ‘vero’ senza sfumature, senza complessità, crede che basti un soggetto accattivante perché il film si faccia da sé” (p. 117). Il cinema documentario contemporaneo sembra diventato sempre più “espressione di un punto di vista, svincolato dal confronto diretto con il reale; non importa quello che accade, non importa il legame che si instaura con l’attore sociale, né l’interazione tutta particolare che sorge tra il reale e la macchina da presa, nel movimento neoverista si parte da un’idea di scrittura e si piega il mondo circostante alle proprie esigenze; gli attori sociali sono solo funzionali alla veicolazione di un messaggio o di un ideale estetico totalmente avulso da un autentico interesse nei loro confronti; il reale stesso diviene una pallida immagine riflettente l’ego smisurato dell’autore; anche quando si parla di altri, non si fa altro se non parlare di se stessi” (pp. 117-118). Non è difficile intuire come ad esempio di questa modalità sia portata la produzione di Sabina Guzzanti, palesemente costruita sull’esempio di Michael Moore. Al pari dell’americano che “stigmatizzando l’egocentrismo di Bush ne diventa appendice oppositiva, Sabina Guzzanti parlando di Berlusconi rende il doppio servizio di esaltarne la figura pubblica e mediatica e di valorizzare gli attacchi rivolti contro di lei, come frutto di un ragionamento mirato di scardinamento della cultura di sinistra, della quale lei si pone come paladina e come esponente più significativo; io sono intelligente perché attacco Berlusconi, ma anche Berlusconi lo è perché, ritenendomi una minaccia per la ‘democrazia’, valorizza il mio ruolo nel panorama ‘culturale’ italiano. Due egocentrismi che si scontrano solo sul piano mediatico, senza rendersi conto che la vera cultura è fuori e molto raramente è così tristemente autoreferenziale” (pp. 118-119).
È impressionante l’elenco di opere documentarie incentrate sulla figura di Berlusconi che sono state prodotte in Italia ma, secondo l’autrice, “nella quasi totalità di queste opere manca una riflessione accurata, manca qualsiasi forma di autocritica, manca il discorso sul cinema e sul mezzo, mentre prolifica la farsa, il grottesco, il compiacimento estetico nei confronti dell’eccesso e del kitsch incarnato dal berlusconismo imperante. Il modello estetico è chiaramente televisivo e la forma che viene stigmatizzata, alla fine diventa la forma stessa del documentario, per un processo metamorfico che ingloba oggetto e soggetto sino a renderli indistinguibili. Occorre infatti evidenziare la povertà linguistica dei lavori menzionati, lavori che nascono nella totale ignoranza di qualsiasi riferimento cinematografico, ma che invece nascono nel milieu televisivo e bruciano tutte le loro potenzialità nello scimmiottamento del modello catodico” (p. 121).
Decisamente di maggior interesse documentario, secondo Perniola, sono le opere che preferiscono partire dal particolare per giungere a considerazioni di carattere universale. A tal proposito il saggio porta alcuni esempi di opere che, in un epoca in cui la società si è fatta estremamente complessa, si sono concentrati su alcuni microcosmi particolari, capaci, però, di proporre questioni e riflessioni di carattere generale. Perniola individua nel mondo carcerario, nell’ambiente scolastico e nella vita delle famiglie mononucleari urbane, spesso formate da un anziano e da una persona straniera che si prende cura di lui, dei micromondi in cui si riproducono, in piccola scala, i conflitti e le difficoltà in atto nel resto della società. Si tratta di mondi chiusi in cui si intrecciano, seppure secondo diverse modalità, i problemi del confronto tra italiani e stranieri, le condizioni di disagio sociale e di emarginazione, le difficoltà nei rapporti affettivi e le questioni concernenti i rapporti gerarchici che si strutturano all’interno di questi piccoli mondi. Probabilmente il documentario contribuisce a farci capire qualcosa in più della società contemporanea quando limita la sua indagine ad ambiti ristretti e quando evita di affrontare la realtà con l’intenzione, più o meno palese, di confermare la propria visione sulle cose.
Una riflessione viene dedicata anche a quella moltitudine di “neo-operatori Lumière” che riprendono tracce di reale attraverso i loro smartphone per poi pubblicarle in internet. L’autrice sottolinea come “al pari dei loro avi, il loro nome non conta” (p. 158) ma “contrariamente ai loro avi a non contare sono anche le immagini che producono, tutte uguali a quelle di altre milioni di neo-operatori” (p. 158). Altra riflessione sulla rete, riguarda il suo favorire la manipolazione dei materiali altrui. Il saggio si conclude con la presa d’atto di come “la progressiva trasformazione dell’immagine in surrogato della realtà e della realtà in surrogato dell’immagine hanno portato alla fine del documentario, storicamente inteso, con un suo bagaglio di norme linguistiche, di opere di riferimento, con il suo pubblico, i suoi canali di diffusione, le sue associazioni di riferimento” (pp. 98-99). Entrando nell’era postdocumentaria, secondo l’autrice, ci si troverà a dover ricorrere ad una nuova terminologia ed a nuovi strumenti di analisi al fine di indagare “un campo espressivo in cui i confini tra reale e immaginario, tra falso e autentico, tra televisione e cinema, diventeranno sempre più labili sino a crollare sotto il peso di una realtà modificata, nella quale l’immagine (…) viene integrata come vera solo perché facente parte della realtà stessa” (p. 99).