di Jago Malteni
Ecco, per chi se l’è persa, il riassunto della prima puntata: Giovanni Biglia – Giobi per gli amici – è uno studente di Scienze politiche, appassionato di street art e spesso dedito al vagabondaggio per le vie di Bologna, alla ricerca significati che mettano in connessione i tanti e tanti graffiti che tappezzano i muri del centro. Da un po’ di tempo Giobi è sulle tracce di fantomatici conigli neri dipinti a pochi centimetri da terra, dopo che ne ha visti due identici a poca distanza l’uno dall’altro (e ipotizzando da ciò che debba essercene qualcun altro a segnalare un percorso più lungo). In una nebbiosa e fredda notte d’ottobre, Giobi si risveglia su una panca ai giardini di San Leo, in via Belmeloro, costretto alla fuga dalla vecchia e mefistofelica guardiana del parco. Ed è mentre s’incammina verso casa che, strafatto e allucinato, gli occhi gli cadono proprio su ciò che da tempo è l’oggetto, ritenuto ormai introvabile, delle sue perlustrazioni: un coniglio nero, dipinto alla base di una parete e uguale agli altri due. Giobi s’avvicina, ma quando è sul punto di toccarlo il nero-coniglio scompare, per ricomparire lesto e zampettante poco più avanti. Non c’è altro da fare, a questo punto, che seguirlo… [Link ai vari capitoli de L’Arca della Fattanza] + [Disegno di copertina di l’éparvier] + (L’arca della fattanza, intanto, è sbarcata anche su Pinterest!)
Capitolo 1b
In bilico tra il kolossal e il b-movie da spazzatura.
Così recita una scritta sul muro, in via Belmeloro, a caratteri maiuscoli e tanto serpeggianti da parere mobili.
Il nero-coniglio ci passa sotto con un guizzo e raggiunge più avanti la muratura esterna di un palazzo color salmone, l’intonaco stinto, sbiadito… Effetto della nebbia? Non il tempo di chiederselo che, da uno spicchio di muro più scolorato degli altri, Giobi scorge una sottospecie di ameba bianca che prende a fluttuare lungo la parete, passandogli proprio davanti agli occhi. Altro effetto della nebbia? O di quella che gli appanna le cervella?
Troppe domande. Tanto vale mettere tutto tra parentesi, come diceva quel filosofo austriaco, sospendere ogni distinzione tra realtà e surrealtà e proseguire il viaggio senza stare a chiedersene il motivo.
Tanto più che, nel mentre, il coniglio ha già svoltato l’angolo e pare dirigersi al cospetto di un enorme graffito che campeggia sul muro in fondo allo spiazzo, all’incrocio con Sant’Apollonia. Da lontano Giobi ne distingue a malapena i contorni, ma fattosi dappresso capisce trattarsi di un ratto gigante, mezzo spelacchiato e proteso verso una dimora olimpica che si leva in alto alla sua sinistra, con sotto la scritta: Compro casa a dio. La rilegge. Gli suona ermetica, sibillina.
Un ratto, sì, un sorcio abnorme, con un ghigno torvo e reso più forastico dalla prominenza degli incisivi. Un falso ericailcane, si direbbe a squadrarlo meglio. Un roditore, comunque, come lo è lo scoiattolo e come lo è il coniglio… È vero, cazzo, il coniglio! Che fine ha fatto? Giobi si volta di scatto e fa appena in tempo a scorgerlo mentre s’infrocchia di nuovo tra i portici di Belmeloro, girando un gomito di muro senza scollarsi dalla base scalcinata della parete. Non può lasciarselo sfuggire, prosegue il tallonamento.
Altri esseri, frattanto, amorfi e inclassificabili, cominciano a muoversi tutt’attorno in un fitto ordito di psichedelia murale: trampolieri che s’alzano in volo, lucertole con gli occhi a spirale che s’inerpicano su per le grate delle finestre, giraffe dal collo retrattile, cilindri che si comprimono e rimbalzano, virgulti che germogliano, folletti che caracollano, rampicanti che s’arrampicano. Anche il coniglio seguita a conigliare, mentre un cane cieco e nerofumo piscia contro una colonna sotto il portico di via Acri.
È una scritta, poco più avanti, che pare suggerire l’esatta e unica definizione possibile di tutto ciò: Arca della Fattanza.
Il carosello s’interrompe lungo le pareti esterne di una chiesa (e ti pareva! Poi dice che uno bestemmia…), salvo poi riprendere all’incrocio con via Zamboni, nel tratto che precede piazza Verdi. Per quel che può Giobi ci butta un occhio: la piazza è un tappeto di bottiglie vacanti, una landa deserta, livida, appiccicaticcia. Due punkabbestia dormono nel lerciume sotto il portico del teatro. Alle sue spalle, in penombra, appena si distingue una scritta che non vede: Siamo tutti fuoriluogo.
Il coniglio fila dritto e scompare nel breve quarto di strada che porta all’imbocco di via del Guasto. Ed è lì che ricompare l’istante successivo, sotto lo sfarfallio di una lunga bacheca tappezzata di annunci. Giobi l’avvista e brancola nello sforzo di mantenere la rotta, costretto passo dopo passo a spiccicare le suole dal lastrico adesivo. Calcia un vetro senza volerlo e quello rotola producendo un fracasso industriale, che rintrona sordo sotto la cappa di silenzio ovattato. Un puzzo di vomito e piscio stagno, poco più avanti, gli si ficca aggressivo nelle narici, miasma putrido che esala dalle giunture dei basoli e gli arriva come una sferzata in pieno volto.
Il coniglio continua a trotterellare; l’ombra di Giobi, con fatica, riesce a stargli appresso.
Al bivio, addossate l’una sull’altra, flessuose e con le pupille fluorescenti, compaiono altre due amebe che gli fanno strada verso il cancello d’ingresso, stranamente aperto, del giardino del Guasto – dov’è che il coniglio s’è giust’appena infilato.
Senza ormai più esitazioni, Giobi inforca la salita che conduce all’interno del parchetto. I rami e le frasche sono come tentacoli, ai lati del cemento, e quasi gli pare che arrivino a ghermirlo, a imbozzolarlo nel viscidume e inghiottirselo come farebbe una pianta carnivora. Ma riesce a svincolarsi dall’assalto immaginario e, arrancando per un’altra decina di metri, a raggiungere il punto più alto del giardino.
La scena, in cima, è di quelle che mozzano il fiato, se mai ce ne fosse ancora bisogno: una pletora sterminata di animali dipinti si leva e prende vita sulle due dimensioni di una parete ondivaga, fluttuante. Dai pesci agli uccelli, passando per rettili, anfibi e anche dinosauri, tutti i graffiti prendono a brulicare in ogni direzione. È un circo impazzito, un’orgia senza freni, uno zoo a gabbie spalancate. Le bestie più feroci mostrano artigli e digrignano denti, spalancano fauci, emettono versi terrificanti. I più deboli si agitano, dimenano zampe e ali e code, tentano di scappare ma restano imprigionati nel perimetro del murale.
Eccola, l’Arca della Fattanza! Il delirio! Onirico, lisergico delirio…
Giobi non lo regge e s’accascia, svenuto, al suolo.
Lo ridestano l’indomattina i rumori della città che si sveglia.
Si stropiccia gli occhi e contrae per quanto può i muscoli delle palpebre, più pesanti di saracinesche ammaccate. Vede i mostri. Ha il viso pallido e le orbite verdi, né più né meno la faccia che può avere uno dopo aver dormito ore su un materasso di calcestruzzo e sotto una coltre di nebbia autunnale. Minchia, che levataccia! Ma do’ cazzo si trova? Si guarda intorno ciecato di sonno, stonato come una scimmia del Borneo.
Un minuto e più per ricalibrare la vista e mettere a fuoco: niente, i graffiti sono lì, ognuno al suo posto, immobili tatuaggi sulla pelle della città. Svanito è il delirio della notte: era solo nella sua capoccia. Ma… che ne è di tutto il resto? Le amebe, le scritte semoventi, il coniglio… Il coniglio! Do’ cazzo è il coniglio?
Lo cerca nei dintorni, non lo trova.
È talmente assurdo quello che ha visto ieri notte che si ribella all’idea di ripensarci, di costruirci sopra un qualunque tipo di ragionamento. E poi neppure ci riuscirebbe, tanto è rintronato… Ma che ora è? Le nove passate, ‘orcoggiuda! Ci sarebbe lezione, e farebbe pure in tempo ad andarci, ma con la faccia da zombi che si ritrova forse è il caso di rintanarsi in casa e restarci fino a svernare.
C’ha voglia di fumare ma non ha sigarette. Può comprarle al primo distributore, la tessera sanitaria dovrebbe averl… No, cazzo! Se l’è scordata in camera, sulla scrivania. E manco c’ha l’accendino, il suo fedele, inarraffabile accendino, con sopra la scritta Fight for your lighter.
Sfiga! No, perso no… deve avere scordato pure quello a casa. Come la cazzo di tessera sanitaria, il cervello, l’iPod e tutto il resto… Anzi no, aspe’… l’iPod, per intercessione della mano di chissà quale santo, ce l’ha in tasca. Fruga e lo tira fuori, assieme a uno strano biglietto che dice: Via dell’Inferno 10, ultimo piano.
Ma che robba è? La calligrafia pare quella di uno sballato. Curioso, comunque: deve averglielo rifilato qualcuno durante uno dei buchi della notte passata…
Sono ancora troppe le cose che Giobi non riesce a ricordare. Avrà il tempo di pensarci, di ricostruire, magari di andarci pure, all’inferno, dopo aver capito dov’è. Ma per ora vuole solo tornarsene a casa, a fare un cazzo di niente fino a dopodomani. Impugna l’iPod, infila le cuffie e lascia partire un album a caso dalla playlist dei preferiti…
Are you such a dreamer | To put the world to rights?… | I’ll lay down the tracks | Sandbag and hide… | And two and two always makes a five | It’s the devil’s way now | There is no way out | You can scream and you can shout | It is too late now | Because you have not been paying attention, paying attention, paying attention, paying attention…