di Jago Malteni
Ecco intanto, per chi se l’è perse, il riassunto delle due puntate precedenti: Giovanni Biglia – Giobi per gli amici – è uno studente di Scienze politiche, appassionato di street art e spesso dedito alla viandanza urbana, alla ricerca di lontane connessioni tra i graffiti che tappezzano i muri del centro. Da un po’ di tempo Giobi è sulle tracce di fantomatici conigli neri dipinti a pochi centimetri da terra: il rinvenimento di due di essi a poca distanza l’uno dall’altro lo ha portato a ipotizzare che debba essercene qualcun altro a segnalare un percorso più lungo, nascosto, segreto. In una nebbiosa e fredda notte d’ottobre, Giobi si risveglia su una panca ai giardini di San Leo, costretto alla fuga dalla perfida guardiana del parco. Ed è mentre s’incammina verso casa che, tutto rintronato, gli occhi gli cadono proprio su ciò che da tempo è l’improbabile oggetto delle sue perlustrazioni: un coniglio nero, uguale agli altri due, dipinto alla base d’un muro in via Belmeloro. Eppure, quando è sul punto di avvicinarsi, il piccolo roditore gli sfugge e comincia a zampettare rasente alle pareti, fino a condurlo, assieme a uno psichedelico carosello di graffiti, in cima al giardino del Guasto. Dove Giobi, ormai frastornato e allo stremo delle forze, sviene, per risvegliarsi solo la mattina appresso. L’allucinante giostra della notte prima è terminata, e anche il nero-coniglio pare sparito nel nulla, ma frugandosi nelle tasche tira fuori uno strano biglietto, con sopra un indirizzo: Via dell’Inferno 10, ultimo piano…
Capitolo 2a
‘u mpernu è nenti..!
Nel suo dialetto, come rivolta a lui, la scritta si staglia sul muro di fronte. Ribussa al citofono più in alto, ancora nessuna risposta.
Confezioni Paradiso, recita l’insegna di fianco. Nome curioso per un negozio al 12 di via dell’Inferno. Coincidenza involontaria o scadente senso dell’umorismo del titolare?
Torna a bussare, ancora niente.
Ripensa, mentre aspetta, ai giri in tondo che ha dovuto fare per arrivare fin lì, in quella viuzza nel cuore del ghetto ebraico, dopo essersi perso e riperso nel budello dei vichi. Aveva ragione Lucio Dalla quando cantava che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambiiino, ma s’era scordato di dire che ‘sto quartiere fa eccezione, ‘rcoggiuda! E dire che su Google Maps non sembrava poi così impervio…
Altra citofonata a vuoto.
La strada, comunque, l’ha ritrovata solo quando è sbucato nella piazzetta dietro l’angolo, quella intitolata a Marco Biagi.
Scocciato ormai dall’attesa, dopo aver provato con l’ennesima bussata, a Giobi non resta che mollare un cazzotto di stizza contro il portone. E quello, inaspettatamente, si apre.
…Strano: da che è lì non ha sentito nessuno scatto, nessun tiro, come dicono da queste parti – specialmente i postini quando vengono a romperti sonno e coglioni di primo mattino. O forse era lì socchiuso già quando, minuti fa, è arrivato…
Poco male, come che sia, perché ora il portone al 10 di via dell’Inferno è aperto e Giobi lo varca con fare guardingo. Lo sente richiudersi alle spalle mentre fa le scale in punta di piedi, fin su all’ultimo piano.
C’è un campanello sul fianco della porta, lo preme. Col piede, nell’attesa, riallinea uno zerbino alle piastrelle del pianerottolo, chiedendosi cosa mai volesse dire l’ideogramma cinese che ha inciso tra le setole. Una voce da dietro lo spioncino gli stoppa i pensieri:
– Cosa tu cerca?
Bella domanda, doveva aspettarsela. Perché non s’è preparato una risposta?
– Ehm… Ciao, io… ho trovato l’indirizzo di questo appartamento in tasca e… niente, ho pensato di fare un salto…
– Io no capisce, cosa tu cerca?
– Ehm… dunque… siccome l’altro giorno mi sono trovato l’indirizzo di questo appartamento nella tasca dei jeans, ho pensato che me lo avesse lasciato qualcuno che aveva qualcosa da dirmi, e così sono venuto. Sì, lo so, anche per me è un po’ strano, ma… posso entrare? C’è nessun’altro dentro?
– No, qui c’è nessuno, qui c’è niente. Tu via ora, andare.
– No, aspetta un momento, io voglio solo sape…
– Io detto: Tu–Via–Ora–Andare!
Nelle ultime quattro parole Giobi ha avvertito come un sovrappiù d’irritazione, un caldo e categorico invito a non tentare di varcare più quella soglia. Faccenda curiosa…
Sarà meglio intanto seguire il consiglio dell’amico dietro lo spioncino. A giudicare dalla voce non deve essere un tipo con cui si ragiona facile.
Con l’aria un po’ storta, delusa, Giobi lascia il pianerottolo e torna a scendere le scale, ma frena la discesa al mancare di pochi gradini. I muscoli del viso gli si stirano in un’espressione di sorpresa quando, di fianco allo stipite del portone d’ingresso, sul retro dell’anta che poco prima aveva aperto entrando, vede proprio quello che vede: un coniglio nero, riprodotto appena sopra il battiscopa, con il muso rivolto in direzione del sottoscala. S’avvicina, lo tocca (no, non gli sfugge!) e lo scruta meglio: uguale e preciso agli altri due, e stavolta di sicuro non è allucinazione. Ma cosa vorrà dire?
Indeciso su come decifrare il segno, ne segue comunque il verso, la direzione.
Pochi passi e si ritrova nel cortile interno del palazzo: uno spazio malcurato, invaso da erbacce e sacchi d’immondizia. In un angolo, di poco discosto dal muro, c’è un cumulo di calcinacci, residuati urbani e mucchi di roba vecchia. La parete opposta ospita invece una porta metallica dai cardini mezzo arrugginiti, blindata con due robusti catenacci. Impossibile, a occhio, aprirla.
Giobi va per avvicinarsi ma ode un tramestio venire dalle scale. Si lancia di scatto dietro il cumulo di cianfrusaglie e, là ben accovacciato, si mette a spiare: è un uomo che arriva, un energumeno in canotta scura, stivali e pantaloni di pelle, dalla carnagione chiara e i lineamenti esteuropei. Forse è il tipo che prima gli ha parlato alla porta… Come se già non bastasse il suo aspetto a incutere timore, il bestione porta un vistoso tatuaggio sul bicipite, somigliante a una specie di svastica ricurva, e un lungo bracciale borchiato a coprirgli per intero l’avambraccio, dal gomito al polso. Un brutto ceffo, insomma.
Giobi inghiotte un bolo di saliva, ma l’Incredibile Hulk dei Balcani tira dritto e non sembra darsi conto della sua presenza. Si dirige verso la porta metallica e dà una voce, come a chiamare qualcuno dentro. E qualcuno, difatti, risponde. Poi, sfilate le chiavi da un moschettone che tiene appeso alla cintola, l’omone piglia ad armeggiare con la serratura, riuscendo ad aprirla solo dopo una mezza dozzina di imprecazioni in slavo antico. Il tipo dentro chiede se va tutto bene, l’energumeno emette un borbottio che vorrebbe dire sì e insieme, l’uno tirando da fuori e l’altro spingendo da dentro, assestano una serie di spinte coordinate, cadenzate da altrettanti uno-due-tre, finché la porta non si spalanca in un ruggito di lamiera.
Giobi, non visto, vede i due scambiarsi le chiavi e darsi veloce il cambio: il bestione entra e l’altro esce, rinserrandogli la porta alle spalle. Pure quest’altro è di stazza imponente, però è di pelle nera, forse magrebino, un tantino più asciutto di fisico e con un vistoso collare che gli pende giù fin quasi all’ombelico. Gli passa sotto gli occhi e, senza vederlo, sparisce là dove una manciata di minuti prima era apparso quell’altro.
Devono essere quelli del piano di sopra… Ma cosa tengono nascosto là dentro?
Rimasto solo nel cortile, Giobi esce allo scoperto e s’accosta prudente alla porta metallica. Dalle fessure degli infissi arrivano spifferi d’aria fredda, intrisa di pesante umidore. Che sarà mai? Una cantina, un deposito? Che il coniglio non stia lì proprio a indicare questa stanza segreta? E gli altri conigli, allora? Ci sono quindi altre porte? E dove? E, soprattutto, dove conducono?
Meglio filare via, comunque.
Cammina per la strada, Giobi, mani in tasca e pensieri in disordine. Si ferma poco più avanti a leggere una di quelle frasi in spagnolo vergate in gesso sul muro, una che non aveva mai visto prima. Dice: Mi corazón será la urna de tus cenizas. Non gli piace: troppo retorica, patetica. Ma è bastata, intanto, a fargli scattare la molla dei pensieri, e già ne ha perduto le redini. Continua a camminare per scrollarseli di dosso ma, come accade ogni volta che se ne vanno soli, quelli, i pensieri, tornano ripidi a scivolare su di lei, tanto che gli pare di sentire il suo odore e vedere la sua faccia dappertutto. E non può che ripensare alla volta in cui, passeggiando per quella via, avevano parlato di tutto e forse di niente, frasi pronunciate e subito cadute, senza che lui se ne avvedesse, nei vuoti di un tardo pomeriggio estivo. Cosa le direbbe se la incontrasse ora? È certo, o quasi, che farebbe scena muta. Al che lei, per spazzare via l’imbarazzo del momento, di sicuro gli chiederebbe qualcosa tipo “Come va?”, e lui penserebbe che non è proprio una domanda facile, quella, e che non potrebbe mai darle una risposta decente così, su due piedi. Poi, in un istante solo, gli si accavallerebbe nella testa tutto il milione di cose che avrebbe da dirle, ma di queste non riuscirebbe a cavare fuori che uno stupido “Bene…”, con voce, per giunta, da coglione. Se la incontrasse ora…
Ma non la incontra. Incontra invece Luca, che lo saluta dal ciglio opposto di via delle Belle Arti.
– Gioobi!
– Ciao Lu’, do’ vai?
– Niente, facevo uno dei miei giri di ricognizione. Ti va di fare sosta al Guasto? Ho una robetta nientemale arrivata fresca dall’Olanda…
– Sì, dai, vengo con te, tanto non c’ho un cazzo da fare. Prima però passiamo a prendere un paio di sessantasei dal pachistano all’angolo…
Luca ha dimesticanza con l’erba. E quella lì, a giudicare dall’odore e dalle venature arancio-sottili sulle cimette, deve essere buonissima. La trita con facilità e intreccia una canna in meno di trenta secondi.
– Gio’, ma poi che fine hai fatto l’altra sera?
– Io!? Che fine hai fatto tu co’ quegli altri, là! Io le ho provate tutte per rintracciarvi. Ci mancava solo che ricorressi alla telepatia. Anzi, mi sa che c’ho provato pure co’ quella… Poi a una certa mi so’ cacato il cazzo e…
– E…
E Giobi, dopo breve silenzio, gli racconta tutto per filo e per segno, dai deliri lisergici dell’altra notte fino alla recente visita all’inferno. Impiega un buon quarto d’ora, non tralascia i dettagli. Luca lo ascolta attento, ora divertito e ora incredulo, a tratti di stucco. Se la ride e un attimo dopo strabuzza gli occhi. È talmente preso che si dimentica di accendere lo spinello appena rollato e continua a rigirarselo, spento, tra le dita.
– Ma pensa tu! Ti sei fatto proprio un trip di quelli… Pazzesco, compare, veramente! Questa è psichedelia pura! Ma che robba t’eri fatto?
– Macchenesò, Lu’! So solo che tutti ‘sti animali qua sulla parete io li vedevo scorazzare dappertutto e sbattere uno in collo all’altro!
Luca si rovista i tasconi: – Gio’, per favore, passami un accendino prima che ‘sto spino mi si secca nelle mano…
– Non ce l’ho, Lu’, non mi fare bestemmiare. Qualcuno deve avermelo allisciato proprio l’altra sera…
– ‘orcoddue, e mo? Pure io so’ senza. Il bello è che senza un accendino nemmanco ‘na cazzo di birra ci possiamo aprire!
– Tranquillo, alla birra ci penso io…
Giobi caccia una birra dallo zaino, la stappa facendo leva su una fibbia, ne ingolla un sorso e la passa al compagno.
– Comunque, Gio’, a proposito di narcotici, m’è appena venuto a mente che una volta, e ti parlo di fine anni Settanta, ‘sto posto era il luogo preferito dai tossici per farsi. È per questo che poi il giardino è rimasto chiuso per tipo vent’anni. Dice pure che, ai tempi, una delle basi di spaccio fosse in un vicoletto nei paraggi… Si smerciavano soprattutto droghe allucinogene: funghetti, acidi, LSD… sai, ‘ste prelibatezze qua! E dico: non è che l’altra sera hai preso una robba del genere e oggi, per puro caso, hai incocciato quelli che te l’hanno spacciata?
– Eh, può essere, pure io c’avevo pensato. A maggior ragione mo che m’hai detto ‘sta cosa. Però, Lu’, se pure fosse, io rimango convinto che non è successo “per puro caso”, come dici tu… Io là ci sono andato perché c’avevo l’indirizzo in tasca. E anche il fatto che nell’androne di quel palazzo ci ho trovato un altro coniglio, io non lo chiamerei un “puro caso”… capisci?
– Sì! È vero, Gio’, pensandoci hai ragione. Certo che è curiosa ‘sta storia…
– Sì, da non crederci. Io stesso non mi faccio capace. È come, non so… una specie di sogno ibrido, strambo… all’incrocio tra Paura e Delirio a Las Vegas e L’Ispettore Coliandro!
– Ahahahahaahah! Bella questa! …Comunque, Gio’, sul serio, vorrei aiutarti a vederci più chiaro, però non so… Anzi no, aspe’, mo’ che ci penso… Vieni, vieni che ti mostro una cosa…
Pochi sanno che, incastonato nel muro all’entrata dei giardini del Guasto, nascosto tra le pietre che sostengono il cancello, c’è un ingresso per chiavette USB. Luca è tra questi. E, ora, anche Giobi.
– Vedi, è qua. L’ingresso è programmato in maniera che, infilandoci una pennetta, prima si scarica i dati e poi carica su quelli che c’erano prima. Capito? Significa che tu, mettendo la tua pennetta, dai i tuoi file e ricevi tutti quelli che qualcun altro ha messo prima di te…
– Minchia, Lu’! ‘Sta cosa è ‘na figata! E pensa che in borsa c’ho pure la chiavetta!
– Ottimo, ‘uarda: basta che la metti qua e aspetti qualche minuto, giusto per stare sicuro che l’operazione va in porto. È una specie di memoria collettiva… da cui, bada, non si può cancellare nulla…
– Strepitoso, compa’! Ma perché non me n’hai mai parlato prima?
– Perché chi me l’ha confidato, tempo fa, m’ha raccomandato di non farne parola con nessuno. È una cosa che sanno in pochi, Gio’. E se te la dico è solo perché voglio aiutarti a trovare un senso dentro ‘sta…
– E perché credi che posso trovarlo qua?
– Io non credo niente, Gio’, però dico che se provi a spulciarti tutto il materiale che sta qua dentro, capace pure che qualcosa la trovi. Tentare non nuoce. E poi, se non ricordo male, c’è su della robbetta che può fare preciso al caso tuo…
A domenica per la prossima puntata. Qui le precedenti. E qui le pagine dedicate su Facebook e Pinterest...
[Disegni a cura di l’éparvier]