di Gioacchino Toni
Gianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00
Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc.
“Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. Il primo numero della pubblicazione romana “Cinema&Film” è dell’autunno-inverno 1966 e, sin da subito, è palese come i giovani critici intendano: applicare al cinema un approccio linguistico strutturalista; analizzare soltanto i film che desiderano supportare; porsi a difesa di un “cinema altro” ed, in alcuni casi, passare dall’atto della critica scritta a quello del “misurarsi con la realtà del costruire immagini e immaginario, del fare insomma cinema con e nei film”. La pubblicazione della rivista romana termina all’inizio degli anni ’70. “Ombre rosse” nasce, invece, a Torino nel 1967 con una forte connotazione politica che ha come riferimenti le lotte studentesche ed operaie del periodo. In questo caso il film viene esplicitamente concepito come “prodotto ideologico dell’industria culturale” ed oltre a trattate le opere supportate vengono affrontati anche i film che si intendono contestare da posizioni ideologiche ben precise. Ad inizio anni ’70 la rivista torinese si trasforma divenendo una testata politico-militante.
Secondo Alfredo Rossi risulta interessante confrontare le modalità contemporanee di “pensare il cinema” con “quell’assunzione di moralità leggendaria, talvolta derisoria ma tumultuosa e vera” di “Cinema&Film” e di “Ombre rosse” e, da tale confronto, emerge in tutta evidenza lo “scollamento tra il pensare-cinema, il dire-cinema” di allora e “l’odierno parlare-cinema e consumare-cinema”. Ad essere scomparsa, continua Rossi, è “l’urgenza del giudicare in un ambito dichiarato di posizionamento ideologico, selettivo, rabbioso, talvolta euforico, comunque innovativo, un fenomeno complesso come quello del cinema”. A tutto ciò sembra essersi sostituito “un appiattimento benevolente, in funzione accademica, neutra, di tipo storicistico o di gusto, nel render conto di un reale, vecchio e nuovo, di nessun interesse”. Non vi è traccia nell’attualità di quel voler “essere di parte” presente nelle due riviste degli anni ’60.
La critica cinematografica portata avanti dalle due testate, pur derivata dall’amore per il cinema ed i film, finisce spesso per parlare anche di altro, ricorrendo all’oggetto film “come segno o sintomo di altro”, studiandone “il meccanismo specifico di effetto di credenza, di prodotto industriale, in senso marxista e adorniano, per superare, appunto, la relazione acritica d’oggetto”. Ormai, sostiene Rossi, si è compiuto quel “tragitto di accreditamento culturale e artistico del cinema nel suo tutto, attraverso un processo di sussunzione estetica cui consegue che il film venga, comunque, sublimato in valore-cinema, appartenendo tecnicamente a quella universitas, e come tale speso nella catena di mercato delle idee, in un circuito che va dall’asseveratore dei valori, il critico, al consumatore finale, lo spettatore cinefilo, anello ultimo e debole del nuovo infantilismo del vedere”. Oggigiorno ha conquistato la scena “l’ideologia del film come valore per il solo fatto di essere, di esistere quale cosa cinematografica, e di poter esser catalogabile come tale in un tessuto ideologico e immaginario appagato”.
Emiliano Morreale, nel suo intervento, ricorda come le due riviste nascano quando è ormai finita la Nouvelle Vague francese, Hollywood mostra di patire la crisi economica e l’esordio in Italia di Bellocchio e Bertolucci, più che aprire un ciclo, sembra chiudere una stagione. Morreale invita i lettori più giovani, che non hanno vissuto il clima degli anni ’60 in cui si è data l’esperienza delle due testate, a notare quanto all’epoca si vedesse nel cinema davvero una possibilità di crescita umana ed uno strumento di miglioramento sociale.
Jacopo Chessa puntualizza come con l’espressione “critica militante”, in Italia, venga designato quell’ambito di critica “non accademica e nemmeno quotidianista” che, prestando particolare attenzione alla produzione contemporanea, privilegia l’approfondimento alla divulgazione. In generale il fatto di esercitare una critica militante non vuole per forza di cose dire essere militanti dal punto di vista politico ma, sostiene Chessa, a partire dalla fine degli anni ’60, la maggior parte della critica militante è militante anche politicamente. “Se il PCI aveva una sua cultura ufficiale, dei cineasti da sostenere, delle riviste dove farlo e una casa di produzione di riferimento, l’Unitelefilm, i militanti alla sua sinistra erano obbligati a inventare un nuovo approccio e un nuovo linguaggio che fossero, realmente, ‘rivoluzionari’”.
Le riviste “Ombre rosse” e “Cinema&Film” si trovano innanzitutto a dover individuare “quali film sostenere per il loro valore politico”, come vengano trattate le questioni politiche nei film, come affrontare, a livello di critica, tali opere ed, infine, come rapportarsi nei confronti del “cinema militante”. A proposito del rapporto tra critica e militanza, nel n.7-8 del 1969 la redazione di “Cinema&Film” così sintetizza le differenze con “Ombre rosse”: “Noi facciamo una rivista di cinema che, qualche volta, parla incautamente di politica e loro una rivista politica che, spesso, parla di cinema”. “Ombre rosse”, nell’articolo “Cultura al servizio della rivoluzione”, steso a diretto contatto con il movimento studentesco torinese, dichiara sulle sue pagine come il cinema che intende porsi al servizio della rivoluzione debba contribuire a cambiare il mondo.
Con tutte le sue contraddizioni, la cinematografia hollywoodiana è, in genere, supportata da entrambe le riviste. È pur vero che “Cinema&Film” dedica gli approfondimenti ai grandi autori come Rossellini, Godard e Straub o, in diverse occasioni, al “nuovo cinema italiano”, ma, sostiene Chessa, “avendo sempre negli occhi la lezione dei grandi maestri americani” come Hawks, Walsh, Ford, Chaplin, Welles ecc. “Cinema&Film” dedica molto spazio al “New American Cinema”, mentre “Ombre rosse”, pur occupandosi di questo fenomeno, opta, a partire dal quinto numero, per la cinematografia del Terzo mondo, soprattutto latinoamericana, individuando in essa “un modello da imitare nella definizione di un cinema d’intervento che non si rassegni alla piatta illustrazione dei fatti o alla propaganda, sia pure rivoluzionaria”.
“Ombre rosse” si pone come “avanguardia teorica di un cinema politico che si vorrebbe allo stesso tempo militante e rivolto alle masse, alla ricerca di una norma rivoluzionaria”. “Cinema&Film”, come cinema politico, privilegia, invece, “quello che si manifesta come tale sul piano del linguaggio”; ad essere enfatizzata è la rivoluzione formale che si manifesta in alcune pellicole, pertanto il discorso tende ad essere centrato su “eccezioni” al cinema tradizionale portate da autori come Godard, Rocha, Bene ed, in generale, dal “New American Cinema”. La “questione del linguaggio e del suo rapporto con il politico”, sul finire degli anni ’60, è fonte di riflessione e discussione; come conciliare una volontà contenutistica rivoluzionaria con il mantenimento della “lingua dei padroni”, e di “modalità comunicative, figurative, espressive imposte dal capitale”? La ricerca di un cinema diverso sia dal punto di vista linguistico che politico, finisce, inevitabilmente, con la critica del suo processo di produzione. “Cinema&Film”, sostiene Jacopo Chessa, pare più critica nei confronti “del cinema in mano agli ‘autodidatti’, ai collettivi studenteschi o politici che spesso si limitano a registrare delle situazioni”, “Ombre rosse” sembra, invece, aprirsi maggiormente a tali esperienze anche se il conseguimento di “un cinema veramente militante” pare restare più un’ambizione che non un’esperienza realmente conseguita.
L’intervento di Adriano Aprà ricostruisce la nascita della rivista romana a partire dall’uscita di un gruppo di giovani critici da “Filmcritica” e ricorda come il titolo della testata “Cinema&Film” (“C&F” come acronimo), nel suo legare i due termini senza spazi intermedi, corrisponde allo spirito del gruppo che ha dato vita alla rivista: “l’astratto (cinema) non disgiunto dal concreto (film), la teoria strettamente legata alla pratica”. Il comitato direttivo originario risulta composto, oltre che dallo stesso Adriano Aprà, in veste di direttore responsabile, da Luigi Faccini, Luigi Martelli, Maurizio Ponzi, Claudio Rispoli e Stefano Roncoroni. Nel corso della breve vita della rivista, alcuni dei critici della prima ora abbandonano e si aggiungono nuovi collaboratori come Franco Ferrini, Gianni Menon, Piero Spila, Enzo Ungari, Oreste De Fornari, Alfredo Rossi e Paquito Del Bosco.
Per farsi un’idea degli interessi di “Cinema&Film”, Aprà invita a passare in rassegna le immagini pubblicate in copertina e controcopertina: n. 1: Rossellini/Pasolini; n. 2: Chaplin/Godard; n. 3: Bertolucci/Bellocchio; n. 4: Welles/ Ferreri; n. 5-6: Straub-Huillet/Ponzi; n. 7-8: mosaico di nove giovani registi italiani/mosaico di foto tratte dai loro film; n. 9: Chaplin/Bene; n. 10: Hitchcock/Oshima; n. 11-12: Dreyer/Buñuel. Informazioni circa le preferenze dei critici di “C&F” si possono ricavare anche dall’elenco dei cineasti a cui viene chiesto di partecipare alla stesura delle classifiche dei migliori film: Amico, Bargellini, Bellocchio, Bertolucci, Brunatto, Cottafavi, Del Monte, Ferreri, Orsini, Pasolini, Rocha, i Taviani. Inoltre, tra gli altri autori amati dalla rivista romana, Aprà ricorda Ingmar Bergman, John Ford, Jerry Lewis, Michelangelo Antonioni, Eric Rohmer, Stanley Kubrick, Jacques Tati, Claude Chabrol e Glauber Rocha. Diverse anche le interviste pubblicate, tra le tante vale la pena citare quelle a: Dušan Makavejev, Robert Kramer, Ferreri, Jean Rouch, Straub, Bergman, Ponzi, Gianni Amico, Gian Vittorio Baldi, Bertolucci, Olmi, Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, Glauber Rocha, Gustavo Dahl e Carmelo Bene. Se tali elenchi testimoniano la “tendenza cinefila” del gruppo, il racconto di Aprà prosegue nel ricostruire “la tendenza teorica” della rivista. In questo caso la semiologia ha un ruolo importante, sono infatti stati pubblicati testi di Pier Paolo Pasolini, Roland Barthes, Roman Jakobson e Christian Metz, oltre che scritti di (e su) Ejzenštejn, Dziga Vertov, Erwin Panofsky, Emilio Garroni, Theodor W. Adorno, Roger Munier. Adriano Aprà, a proposito della teoria, tiene a sottolineare che, per quanto lo riguarda, è stata intesa come “strumento per l’analisi dei film”, dunque “una teoria immediatamente da applicare alle opere”.
Nel suo intervento, Luigi Faccini, ricorda le riflessioni del gruppo di “C&F” a proposito del linguaggio e dello stile da utilizzare negli articoli al fine di indagare le scelte stilistiche dei cineasti. Ed è proprio a partire dall’analisi delle scelte stilistiche dagli autori che diversi critici iniziano a studiare regia.
Goffredo Fofi, invece, nel ricostruire il clima degli anni ’60, entro cui nascono le due riviste, si riferisce a quel periodo come “l’ultima epoca davvero vitale delle arti, quella della presa di parola di una generazione irrequieta che rifiutava i diktat delle ‘scuole’ consolidate ‘di destra’ o ‘di sinistra’ – in Italia, del corporativismo romano-centrico, dei bavosi residui zavattiniani, degli ottusi ideologismi aristarchiani (e togliattiani), delle tranquille degustazioni borghesi, di un angusto cattolicesimo non scosso, in cinema, dall’’aggiornamento’ conciliare. Una generazione che voleva dire la sua, mettersi in gioco, entrare in lizza. Non solo i registi, anche i critici. Ma mentre i primi si erano mossi per tempo, approfittando del boom e della funzione civile e di massa che il cinema continuava a svolgere, i secondi si dimostravano molto più lenti, i giovani imbarazzati da vecchi invadenti e ricattatori. Fu sulla scia di quel che accadeva a Parigi – e per opera di giovani italiani che la Parigi della Nouvelle Vague e dei ‘Cahiers’ oppure di ‘Positif’ (e di ‘Les Temps Modernes’, ‘Esprit’, ‘Le nouvel observateur’) frequentavano assiduamente, chi direttamente e chi semplicemente divorando le loro pagine – che nacquero ‘Cinema&Film’ e ‘Ombre rosse’”. Fofi sottolinea come entrambe le riviste possono essere definite militanti, seppur pur in maniera diversa: “Cinema&Film” “ancorata al cinema e nella speranza-illusione di creare un movimento di nuovi registi (ne vennero, ma assai deboli) e incidere dal centro del mini-impero cinematografico della capitale, della centralità romana”, mentre “Ombre rosse” la descrive come “inserita in una battaglia culturale di più ampio raggio”, all’interno di un dibattito che vede nell’intervento politico “lo sbocco delle ricerche e tensioni culturali”. Con il ’68 tutto si intensifica e tutto si trova a gravitare attorno ad un movimento che mette “la politica al primo posto”.
Gianni Volpi evidenzia come la visione del ruolo del cinema dei giovani critici di “Ombre rosse”, si trovi, sin da subito, a cercare punti fermi nei francofortesi, nelle avanguardie, in Brecht, nel surrealismo, in Majakovskij, ed in generale nel clima culturale degli anni ’30. L’aspetto critico che sicuramente contraddistingue “Ombre rosse”, non deve sminuire l’attenzione rivolta dalla rivista “ai valori di linguaggio (e ad altri linguaggi: vedi il fumetto con le tavole-recensione disegnate appositamente da Buonfino o Crepax o Ballesta, o il romanzesco dei generi bassi)”.
Volpi sostiene che le due testate nascono dall’insoddisfazione per la cultura cinematografica dominante e che, in entrambi i casi, il tentativo è quello “di porsi come interlocutori reali di alcuni autori, seppure diversi per ciascuna delle due riviste”, cioè di confrontarsi con chi praticamente realizza film. Tra gli autori amati da “Ombre rosse” ricorda Welles, Buñuel, Lang e Losey, definiti all’epoca come “i grandi della negazione”, capaci di “negare il mondo così com’è” e di “proporre forme e visioni in grado di scavare oltre la superficie”. Poi, ancora, la rivista indaga il cinema di Bresson, “espressione di un cattolicesimo come linguaggio e non come posizione”, alcuni autori della Nouvelle Vague, Rocha, Guerra, Solanas, il “Cinema nôvo” brasiliano, quello latino-americano, il cinema cubano, vietnamita ecc., senza dimenticare l’interesse per il “cinema militante”. Ad essere amati sono anche gli autori della “crisi del sogno americano” come Penn, Cassavetes, Jerry Lewis, poi, più tardi, Kazan e Robert Kramer. A parte i casi di Bellocchio e Ferreri, il cinema italiano, a causa di quella che Volpi definisce la sua “medietà”, viene invece sostanzialmente rifiutato dal gruppo di “Ombre rosse”.
La sezione antologica di Barricate di carta, per quanto concerne gli scritti di “C&F”, riproduce, in maniera parziale o integrale: “Editoriale” n. 1 Testo redazionale – “Godard à part, la bande des autres…” di Luigi Faccini – “Editoriale” n. 2 Testo redazionale – “Riflessione prima sui metalinguaggi critici” di Luigi Faccini; “Due o tre cose su Roberto Rossellini” di Maurizio Ponzi – “Immagine autoritaria e immagine trascendente” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 4 Testo redazionale – “Verso un cinema di risposte?” – “Editoriale” n. 5-6 Testo redazionale – “Cinema con le mani sporche” di Adriano Aprà – “Un totale equilibrio incarnato” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 7-8 Testo redazionale – “Nosferatu ’70: una sinfonia del disordine”di Enzo Ungari – “Appunti su una teoria del film permanente” di Piero Spila – Jack e il principe Hal poi Henry V” di Maurizio Ponzi – “I migliori rivoluzionari del 1968” di Maurizio Ponzi – “Le cadavre exquis del cinema rivoluzionario”di Piero Spila – “Sogni rubati” di Alfredo Rossi – “West by Northwest” di Franco Ferrini – “Introduzione all’arcipelago Hitchcock” di Enzo Ungari – “Editoriale” n. 11-12 Testo redazionale – “Dreyer: artificio, spazio, luce” di Adriano Aprà.
Per quanto concerne, invece, gli scritti di “Ombre rosse”, sono riprodotti, in maniera parziale o integrale: “Way Down East” di Goffredo Fofi – “A film politico giudizio politico” a cura di Paolo Bertetto, Goffredo Fofi, Massimo Negarville, Vittorio Rieser, Gianfranco Torri, Gianni Volpi – “Per una veridica filmografia del verace” di Saverio Esposito – Marco Bellocchio: Vento dell’est. Intervista su La Cina è vicina” a cura di Goffredo Fofi – “La negazione assoluta di Bresson” di Gianni Volpi – “Autunno senza Cheyenne. Ford e Missione in Manciuria” di Piero Arlorio – “Segni di riscontro su una vecchiaia felice” di Goffredo Fofi – “I verdi prati di Oxbridge. ‘incidente di Joseph Losey” di Gianni Volpi – “Ganster Story” di Juan Ballesta – “Cul de sac” di Guido Crepax – “Cultura al servizio della rivoluzione” Testo redazionale – “Godard uno e due. Masculin Féminin, Week-end” di Gianni Volpi e Paolo Bertetto – “Il cinema e il movimento studentesco” di Massimo Negarville – “Il cinema come fucile. Intervista a Fernando Solanas” a cura di Gianni Volpi, Piero Arlorio, Goffredo Fofi e Gianfranco Torri – “La prigione cristiana. Nazarin, La via lattea” si Goffredo Fofi – “Andremo a Thaiti. Dillinger è morto” di Gianni Volpi – “Alla ricerca del positivo” di Goffredo Fofi – “Cronaca del Cronopio: critica e intervento” di Goffredo Fofi.