di Gioacchino Toni
Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, Il Saggiatore, Milano, 2015, 256 pagine, € 16,00
Dal mito pliniano delle origini della pittura all’Incarnazione del Verbo nelle Annunciazioni, dalla demonizzazione secentesca all’iperbolizzazione espressionista, dall’ombranalisi alla vertigine della proliferazione dei simulacri, Victor Stoichita passa in rassegna la storia dell’ombra e dei significati che, strada facendo, ha assunto nella cultura occidentale. Il saggio, ristampato nel corso del 2015, (prima ed. inglese 1997, prima ed. italiana 2000), inizia, inevitabilmente, da Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis Historia, racconta di come la nascita della pittura sia dovuta ad un procedimento “in negativo”: l’atto di circoscrivere l’ombra di un essere umano. Secondo tale approccio la pittura compare sotto il segno di un’assenza (corpo) / presenza (sua proiezione). L’immagine pittorica è, dunque, frutto di un consolidamento della proiezione del corpo; si tratta di una rappresentazione di una rappresentazione, di una copia di una copia (immagine d’ombra). Soltanto quando la pittura finisce con il superare la proiezione piatta ricorrendo al modellato, l’ombra abbandona la funzione primitiva di matrice di immagini e diviene mezzo d’espressione. Il mito pliniano (origine dell’arte) ed il mito platonico della caverna (origine della conoscenza) hanno in comune il fatto di concentrarsi sulla proiezione, su una macchia in negativo, un’ombra: arte e conoscenza consisterebbero nel suo superamento.
L’autore sottolinea come Platone non parli mai direttamente del mito dell’ombra come origine della rappresentazione artistica; per lui è il riflesso nello specchio a spiegare lo statuto mimetico della pittura. Se in Plinio l’immagine è l’ “altro dello stesso”, in Platone l’immagine è il sé allo stadio di copia, lo stesso nello stato di doppio. Se in Plinio l’immagine capta il modello duplicandolo (funzione magica dell’ombra), in Platone l’immagine manifesta la propria rassomiglianza (funzione mimetica dello specchio) rappresentandolo. Sia il simulacro che la copia si rifanno alla magia; magia per sostituzione nel primo caso, magia di somiglianza nel secondo. È il pensiero di Platone a principiare l’idea occidentale che vede lo strumento della mimesis nello specchio e non nella proiezione di corpi frapposti.
Analizzati i miti fondativi dell’antichità, l’autore passa in rassegna l’età medievale, sottolineando che per diversi secoli, sin quasi a Giotto, l’immagine viene intesa come un’entità priva di corporeità e soltanto con l’introduzione della prospettiva, l’ombra portata inizia ad essere studiata dai pittori. Nella pittura del Trecento l’ombra integrata viene concepita come elemento fondamentale dell’esecuzione a “rilievo” delle figure ma, nel Rinascimento, si assiste ad un cambio di paradigma, tanto che le immagini iniziano ad essere concepite come riflesso nello specchio, prolungamenti della realtà. Con il Rinascimento si ha la prima teoria dell’arte fondata sul paradigma speculare, tanto che Leonardo arriva a cogliere un’analogia tra la tela e lo specchio: in entrambi i casi si tratta di superfici bidimensionali in grado di visualizzare la realtà tridimensionale. A partire dal XV secolo si sviluppa una vera e propria scienza dell’ombra e la rappresentazione delle ombre portate diviene segno di fedeltà mimetica. È con artisti come Masaccio, Leonardo e Dürer, argomenta l’autore, che l’ombra portata diviene un elemento strutturale della pittura prospettica e prova di mimesi.
Particolarmente interessante risulta essere l’uso dell’ombra nei dipinti delle Annunciazioni – nel saggio ne sono analizzate diverse – che deve essere interpretata a partire dal testo evangelico di Luca: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”. Il farsi ombra del Verbo determina una proliferazione di interpretazioni legate all’Incarnazione non di rado ispirate alle riflessioni duecentesche di Jacopo da Varazze, l’autore della celebre Leggenda aurea.
Sappiamo come a partire dal Rinascimento prenda piede l’idea di segnalare la presenza dell’artista nell’opera, a tal proposito Stoichita evidenzia come in alcuni casi, ricorrendo all’espediente dell’immagine che mostra l’atto del dipingere, venga mostrata l’ombra della mano dell’artista che si proietta sulla tela. L’autore sottolinea, inoltre, la portata delle riflessioni di Boileau volte ad indicare, nel corso del XVII secolo, come sia la presenza dell’ombra nel quadro a conferirgli lustro: “Boileau rovescia il rapporto metaforico codificato dalla tradizione tra tenebre e luce, proiettando sull’ombra quanto più radicalmente si oppone (‘lo splendore’)”.
Altro importante rovesciamento di paradigma citato nel saggio riguarda la poetica della fase finale di Monet, ottimamente esplicitata da una fotografia da lui stesso realizzata nel 1905 ove, oltre alle, immancabili, ninfee all’interno dello stagno, compare l’ombra dell’artista. Il francese sembra rovesciare il mito delle origini: sulla superficie riflettente non vi è la sua immagine ma la sua ombra. Attraverso la foto, in linea con la sua poetica pittorica terminale, l’artista compie un gesto radicale: “In rapporto alla tradizione occidentale dell’automimesi, l’ombra di Monet proclama il primato (moderno) dello ‘sguardo’ sulla ‘mano’. Propone la sostituzione del paradigma narcisistico della mimesi occidentale con l’elogio orientale dall’evanescenza dell’ombra”.
Ad essere analizzati dal saggio sono anche diversi autori che, nel corso dei primi decenni del Novecento, in reazione al trionfante mimetismo fotografico, ricorrono all’inserimento del proprio profilo in ombra nelle tele. L’autore si sofferma su alcune opere di Picasso in cui l’artista inserisce spesso la propria ombra di profilo sulle tele, dando luogo, in tal modo, ad un “tentativo di ridefinizione dell’intera tradizione riguardante l’ombra della mano che, nell’ambito dell’estetica classica, designava il segno dell’autore sull’opera, mentre qui viene a concretizzare la definitiva scomparsa dei limiti tra produttore e prodotto. (…) Picasso segna così la fine dell’antica tradizione che vedeva nell’ombra il completamento essenziale dell’incarnato. Per lui più che un mezzo per ‘fare’ il volume l’ombra diventa lo strumento per (dis)farlo”.
Il Seicento risulta essere un secolo particolarmente fecondo per il ragionamento sull’ombra, a tal proposito l’autore si sofferma sulle riflessioni prodotte in particolare da Joachim von Sandrart, Samuel von Hoogstraten ed Athanasius Kircher. L’autore del celebre scritto Accademia germanica di pittura (1675), Joachim von Sandrart, viene citato per aver ripreso il mito classico delle origini della pittura sia di Plinio che di Quintiliano nella convinzione che la “pittura/ombra” sia stata ingenerata sia dalla luce del sole (Quintiliano) sia dalla luce del fuoco (Plinio). Un paio di incisioni attestano tale doppia origine: in una viene mostrato un pastore che traccia con un bastoncino il contorno della propria ombra sul terreno, mentre, nell’altra, la figlia di Butodes circoscrive, attraverso una linea nera, il profilo dell’amante sulla parete servendosi della luce di una lanterna. Il pittore secentesco Samuel von Hoogstraten pur nella convinzione che “la perfetta pittura è come uno specchio della natura”, non manca di interessarsi alla rappresentazione dell’ombra, come avviene nell’incisione La danza dell’ombra (1675) ove mostra come si deformino le ombre proiettate su parete di diversi personaggi in base alle differenti posizioni assunte rispetto alla fonte di luce: di pari passo all’aumentare dell’ingrandimento dell’ombra si determina un incremento della sua “demonizzazione”. Gli esseri umani proiettati si ingigantiscono e si deformano trasformandosi in creature mostruose con tanto di coda e corna. Il gesuita Athanasius Kircher, nel testo Ars Magna Lucis et Umbrae (1656), descrive un arnese in grado di creare immagini illusorie combinando il principio del quadrante solare e quello della lanterna magica: si tratta di uno strumento finalizzato alla “demonizzazione dell’ombra”.
Visto che nel mito fondatore della pittura, l’ombra non ha nulla di demoniaco, secondo Stoichita occorre capire come mai l’ombra nella pittura occidentale si trovi spesso investita di valenza negativa. Secondo l’autore la risposta ci è data dallo “stato di alterità della rappresentazione per mezzo dell’ombra portata. Era questo un concetto inerente al mito, nel quale (…) si faceva pure riferimento alla creazione di un doppio. L’abbandono di questo aspetto nel pensiero occidentale sull’immagine si traduce in un cambiamento radicale di paradigma, e questo emargina la rappresentazione/ombra nel tempo mitico delle origini, oppure nello spazio, mitico anch’esso, di paesi lontani. In tal modo, la pittura occidentale smette di essere una ‘pittura d’ombra’ per diventare una pittura che fa uso dell’ombra tra i molti altri sistemi di rappresentazione e di simbolizzazione”.
Tra il XVI ed il XVII secolo, l’ombra assume il ruolo di “nemico chimerico” e si assiste ad un’interiorizzazione dell’ombra in quanto proiezione della persona, come “zona oscura” dell’anima in cui la “negatività interiore si materializza”: l’ombra diviene l’emblema del raddoppiamento negativo. A tal proposito viene citata un’incisione di Johannes Sambucus (Cattiva coscienza, 1564), ove un uomo infierisce con la spada contro la propria ombra ritenuta testimone delle sue malefatte. È come se il personaggio infierisse contro se stesso.
Anche nella letteratura romantica non mancano esempi, fondati sul rovesciamento di una situazione narcisitica, in cui la lotta contro l’ombra di se stessi conduce al suicidio. Viene riportato anche un esempio Novecentesco tratto dai fumetti; si tratta del cowboy Lucky Luke, definito “l’uomo che spara più veloce della propria ombra”, che, alla fine di ogni puntata, ingaggia un duello con la propria ombra che risulta sempre in ritardo nel rispondere al fuoco. In sostanza l’eroe spara contro “il nemico chimerico”, che qui ha la forma della sua silhouette nera.
La trattazione concede spazio anche al caso di Johann Caspar Lavater, autore che, sul finire del Settecento, descrive un nuovo strumento per realizzare meccanicamente le silhouette. Lo studioso, riprendendo l’antica tradizione degli studi di fisiognomica, vede nel profilo circoscritto dell’ombra del viso i segni dell’anima ma, a differenza delle analisi tradizionali, non è tanto il volto ad essere il riflesso dell’anima, bensì l’ombra del volto. Il profilo circoscritto diviene un disegno da interpretare in una sorta di “ombranalisi”. Se si associa a tale pratica la vocazione religiosa di Lavater, ecco che, sostiene l’autore, tale metodo di analisi finisce col proporsi come “cura dell’anima”: nato ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo avrebbe perso la rassomiglianza a causa del peccato ma ciò che Lavater cerca nell’ombra non è la divinità oscurata dalla carne, bensì il lato decaduto.
La distorsione e l’amplificazione dell’ombra risultano essere tra gli strumenti principali utilizzati dalle arti figurative al fine di evidenziare la carica negativa di un personaggio. L’iperbolizzazione dell’ombra, nei tempi moderni, trionfa nel cinema espressionista. Nel trattare il ruolo dell’ombra nelle produzioni di autori come Friedrich Wilhelm Murnau e Robert Wiene, il saggio sottolinea come sia possibile analizzare la loro poetica filmica sin dall’analisi dei singoli fotogrammi; tali autori, infatti, “sviluppano una retorica dell’immagine filmica basata sulla sineddoche”, nel senso che ogni immagine, ogni inquadratura rimanda per analogia o per contrasto all’intero film. In tali opere le ombre ingigantite e deformate sono spesso un’esteriorizzazione dell’interiorità del personaggio.
Il Gabinetto del dottor Caligari (1919-20) di Wiene risulta essere l’incarnazione dei fantasmi del folle narratore del racconto che “appare come il doppio del regista e la proiezione delle ombre come un doppio del film in quanto tecnica figurativa”. Nel caso del celebre fotogramma proposto da Stoichita, “il messaggio metapoetico dell’ombra (…) è un’iperbole del mezzo chiave del cinema espressionista: il piano americano (…) L’ombra viene in tal modo a mettere in discussione la natura stessa della creazione filmica e dei suoi meccanismi di fascinazione”.
Quando osserviamo la silhouette del vampiro in Nosferatu (1922) di Murnau, siamo di fronte al vampiro stesso o alla sua ombra? Visto che i vampiri non hanno ombra, se ne deduce che si tratti di Nosferatu “in persona”, abitante di un universo sotterraneo labirintico quanto l’inconscio freudiano. L’autore ravvisa in Murnau la figura di colui che “mostra le ombre”, che visualizza la parte oscura della coscienza rendendola racconto attraverso un’estetica che mostra analogie tra “ombra” ed “immagine filmica”. “La prova che a questa lettura meta-estetica è data forma nell’ambito del racconto viene fornita allo spettatore solo alla fine del film, nell’attimo in cui il primo raggio di sole su Brema disintegra Nosferatu, e, soprattutto, nell’attimo in cui la luce elettrica inonda la sala di proiezione e lo schermo torna ad essere bianco”.
L’ultima parte del saggio tratta l’ombra e la sua riproducibilità nell’epoca della fotografia ed i meccanismi di moltiplicazione nell’età del trionfo dei simulacri. Passando in rassegna opere come il Quadrato nero (1915) di Malevič e le fotografie realizzate da Brancusi alle proprie sculture, oltre a prove fotografiche di Duchamp e Man Ray, l’autore analizza il ruolo dell’ombra nella rappresentazione artistica degli anni Venti del Novecento. Una breve ma interessante trattazione viene riservata alle “ombre incoerenti” di De Chirico che, paradossalmente, sembrano quasi un tentativo di conferire un senso a quelli che, altrimenti, rischiano di essere meri esercizi costruttivi da manuale; le ombre, in De Chirico, cessano di essere insignificanti per caricarsi di mistero. La “perturbante estraneità” delle opere dechirichiane sembra davvero irridere il codice della rappresentazione occidentale. La chiusura del saggio spetta a Wharol ed ai suoi autoritratti ove entrano in gioco l’immagine in negativo, la moltiplicazione e la polimerizzazione. A proposito della polimerizzazione dell’immagine, suggerisce Stoichita, a partire dagli anni ’60, Wharol, non solo ricorre alla stratificazione tecnica della rappresentazione/simulacro ma, da un punto di vista simbolico, attribuisce un’unità artificiale ed indistruttibile al multiplo della vita. “l’Autoritratto si trasforma, nel suo complesso, in allegoria dell’io nell’epoca della polimerizzazione dell’individuo”. Con un’opera come Doppio Mickey Mouse (1981) si arriva ad una situazione in cui i due personaggi sono sia l’artificiale che la copia, identici seppure diversi. Si apre così quella “vertigine senza fine” propria dell’età dell’ascesa e del trionfo dei simulacri.
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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso) :
– Particolare di fotogramma tratto da Nosferatu (1922) di F.W. Murnau
– Copertina: V. I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art (2015)
– Samuel von Hoogstraten, La danza dell’ombra (1675)
– Fotogramma tratto da Il Gabinetto del dottor Caligari (1919-20) di R. Wiene
– Fotogramma tratto da Nosferatu (1922) di F.W. Murnau