di Danilo Arona
Una decina di giorni dopo la lunga telefonata i cui particolari vi ho raccontato nella prima puntata, ecco che parto per Bologna. Mi reco a conoscere i due fratelli che hanno vissuto l’esperienza, inconclusa e assolutamente straordinaria, di casa Destefanis, la dimora infestata sita in Vercelli, poco distante dalla stazione e dalla Cattedrale.
Vengo prelevato sul luogo dell’appuntamento da un amico comune di entrambi, il giornalista Edoardo Rosati (che diventerà da lì poco il più fraterno degli amici nonché mio Alter Ego di scrittura in scorribande letterarie) e finalmente mi trovo faccia a faccia con i fratelli Sergio e Giorgio. A prima vista, di pelle, non potrebbe esistere nulla di più normale. I due lavorano nell’informatica, sono piacevolmente colti e affabili, sui quarant’anni, barbe biondicce e occhi cerulei. Sergio e Giorgio B., con un supplemento d’informazioni venuto alla luce proprio negli ultimi giorni grazie ad ulteriori ricerche d’archivio fatte dal frate di Vercelli, Padre Flavio.
Mi accomodo su una sedia in un ufficio nel centro di Bologna e ascolto. Alcuni giorni dopo la battaglia di Palestro e la nota strage di soldati piemontesi da parte di contadini filo-austriaci alla periferia di Vercelli, accadde che la moglie del capitano del drappello, accompagnata da un cugino e da un frate priore di un’abbazia della provincia di Asti, ripercorresse in preda all’angoscia il verosimile cammino del marito, giungendo sul luogo dell’agguato. Qui interrogò per ottenere informazioni alcuni coloni che già avevano fatto parte del manipolo degli assalitori. Costoro, senza tanto pensarci su, si guardarono negli occhi e, agguantati forconi e badili, fecero fare all’ignaro e innocente terzetto la stessa fine dei soldati. Incuranti di trovarsi di fronte a un frate e a una giovane donna, i contadini, come si dice in gergo, non fecero prigionieri e seppellirono i tre cadaveri assieme agli altri che ormai puzzavano in modo orribile.
Morale della favola (ma questa non è una favola), sotto le cantine di casa Destefanis non si troverebbero soltanto i miseri resti dei militi caduti nell’imboscata, ma anche quelli di una donna, di un monaco e di un altro povero cristo che si trovava lì quasi per caso. Così andavano le guerre, anche durante il glorioso Risorgimento. E in ogni caso ecco confermati anche gli ultimi incubi di Giorgio.
“Solo che la sfiga continua”, dice Sergio. “La casa non riusciamo a venderla. E Giorgio mi assicura che lì ci sono ancora e sempre i fantasmi. Che ci consigli?”
Giorgio ammicca e io boccheggio. Ma chi l’avrà detto poi che i fantasmi portano sfiga? In ogni modo la sola carta che ho da giocare è la seguente:
“Sapete, scrivendo di misteri e di storie ai confini della realtà, si arriva a conoscere un po’ di gente. Se volete, possiamo fare un sopralluogo alla casa. Io mi porto dietro un paio di medium, gente dotata che non esercita di mestiere. Così stiamo relativamente al riparo da eventuali buggerate. Che ne dite?”
La proposta trova d’accordo i due fratelli (che per qualche arcano motivo mi ricordano i Blues Brothers). E si finisce alla grande, in trattoria. Siamo a Bologna, regno delle lasagne e del Lambrusco, non scherziamo. Tuttavia, al cospetto di uno stinco mastodontico il cui detentore doveva essere un bue di Jurassic Park, Sergio infila un’altra serie di aneddoti spaventosi che all’apparenza non hanno nulla a che fare con casa Destefanis, ma con la sua famiglia sì: una cugina che trova un feticcio dentro un cuscino in camera da letto e finisce travolta da un’auto, uno zio venuto a male parole con uno zingaro (sembra il romanzo di King L’occhio del Male) e da questo talmente fulminato con gli occhi da essere ritrovato stecchito il mattino dopo sul pavimento di casa. Io mi faccio scivolare, non visto, una mano fra le gambe e mi artiglio le palle.
Non credo alla iettatura e a coloro che se ne dicono essere vittime o portatori, ma non si sa mai. E la famiglia di Sergio e Giorgio mi sembra proprio un caso da manuale in quanto a malasorte. Alla fine del pantagruelico pranzo, fissiamo la data del sopralluogo. Quello da cui si aspetta una rivelazione illuminante. Sarà di domenica, il 19 maggio 1996. Una data che, per tutti i partecipanti alla spedizione, sarà indimenticabile.
In un crescendo d’ansia giunge il giorno, festivo, dell’appuntamento. Dobbiamo trovarci tutti quanti alle undici davanti la stazione di Vercelli. Io ho rimediato ad Acqui Terme un’amica conosciuta da poco, secondo me bravissima, autentica e con antenne assolutamente speciali per quel che riguarda l’altro mondo. A Vercelli poi conosco da anni un’altra ragazza che mi ha promesso che si presenterà all’appuntamento con la versione locale, pure lei femmina, di Uri Geller. Tra l’altro la mia amica vercellese, Paola, è una che di solito carica in macchina i fantasmi della strada. La compagnia promette scintille.
Manca poco alle dieci e trenta quando parto in auto da Alessandria con al mio fianco la medium di Acqui che si chiama Lucia. Il tragitto è breve: da Alessandria a Vercelli s’impiega meno che andare a Valenza nelle ore di punta e a Lucia decido di spiegare il minimo indispensabile, in sostanza nulla. Mi limito a raccontarle che la casa è tecnicamente “infestata”, ma non faccio il minimo accenno all’episodio della strage accaduto dopo la battaglia di Palestro. Se il medium è autentico, la cosa verrà fuori da sola.
Il viaggio di andata, per quanto corto, è noioso. Colpa anche del fatto che è domenica mattina e io ho un sonno terribile, avendo tirato le quattro tanto per cambiare. Lucia, poco prima di arrivare al casello di Vercelli, dice con enfasi: «Ah, quanti corvi abbiamo incrociato. Buon segno, il corvo è un animale sciamanico». Boh, sarà così. Soprattutto dopo il film omonimo con lo sfigatissimo Brandon Lee, un pensierino sul corvo bisogna farlo.
Alla stazione di Vercelli l’armata Brancaleone è al completo. Il sottoscritto, i fratelli di Bologna, Lucia, Paola di Vercelli e l’altra medium (quest’ultima una signora di mezz’età con una testa di capelli che sembra Jimi Hendrix e la pupilla giusto giusto tonda che dona l’adeguata fissità a una faccia un po’ inquietante – inoltre la tipa reca una borsa che, da quel che si vede all’esterno, potrebbe contenere un Marlin 444, nota marca di fucile usato per la caccia al rinoceronte). Presentazioni, sorrisi un po’ impacciati e Sergio, che sta sulle spine per la famosa storia della sfiga a peso, impone di andare.
Giungiamo sul luogo dei misfatti in meno di sessanta secondi ed eccola lì: casa Destefanis che, da fuori, è una brutta, grande e disarmonica costruzione a forma di “C” con un canale, un fiumiciattolo lordo e oscuro, che corre alla sua sinistra.
Come si aprono i cancelli e posteggiamo le macchine, Lucia schizza fuori con aria trafelata e si dirige verso una piccola porta di legno ubicata sul lato destro. Appoggia una mano e se ne sta lì, con uno sguardo di pietra e l’espressione alquanto turbata. Sergio va in visibilio: «Ci ha beccato! Ci ha beccato! Quella è la porta della cantina!». Ci ha beccato, senza dubbio e nessuno le aveva detto niente. L’altra medium vercellese, per non essere da meno, segue Lucia e comincia a trafficare dentro il suo borsone.
A questo punto sono dolente, ma occorre una doverosa pausa per farvi ben capire il tormentone che sta per crearsi. Perché ci troviamo in Italia ed è ben lungi dallo scomparire la nota sindrome di Don Camillo e l’onorevole Peppone. Anzi, le due anime della nazione incarnate dai celebri personaggi immortalati sullo schermo da Fernandel e Gino Cervi si sono ancor di più ingagliardite da quando il cavalier Berlusconi andò al potere, mitizzando un comunismo e uno spirito del medesimo che esistono probabilmente soltanto nella sua mente. Non si capisce? Qualche secondo e capirete…
Perché Lucia, per quanto medium (anche perché medium si nasce e non si diventa, forse), è laica, agnostica e rossa più di Capanna o di Oreste Scalzone durante i fantastici anni Sessanta. L’altra, che si chiama Immacolata (e non è uno pseudonimo), è invece medium ultracattolica, tipo Padre Balducci in gonnella o mamma di Carrie del grande film di De Palma. E Immacolata, come vede Lucia dirigersi verso la porta della cantina e lì sostare con fare pensoso e sguardo turbato, la tallona e dalla capiente borsa estrae in rapida successione un turibolo, tre flaconi con acqua benedetta di Lourdes e una dozzina d’immagini di Padre Pio. Lucia si volta incredula, come se qualcuno le avesse alitato sul collo dopo aver divorato un mazzo di cipolle di Tropea. «Bisogna pregare!», tuona la fondamentalista e Lucia la fulmina con un glaciale «La prego di lasciarmi lavorare!».
Il dato è tratto e il conflitto, insanabile da quel che si percepisce, condizionerà in modo pesante il resto della visita. Dopo avere perso qualche minuto a tentare di restaurare un piccione più di là che di qua (anche lui piazzato dalle parti dell’ingresso della cantina e che Immacolata definisce come un inequivovabile “psicopompo” – così si chiamano nel mito gli uccelli che accompagnano le anime dei morti), Sergio ci guida verso l’accesso della casa che si trova al primo piano. Ci facciamo strada in mezzo a un desolante marasma di cacche di piccione, piume di piccione e vari cadaveri rinsecchiti di piccione. Certo è che in queste condizioni il fatto di non riuscire a vendere la casa non può essere attribuito alla sfortuna. Se mai ai piccioni.
Sergio apre una scrostata porta di legno e dalla folata di muffa che ci invade le narici mentre ci troviamo ancora sul balcone, si capisce che è trascorso ben più di qualche mese dall’ultima volta che è stata cambiata l’aria. Come il padrone muove qualche passo nell’ambiente, un grosso pezzo d’intonaco si stacca dal soffitto e si sbriciola sul pavimento per effetto della brezza fresca. Sembra il preambolo del crollo della Casa Usher. Casa Destefanis, o la decadente parodia che di essa ne resta, ci appare così disposta: davanti a noi un vasto ingresso, sulla sinistra un’ampia cucina che si apre su un enorme balcone (una terrazza che da sola è grande quanto tutto l’interno e che a sua volta sovrasta il fiumiciattolo di cui ho già parlato in uno scorcio di panorama che pare Karlovac durante la guerra in Bosnia), poi la stanza da letto e sulla sinistra un’altra estesa stanza che può essere, credo, la sala da pranzo adibita anche a biblioteca. Nella casa sono rimasti tutti i mobili che l’arredavano quando era abitata e vissuta, mobili che ora ci appaiono – né potrebbe essere diversamente – sfondati, marciti e compromessi senza rimedio.
Non penso di essere il solo a sentirmi stupito. È come se chi l’abitava fosse letteralmente fuggito in fretta e furia lasciando ogni cosa al suo posto. Le posate stanno ancora nei cassetti, i bicchieri appoggiati sopra un arrugginito sgocciolatoio, libri stantii che risalgono ai primi anni Settanta sugli scaffali della biblioteca. Ovunque ragnatele, polvere, muffa e chiazze di materiale incomprensibile. Immacolata estrae un aspersorio e, con occhi socchiusi e labbra biascicanti giaculatorie, sparge acqua di Lourdes in ogni dove. Come se non ci fosse già abbastanza umidità. Invece Lucia si fionda nella stanza a destra, quella in cui si mangiava e si leggeva. Appare agitata, in preda a strani fremiti, con la fronte sudata e il fiatone.
«Eh, già!», giubila Sergio, «Proprio in questa stanza è successo il fatto del telefono. E lì passava la corrente!».
Io gli faccio segno di tacere, perché…
– continua –